Quali indicazioni si possono desumere dalla classifica delle migliori mostre del 2024 di Finestre sull’Arte? Quest’anno, per la prima volta, la nostra rivista ha deciso di lanciarsi in un’operazione nuova: demandare a una giuria di oltre cento addetti ai lavori il compito di votare le mostre dell’anno appena trascorso. Per il 2024, dunque, nessun elenco a sentimento della redazione: abbiamo affidato l’incombenza agli esperti. Giornalisti, direttori di musei, storici dell’arte, critici, curatori, uffici stampa, galleristi, antiquari, artisti.
Non si tratta, ovviamente, d’un voto che abbia pretesa d’oggettività assoluta, né il campione, per quanto ampio e vario, è stato selezionato sulla base di criteri statistici che possano essere definiti scientifici, e si partiva da una rosa di quaranta mostre comunque scelte dalla redazione della testata: abbiamo tuttavia cercato, intanto, di offrire ai “giurati” una base ampia, includendo tutte le mostre di cui s’è parlato di più, quelle più interessanti, quelle più grandi e visitate, e poi ogni esperto chiamato a votare aveva comunque facoltà d’indicare due mostre aggiuntive a propria scelta. Abbiamo poi cercato di radunare una platea di giurati quanto più possibile varia e distribuita (chi voglia conoscere i singoli nomi, può consultare l’elenco nell’articolo in cui abbiamo pubblicato i risultati). Quanto al voto, ci siamo inventati un metodo che fosse il più equilibrato possibile: ai giurati è stato chiesto di dare un voto da 1 a 10 alle mostre visitate, dopodiché, per offrire un minimo di riparo da eventuali voti istintivi, per ogni mostra sono stati scartati il voto più alto e quello più basso, e alla fine delle due settimane di tempo date ai giurati per esprimersi è stata calcolata una media aritmetica, moltiplicata per un coefficiente assegnato sulla base del numero di voti ricevuti, per garantire un piccolo vantaggio alle mostre più visitate dagli esperti, e che quindi hanno attirato più attenzione, ma calibrato in modo da non penalizzare troppo le mostre altrettanto interessanti ma meno visitate. E dati i risultati riteniamo che sia comunque possibile un’analisi.
Il dato più evidente ch’emerge dalla classifica delle mostre d’arte antica e moderna, è che gli addetti ai lavori premiano i progetti solidi e inediti. Vale per tutte le mostre che si sono piazzate nei primi dieci posti della graduatoria. Si potrà obiettare sul fatto che la vittoria sia andata a una mostra, quella su Federico Barocci a Urbino, con cui s’è approfondito un artista ch’era già stato ampiamente indagato quindici anni fa (in una memorabile mostra che s’era tenuta nel 2009 al complesso di Santa Maria della Scala di Siena), ma non è questo il punto: parliamo comunque d’una rassegna completa, forte di prestiti importanti, in grado d’offrire una veduta profonda sull’arte di Barocci, una mostra dalle dimensioni corrette, fondata su di un progetto scientifico ben saldo. La distanza che la separa dalla mostra sui Preraffaelliti al secondo posto è di poco più d’un decimo di punto, e corta è anche la distanza nei riguardi della mostra su Pino Pascali, che addirittura ha avuto punteggio medio pari alla quarta (ma s’è guadagnata il podio perché è risultata avere un coefficiente più alto). Per dare un’idea, tutte e quattro hanno avuto una media di voti superiore all’8, e le prime sedici della classifica (all’undicesimo posto quella sul Rinascimento a Brescia, al dodicesimo Il Cinquecento a Ferrara cui la redazione di Finestre sull’Arte ha voluto assegnare una menzione speciale come mostra a suo avviso migliore, e poi a seguire Berthe Morisot a Torino, Henri de Toulouse Lautrec a Rovigo, Niki de Saint Phalle a Milano e la rassegna Alessandria preziosa) hanno tutte superato la media del 7. Il fatto, poi, che abbia vinto una mostra organizzata a Urbino (ch’è stata anche tra quelle che hanno ricevuto più voti, sintomo ch’è stata molto visitata), e che ai primi posti della classifica siano arrivate mostre allestite anche in centri periferici (come quella su Masolino a Empoli) conferma quanto s’è sempre detto su queste pagine: che il nostro panorama espositivo, almeno per quanto riguarda l’arte antica e moderna, riesce a tenere un livello altissimo anche sul territorio, lontano dai grandi centri.
