Antico è il problema del corretto inquadramento di Henri de Toulouse-Lautrec e della sua produzione: la lunga sequenza delle mostre che gli son state dedicate ha guardato, spesso in via pressoché esclusiva, verso una parte della sua produzione, quella della grafica pubblicitaria, e l’attenzione del pubblico ha privilegiato quasi sempre l’uomo, più che l’artista. Problema antico, se si pensa che già nel 1951, su Emporium, Giulia Veronesi scriveva che la valutazione di Toulouse-Lautrec “è sovente infirmata e sviata da diversi fatti”, primo fra tutti “l’essere la sua opera così carica di contenuti sociali, così pregna del proprio tempo, da divenire in sommo grado simbolica”, e in second’ordine l’aver spesso distinto il pittore dal grafico, l’aver considerato la sua eccezionale, innovativa cartellonistica quasi come una monade, distaccata dal resto della sua produzione, e talvolta financo dal contesto che la produsse. Eppure anche la lettura di Veronesi stabiliva un punto di partenza che oggi appare quasi frenante, ovvero l’aver basato l’avvio dell’analisi della produzione di Toulouse-Lautrec su di una considerazione di Theodor Däubler, convinto del fatto che il pittore di Albi fosse il primo espressionista della storia dell’arte: Toulouse-Lautrec avrebbe dunque inaugurato, giovandosi d’apporti impressionisti e simbolisti, quella pittura “che nell’oggetto trasferisce l’espressione soggettiva, lo rende espressivo caricando di potenza espressiva lineare e colore”. La traiettoria di Toulouse-Lautrec, in realtà, fu decisamente più sfumata: anzitutto, oggi riesce difficile definirlo un pittore sociale. Da certi temi era completamente avulso (il lavoro nelle industrie, per esempio, che invece era preoccupazione prioritaria di tanti suoi contemporanei), e nella sua indagine, che peraltro non era traduzione d’un interesse per l’attualità (semmai lo era per la realtà), preferiva un approccio più intimo, si potrebbe dire. Toulouse-Lautrec non era un artista che denunciava, e non era neppure una sorta di reporter col pennello. Al disvelamento e alla cronaca preferiva un resoconto partecipato, da persona coinvolta, una sorta di descrizione dall’interno che, in virtù della sua sincerità e anche della sua varietà, ha finito per assumere i tratti del simbolo, è divenuta l’allegoria per antonomasia di quel torno d’anni che definiamo sotto il titolo di ‘Belle Époque’.
A Rovigo, Palazzo Roverella dedica una mostra al problema del collocamento storico di Toulouse-Lautrec. Intitolata semplicemente Henri de Toulouse Lautrec. Parigi 1881-1901, e curata da Fanny Girard, Jean-David Jumeau-Lafond e Francesco Parisi, la rassegna prende in considerazione quasi tutto l’iter artistico del pittore, lasciando volutamente in sottofondo certi temi largamente scandagliati dalle mostre precedenti (il mondo del circo, per esempio, o quello dei cabaret, che è ben presente ma non solo in veste d’oggetto delle attenzioni del pittore, quanto soprattutto come fertile terreno sul quale Toulouse-Lautrec ha coltivato la propria arte, oppure ancora la stessa grafica pubblicitaria, cui è dedicata una sezione in chiusura), e riversando la propria concentrazione soprattutto sul contesto della Parigi fin de siècle, la Parigi degli artisti, dei letterati, dei café, dei dibattiti.
