Appunto su Pino Pascali alla Fondazione Prada


Recensione della mostra “Pino Pascali”, a cura di Mark Godfrey (Milano, Fondazione Prada, dal 28 marzo al 23 settembre 2024).

Una delle foto più belle di Pino Pascali fu scattata da Andrea Taverna nello studio romano dell’artista nel 1968: lo ritrae come uno sciamano rurale, vestito con costumi di rafia e altri oggetti. Di fatto, però, nei suoi punti più alti, quel servizio aveva assunto la postura e l’eleganza della fotografia di moda, cogliendo il profilo regolare, accattivante, per quando non troppo maudit, di Pascali. È sempre oscillante il rapporto di dare e avere, qui, tra le intenzioni dell’artista e l’occhio del fotografo, a cui certo il primo deve aver consapevolmente attribuito una posizione cruciale: aveva capito il ruolo della foto d’autore nel conferire una forma estetica a situazioni che altrimenti si sarebbero perse in una documentaristica, se non avesse tentato una reinvenzione con il nuovo linguaggio e affidandosi a un occhio fotografico.

Non si trattò del resto di un rapporto fisso, ma di un gioco di regia che si modifica di volta in volta a seconda della collaborazione e dell’occhio del fotografo e della sua sintonia con i modi delle neoavanguardie. Nel 1965, per esempio, Claudio Abate lasciò molto spazio a Pascali, ponendosi nell’atteggiamento dello spettatore che documenta quello che vede tenendosi fuori scena, senza avvicinarsi troppo al soggetto, e d’accordo con l’artista nel lasciare scoperto il dispositivo di finzione predisposto nello studio dietro le “armi”. Pascali partecipa alla messinscena travestendosi alla bisogna da militare o da sciamano, essendo lo studio o la galleria lo spazio di azioni sceniche, da celare moderatamente, in modo da lasciare visibile la simulazione: si vede chiaramente, nella serie di Abate, il telo messo come fondale a coprire il laboratorio dell’artista, ma non abbastanza da non mettere in risalto invece un pavimento molto vissuto dagli interventi di Pascali stesso.

Di fondo, ed è forse l’aspetto più importante, resta un rapporto intenso fra la fisicità prorompente dell’artista, che si esprime anche nelle riprese video: un approccio libero e disinibito col proprio corpo davanti alla telecamera o alla macchina fotografica, e con la materia manipolata alla prima. Sono gesti semplici e azioni elementari, come l’aratura con un rastrello e la semina simbolica di filoni di pane, richiamando in modo solo apparentemente ingenuo memorie ancestrali. Difficile dire se davvero, come sostengono i curatori della grande mostra organizzata dalla Fondazione Prada di Milano, Pascali fosse un cinico regista della propria immagine, calcolatore nel preparare materiale fotografico utile da far circolare sui giornali o nei propri cataloghi: è più plausibile un approccio al contempo ludico e narcisistico, ma davvero istintivo ed empirico, affidando all’occhio del fotografo la restituzione estetica. Pascali, del resto, non ha mai preso in mano la macchina fotografica in prima persona, o quando l’ha fatto, se ne è servito come proprio materiale di lavoro non destinato alla pubblicazione.

Allestimenti della mostra Pino Pascali. Foto: Roberto Marossi
Allestimenti della mostra Pino Pascali. Foto: Roberto Marossi, su concessione di Fondazione Prada
Allestimenti della mostra Pino Pascali. Foto: Roberto Marossi
Allestimenti della mostra Pino Pascali. Foto: Roberto Marossi, su concessione di Fondazione Prada
Allestimenti della mostra Pino Pascali. Foto: Roberto Marossi
Allestimenti della mostra Pino Pascali. Foto: Roberto Marossi, su concessione di Fondazione Prada
Allestimenti della mostra Pino Pascali. Foto: Roberto Marossi
Allestimenti della mostra Pino Pascali. Foto: Roberto Marossi, su concessione di Fondazione Prada

Il suo, in fondo, rimane un profilo imprendibile, come accade con gli sperimentatori più inventivi: vi si individuano brani che ricordano il lavoro di altri, ed è palese il dialogo con le tendenze del suo tempo; ma quello che per altri artisti fu l’idea portante su cui costruire un’intera carriera, per lui fu un passaggio che si consumò in alcune serie di opere per poi passare ad altro e sondare altre vie. Se ne ha una percezione sempre più chiara mano a mano che si procede nella visita della mostra milanese, di Fondazione Prada, che affida a una sezione un po’ didascalica sui materiali il ragionamento sul contesto delle ricerche in cui l’artista si è mosso e ha operato. Nei pochissimi anni della sua carriera, stroncata bruscamente alle soglie dei trentatré anni, Pascali sperimentò insomma un po’ di tutto, con una apertura, una curiosità e una disinvoltura che lo accosta ma non lo appiattisce su nessuno dei suoi coetanei o degli artisti più giovani: l’armamentario messo in campo dagli artisti dell’Arte Povera, qui, si squaderna nella sua interezza, e così quello delle materie plastiche e artificiali tanto care alle temperie “pop”. Ciononostante, come ha ribadito Marco Tonelli nel suo recente libro pubblicato da Electa, egli rimase irriducibile a nessuna corrente, e sfuggente a qualsiasi tentativo di incasellamento nelle tendenze del suo tempo, pur con numerose tangenze con l’esterno. Persino i disegni del “taccuino di annotazioni”, ripubblicato a cura di Tonelli per l’editore De Luca in Pascali progetta Pascali, mostra delle eloquenti sintonie con il disegno progettuale di quel momento, secondo una abitudine alla visualizzazione rapida e immediata delle idee figurative praticata con costanza, per esempio, da Lucio Fontana: entrambi, appena se ne presentò l’occasione, non disdegnarono la rapidità della penna sfera per fermare ancora più rapidamente le loro idee su carta, senza i rituali e gli esercizi di pazienza richiesti dal pennino e dall’inchiostro.