Ci sembra dunque lontana dal vero l’idea che in Italia non si sappiano organizzare grandi mostre, di livello internazionale: sfidiamo chiunque a sostenere che non siano mostre di respiro internazionale quella su Barocci a Urbino, quella sui Preraffaelliti a Forlì, quella su Pino Pascali alla Fondazione Prada, quella sul Guercino e l’era Ludovisi alle Scuderie del Quirinale, quella su Jean Tinguely all’Hangar Bicocca, giusto per citare le prime cinque della graduatoria. Osservando invece la parte bassa della classifica, e allargando dunque lo sguardo alle mostre che non sono riuscite a ottenere un posto tra le prime dieci, emergono altri dati interessanti: intanto, c’è una discrepanza tra i gusti del pubblico e le idee degli addetti ai lavori. La mostra su Munch a Milano, apprezzatissima dai visitatori, dopo essere stata criticata da Ilaria Baratta su queste pagine (con una recensione che ha sollevato, com’era naturale che fosse, qualche perplessità tra i lettori), è stata punita anche dalla nostra giuria, superando di poco la media del 6: è sintomo del fatto che il paradigma delle mostre di cassetta costruite col materiale proveniente da un unico museo non sempre funziona (anzi: è vero quasi sempre l’esatto contrario). Anche la mostra sulla nostalgia al Palazzo Ducale di Genova si è salvata per poco dall’insufficienza: nonostante la raffinatezza dell’impianto e del progetto, probabilmente ha pesato un percorso espositivo non sempre all’altezza del tema affrontato, e con un finale poco chiaro e poco aperto al contemporaneo che pure la mostra si proponeva d’approfondire. È stata invece massacrata la mostra sul futurismo a Roma: votata da una quarantina di giurati sui poco più di cento convocati, segno che dunque è stata molto visitata malgrado sia stata aperta da poco (gli addetti non potevano esprimersi sulle mostre non visitate: dovevano lasciare la casella bianca), ha tuttavia fatto segnare una media molto magra, poco sotto il 4 e mezzo, con soltanto quattordici giurati che le hanno assegnato un voto sufficiente (e di questi, la metà s’è limitata a un 6), a fronte d’una trentina di addetti ai lavori che l’hanno bocciata. Non crediamo che si tratti di un voto ‘politico’, per così dire: il fatto è che Il tempo del Futurismo è una mostra che presenta troppi limiti, oltre che troppe debolezze rispetto a com’è stata presentata. E gli esperti del settore l’hanno fatto notare.
In generale, dal voto sull’arte antica e moderna emerge una valutazione tutto sommato entusiasta sul panorama espositivo italiano: molti i 10 assegnati dai giurati, apprezzamento generale, poche le insufficienze. Lo stesso non si può dire, invece, per l’arte contemporanea, dove soltanto due mostre raggiungono la media del 7, quella di Pierre Huyghe alla Punta della Dogana, che ha vinto con quasi un punto di media di scarto sulla seconda, e quella di Mark Manders alla Fondazione Sandretto, retrocessa però di un posto per effetto del coefficiente numerico (il distacco dalla mostra su Anselm Kiefer a Palazzo Strozzi era comunque risicato). Vince dunque, mettendo d’accordo pressoché tutti i giurati che si sono espressi sul contemporaneo (Huyghe è stato votato da circa metà dei convocati) una mostra importante, visionaria, scomoda, capace d’offrire uno sguardo sul futuro (che probabilmente non sarà piaciuto a molti, ma Huyghe è comunque, oltre che un artista originale, un artista ch’è in grado di mostrare una direzione, in grado di guardare oltre). L’ampio distacco su Kiefer evidenzia dunque, con tutta probabilità, la percezione d’una debolezza che tutto il resto della proposta contemporanea in Italia ha palesato nei confronti della mostra di Punta della Dogana. Biennale di Venezia compresa.