Il pubblico, tra le sale di Palazzo Roverella, troverà soprattutto una mostra di dipinti: va rimarcato, dacché negli ultimi siamo stati abituati a mostre su Toulouse-Lautrec costruite soprattutto, e a volte esclusivamente, con grafiche. Occorre però conoscere la pittura di Toulouse-Lautrec se si vuole conoscere Toulouse-Lautrec, perché è dalla pittura che trae origine la sua modernità, è dagli esperimenti in pittura che nasce il Toulouse-Lautrec più noto al grande pubblico, e la mostra insiste in maniera particolare, specie nel dettagliato catalogo, sull’atteggiamento fortemente sperimentale di questo artista nato tra le colline dell’Occitania e arrivato giovanissimo a Parigi per studiare dai maestri della capitale, a cominciare da quel Léon Bonnat il cui apporto sulla formazione del giovane Toulouse-Lautrec è stato riletto in occasione della mostra rodigina: è necessario “ridimensionare la consolidata interpretazione”, scrive Francesco Parisi in catalogo, “che il periodo trascorso col primo maestro fosse più che altro da considerare come uno sterile passaggio, costituito da inutili indottrinamenti e propedeutico solo alla successiva entrata presso l’atelier di Fernand Cormon”.
È nell’atelier di Bonnat che germogliano i primi interessi di Toulouse-Lautrec per la realtà, che s’esprime inizialmente attraverso una pittura dai toni cupi, come si vede nell’unico lavoro in mostra riferibile ai primi tempi dell’apprendistato presso Bonnat, ovvero il Champ de courses nel quale l’artista raffigura una corsa di cavalli che, nonostante la cronologia alta, dà comunque prova dell’atteggiamento libero e sperimentatore d’un Toulouse-Lautrec allora appena ventenne, ma già proiettato verso una pittura corsiva, verso contrasti cromatici non convenzionali: se ne ha ulteriore riscontro osservando due opere successive, Allegorie, le printemps de la vie e Esquisse, peuplade primitive, tribu préhistorique. Due opere di formazione, due opere eseguite quando Toulouse-Lautrec frequentava la bottega di Cormon, due opere di soggetto tradizionale, due opere costruite attorno a composizioni di stampo accademico, eppure pregne di quella spontaneità che Cormon (presente in mostra con un maestoso ritratto d’un pescatore intitolato Avant la pêche) caldeggiava ai suoi allievi. Due esercizî, si potrebbe dire, ma che già lasciano intendere la futura attitudine dell’artista, ulteriormente ravvisabile nel ritratto del padre a cavallo, che il pubblico incontra nella stessa sala, e che prelude agli esiti successivi della sua arte.
Proseguendo nell’itinerario di visita, i curatori accompagnano il pubblico nella Parigi di fine Ottocento, dapprima tra café-concerts, cabaret e teatri con la sezione Sur la scène, vivacissimo capitolo della mostra funzionale a dare un’idea della varietà dei luoghi di ritrovo che animavano la vita sociale e culturale della capitale francese, luoghi di “democratizzazione degli svaghi”, c’informano i pannelli di sala, poiché la prospera situazione economica di Parigi al tempo consentiva a chiunque di frequentare i tanti locali della città. È questo il mondo che affascina Henri de Toulouse-Lautrec: se ne coglie l’eco davanti a dipinti come Le Café-Concert di Louis Abel-Truchet o Le Moulin de la Galette di Charles Maurin, scelti non soltanto per trasportare i visitatori nelle atmosfere della vita notturna parigina e per offrire un segno tangibile del fascino che questo mondo esercitava sugli artisti (anche su di un giovane Pablo Picasso, per inciso: in mostra si trova un suo pastello raffigurante l’attrice Yvette Guilbert, a lungo ispiratrice di Toulouse-Lautrec, sul palco), ma anche per dar conto delle ricerche, delle idee che circolavano tra gli artisti che frequentavano quest’ambiente tanto mitizzato (si guardi, nel quadro di Maurin, il contrasto tra le figure a sinistra che osservano