Per questo, ad uno sguardo veloce sulla mostra di Prada, c’è un po’ di tutto e non si lascia chiudere in nessuno schema, salvo intendere certe etichette come sistemi categoriali. I debiti ci sono, come nei confronti di De Chirico, ma non si spiegherebbe forse la scelta delle pellicce sintetiche blu, dal colore così innaturale, senza la circolazione in Italia dei monocromi di Yves Klein. Con lui come con gli altri, tuttavia, Pascali tenne un atteggiamento disinvolto e disinibito, per nulla ossequioso nemmeno con Brancusi, a cui pure deve molto.

Questo tratto emerge anche dalla riproposizione alla Fondazione Prada, seppur parziale e decimata nel numero di opere (più una astratta rievocazione che un vero re-enactment) delle mostre personali dell’artista, che dicono molto su una stagione di frenetiche trasformazioni. Quella alla Tartaruga del gennaio 1965, per esempio, induce a riflettere sull’uscita dall’Informale in dialogo stretto con la Scuola di Piazza del Popolo (non si spiegherebbe altrimenti il suo Colosseo a tempera su panno montato su telaio sagomato) e inevitabilmente con De Chirico (sua la primogenitura delle nuvolette profilate in spugna di Ruderi su prato). Ma tutto questo passa dalla scuola di Toti Scialoja e della sua idea di pittura fatta per impronte, fra natura e artificio, come evidenziò Tonelli più volte. In esse c’è già l’idea di una mostra come creazione di un ambiente, in cui però il gioco delle illusioni è scoperto: basta vedere il quadratino di erba sintetica, che occupa due moduli di un pavimento/basamento fatto di tele bianche posate al suolo. È la scenografia a spingere verso le tele sagomate, nelle estroflessioni con allusioni erotiche e materiche, dalle labbra carnose alle pance in gravidanza.

Allestimenti della mostra Pino Pascali. Foto: Roberto Marossi
Allestimenti della mostra Pino Pascali. Foto: Roberto Marossi, su concessione di Fondazione Prada
Allestimenti della mostra Pino Pascali. Foto: Roberto Marossi
Allestimenti della mostra Pino Pascali. Foto: Roberto Marossi, su concessione di Fondazione Prada
Allestimenti della mostra Pino Pascali. Foto: Roberto Marossi
Allestimenti della mostra Pino Pascali. Foto: Roberto Marossi, su concessione di Fondazione Prada
Allestimenti della mostra Pino Pascali. Foto: Roberto Marossi
Allestimenti della mostra Pino Pascali. Foto: Roberto Marossi, su concessione di Fondazione Prada

Le “armi” esposte invece da Sperone nel gennaio 1966 portano il gioco di finzione un po’ oltre: al bivio se prendere una via concettuale, su premesse metafisiche, o una di ironico assemblaggio, scelse la seconda opzione. Il travestimento è esplicito, perché i pezzi meccanici e gli attrezzi messi qui in uso sono più che evidenti, ma non immediatamente riconoscibili, perché Pascali ha verniciato tutto così da nascondere, o simulare l’unità di un complesso. Non ama la ruggine ed anche il debito verso Dada ne esce di conseguenza meno esplicito rispetto alle eco duchampiane di Colla: quest’ultimo, in fondo, puntava al totem, mentre Pascali andava verso la fabbricazione di un vero e proprio oggetto plausibile.

Viene poi da chiedersi se fosse possibile una mostra di “animali” come quella del 1966 all’Attico senza vivere nella capitale italiana del cinema, dove poteva essere più tangibile un immaginario fantascientifico dalla resa rudimentale: come spiegare, altrimenti, la profusione di tentacoli oblunghi, fallici a volte, o con profili frastagliati, e frammenti di dinosauri pronti per essere montati come un monumentale gioco in scatola di pezzi bianchi e opachi, come il mitico candore dei gessi nell’atelier di Brancusi, ma con le cuciture delle tele bene in vista? Quell’impressione si conferma nella successiva esposizione all’Attico, con le liane in lana d’acciaio e altri elementi di un possibile set ambientato nella giungla.

Il punto chiave è che quella di Pascali fu una scultura tutta visiva, pensata per il colpo d’occhio, e duttile alla ripresa fotografica, ma priva di una vocazione tattile: un impianto grafico tridimensionale che lo emancipava dal mondo visionario e olografico di certa pittura surrealista, ma pronto comunque a una restituzione bidimensionale - non semplicemente di documentazione – che ne accentuasse i profili, sempre netti e ben leggibili. Conta tutto sommato di meno la resa materica, pur ricorrendo a gran copia di materiali eterogenei, ma con la leggerezza di apparati effimeri fatti per durare il tempo di una rappresentazione, prima di approdare in pezzi sparsi nelle case dei collezionisti.


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