Sono state molte, infatti, le insufficienze, segno che in Italia il panorama contemporaneo sconta, intanto, un ritardo nei confronti dell’offerta espositiva dell’antico, e poi, si potrebbe pensare, ha anche delle difficoltà nei riguardi, stavolta sì, di ciò che viene organizzato all’estero. Balza poi all’occhio un dato: nelle prime dieci posizioni c’è soltanto una mostra di un artista italiano, la personale di Bertozzi&Casoni al Labirinto della Masone. E questo nonostante tra le candidature ci fossero altre proposte d’arte italiana (Ludovica Carbotta al MAMbo, Dario Ghibaudo a Modena, Fabrizio Plessi a Como, Valerio Adami a Milano e Marina Apollonio alla Collezione Peggy Guggenheim: abbiamo considerato “contemporanei” tutti gli artisti viventi e attivi). La posizione alta di Bertozzi&Casoni può esser dovuta al fatto che i giurati percepiscano il duo della ceramica come una delle punte più avanzate del contemporaneo che abbiamo oggi in Italia, e ritengo non si possa non concordare su questo punto: la ricerca di Bertozzi&Casoni parla di temi universali con un linguaggio contemporaneo raffinato, unico, non derivativo e marcato da un’italianità ch’è invece sconosciuta a tanti artisti più giovani. Non abbiamo problemi ad attirare grandi artisti internazionali, da Kiefer a Marina Abramovic, da Mark Manders a Wael Shawky, fino ad arrivare a un giovane come Louis Fratino. I giurati però sembrano non amare il senso di déjà-vu che i grandi artisti internazionali paiono suscitare al loro arrivo in Italia (Ai Weiwei, per esempio, è stato ampiamente bastonato dai giurati: la mostra di Palazzo Fava a Bologna non ha raggiunto la media del 6).
Altro sintomo di questa arretratezza sul contemporaneo sta nel fatto che pochi dei giurati hanno avanzato proposte alternative rispetto alla rosa presentata alla redazione: quella più ricorrente è stata l’operazione di Christoph Büchel a Venezia (quindi un artista non italiano), a cui vanno aggiunte la mostra su Francesco Clemente a Roma (il secondo “fuori rosa” più votato), la personale di Elisabetta Benassi al MACRO di Roma, quella di Maria Morganti alla GAM di Torino, quella di Giulia Piscitelli al Museo del Tesoro di San Gennaro a Napoli e Chiara Camoni all’Hangarbicocca. Tante le caselle lasciate in bianco dai giurati del contemporaneo. Decisamente più scatenati sulle proposte alternative i giurati sull’antico e sul moderno, che difficilmente hanno lasciato vuote le loro caselle, altro segno d’un panorama più vario: si va da Carla Accardi a Roma alla mostra su Dürer a Trento, dalla mostra sul polittico agostiniano di Piero della Francesca del Poldi Pezzoli all’antologica su Salvo a Torino, dalla mostra sul Maestro di San Francesco a Perugia a quella sul Guercino a Torino, e poi altre due romane come “Roma pittrice” e la piccola monografica su Michael Sweerts all’Accademia di San Luca.
In conclusione: abbiamo un’offerta espositiva sull’antico e sul moderno di altissimo livello, in grado d’incontrare il favore della critica e di reggere il confronto internazionale, abbiamo tante mostre rilevanti diffuse sul territorio, abbiamo un’eccellente classe di storici dell’arte e ogni anno l’Italia è capace di produrre progetti inediti, solidi e importanti, mentre siamo molto più scarsi sul contemporaneo, pur riuscendo ad attirare grandi artisti internazionali e ad allestire mostre che probabilmente incontrano anche il gradimento del pubblico: non riusciamo tuttavia a dare ai nostri artisti di punta le platee e i progetti che meriterebbero, scarseggiano i progetti veramente originali e di ampio respiro, e non siamo in grado di far emergere i nostri giovani. Ma sul contemporaneo si potrebbero aprire altre riflessioni: se l’arte contemporanea sconta la perdita di rilevanza per un pubblico che, per capire il mondo e per guardare al futuro, preferisce, com’è noto, altri mezzi (il cinema, la musica), se dunque il problema non riguarda solo l’Italia ma è più esteso, se l’atteggiamento più freddo della critica verso l’offerta contemporanea è indice d’una maggior severità, se la debolezza del contemporaneo è sintomo della mancanza d’una critica forte, se il problema sta nelle visioni dei curatori. Con le nostre classifiche non vogliamo certo offrire una fotografia piena, ma forse siamo riusciti a raccogliere un poco di materiale su cui aprire qualche ragionamento.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).