la scena, definite, e i clienti della sala da ballo che danzano al centro, sfumate, quasi evanescenti). Non mancava neppure chi osservava con sarcasmo i divertimenti notturni di Montmartre: lo dimostra un quadro significativo come L’entrée au bal di Félicien Rops, opera giovanile con la quale l’artista, noto per la sua attitudine ironica, spesso ai limiti della parodia feroce, intende sottolineare la marcata distanza sociale tra le eleganti dame che entrano in un locale da ballo e il ragazzo vestito di stracci che le osserva da fuori. Altre intenzioni muovono invece lo sguardo di Toulouse-Lautrec che, seppur vicino a Rops (specialmente negli anni Novanta), guarda invece soprattutto agli impressionisti, segnatamente a Edgar Degas: il vecchio impressionista è presente, nella sezione iniziale, con un Étude de danseuses che introduce il pubblico a uno dei suoi temi favoriti, quello del ballo, e dialoga a breve distanza col primo capolavoro di Toulouse-Lautrec che s’incontra nel percorso, la Danseuse assise sur un divan rose del 1884, in prestito dalla Dixon Gallery di Memphis, tela che ritrae una ballerina seduta su di un divano, in un momento di riposo, stanca e forse un poco annoiata. È, tra le opere in mostra, forse quella più vicina a Degas, ma per Toulouse-Lautrec il collega non è che un punto d’avvio della sua indagine. Toulouse-Lautrec vuole catturare la vita della Parigi fin de siècle, ma con un atteggiamento tutto suo. Non è un cronista, e poco gli s’addicono i panni dello psicanalista. E più un insider, potremmo dire, che s’industria per soddisfare quel “desiderio di ‘cattura’”, come lo definisce efficacemente in catalogo Nicholas Zmelty, “che passa per la moltiplicazione dei mezzi espressivi e per sviluppi stilistici in perfetta sintonia con la sua ricerca […]. Toulouse-Lautrec sfrutta tutti i mezzi a sua disposizione per catturare nelle proprie opere la vita che tanto ama e di cui è insieme avido spettatore e attore appassionato. Lo spettacolo, la vita notturna, l’ebbrezza, le donne: Toulouse-Lautrec non si accontenta di osservare freddamente le cose, ma le vive, le affronta per sentirle meglio nella carne, per apprezzarle e poterle restituire nel modo più autentico e concreto possibile”. Di qui, l’esigenza d’affrancarsi il più rapidamente possibile da Degas per cercare una via personale, più sintetica, come si vede nella tela Au bal masqué à l’Élysée Montmartre, che possiamo immaginare abbozzata direttamente in loco, davanti a un gruppo di persone nel quale, ipotizza Agnese Sferrazza, si possono forse riconoscere, per via dei singolari travestimenti, alcuni membri della Société des Incohérents, cui è dedicata, come si vedrà più avanti, un’intera sezione della rassegna rodigina.
Parigi è ancora protagonista delle sezioni successive, dapprima con un focus intitolato Paris, ville spectacle, dov’è radunato un gruppo di dipinti che raccontano la città nel suo complesso (si va da una grande veduta del Quai de Bercy di Albert Dubois-Pillet alle donne davanti al Moulin Rouge del livornese Alfredo Müller, dalle passeggiate davanti alle vetrine di George Bottini alle incisioni con le vedute di Montmartre di Charles Maurin ed Eugène Delâtre: non mancano neppure alcune ceramiche della Parisienne, simbolo dell’eleganza di quella donna parigina “eroicizzata dalla moda e dallo spirito”, scrive il curatore Jumeau-Lafond), e poi con il capitolo Les peintres du petit boulevard, nome con cui si designa il gruppo di artisti che frequentavano l’atelier di Cormon: tra questi, oltre a Toulouse-Lautrec, figuravano, tra i più noti, Émile Bernard, Louis Anquetin, François Gauzi e anche Vincent van Gogh (rispetto all’olandese, la mostra insiste molto sul suo ruolo di vivacissimo e partecipe animatore culturale: il pubblico che non conosce questo aspetto di Van Gogh ne rimarrà sorpreso, peccato solo che a Rovigo non si possano vedere sue opere). Fu proprio Van Gogh a darsi da fare per organizzare una mostra dei Peintres du petit boulevard nel 1887, e le suggestioni che Van Gogh fornì a Toulouse-Lautrec sono ravvisabili nel ritratto di François Gauzi del 1888, in arrivo dal Musée des Augustins di Tolosa: l’ardito taglio verticale fortemente scorciato deriva dalle stampe giapponesi, per le quali Van Gogh aveva già maturato una forte passione, che fu in grado di trasmettere all’amico. Il desiderio di modernità nutrito dai Peintres du petit boulevard, che si sostanziava in una pittura attenta alla vita della città, in tutti i suoi aspetti (il pannello di sala fa riferimento a un Étude de nu del 1883 di Toulouse-Lautrec che il pubblico vedrà tre sale più avanti: un nudo reale che criticava quelli accademici esposti nei Salon), è testimoniato anche dal ritratto di Carmen la rousse, Carmen “la rossa”, che nel verso d’una tavola del Musée Toulouse-Lautrec di Albi, in cui la ragazza è raffigurata in una posa tradizionale, viene dipinta con lo sguardo abbassato, con l’idea di restituire un ritratto che trasmetta il suo stato d’animo, la sua condizione interiore. Il milieu culturale di Toulouse-Lautrec anima poi anche la sezione seguente, Gli amici letterati e artisti, lungo elenco di ritratti degli scrittori, degli artisti e delle personalità della Montmartre del tempo, e ci sono anche ritratti di Toulouse-Lautrec eseguiti dai suoi amici, oltre a dipinti che dànno conto di quelle atmosfere, come l’Auror du rêve di Charles Maurin, tela ispirata ai Fiori del male di Baudelaire che il pubblico ritrova in Veneto a qualche anno di distanza dalla mostra sul simbolismo mistico della Rose+Croix che si tenne tra il 2017 e il 2018 alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia. Difficile dar conto in breve spazio della sezione più grande e ramificata della mostra (trenta sono i pezzi che la compongono), ma si possono trovare alcuni sottoinsiemi: ci sono, per esempio, le opere della colonia degli artisti spagnoli a Parigi, cui è peraltro dedicato un saggio di Mario Finazzi in catalogo nel quale s’analizzano i punti di tangenza e i possibili assorbimenti degli iberici di Montmartre da Toulouse-Lautrec. Ci sono i ritratti degli artisti a vario titolo legati al pittore di Albi anche per similarità di frequentazioni: ecco dunque, per esempio, un ritratto di Giovanni Boldini eseguito da Degas, presente un po’ perché Boldini, come Toulouse-Lautrec, nutriva una forte ammirazione per Degas, e un po’ perché sono noti i contatti dell’artista con gli italiens de Paris. E ci sono poi le opere legate al movimento simbolista, come il già citato dipinto di Charles Maurin, un capolavoro come Pornocratès di Félicien Rops, Les Litanies de Satan di Carlos Schwabe, sfingi e chimere assortite, o ancora il ritratto di Paul Verlaine di Edmond Aman-Jean, o quello di Joris-Karl Huysmans eseguito a china su carta da Félix Vallotton: anche se Toulouse-Lautrec non avvertiva pulsioni simboliste, certe sfumature cupe e opprimenti talvolta s’impossessano dei suoi lavori e consentono di leggere la sua arte secondo una prospettiva nuova, originale.
E per rendersi conto di come queste sfumature potessero entrare nell’arte di Toulouse-Lautrec è sufficiente fare qualche passo avanti ed entrare nella sezione seguente, I paradisi artificiali, che ruota attorno al tema della dipendenza da assenzio, capace d’assumere i tratti della piaga sociale nella Parigi di fine Ottocento: la Fée verte, la “fata verde”, com’era soprannominato questo alcolico per via del suo colore, era una moda diffusa, diventò una sorta di simbolo della vita bohémienne e per molti si tramutò in una devastante malattia (è noto, per esempio, l’alcolismo di Verlaine), tanto che nel 1914 l’assenzio venne dichiarato illegale. Ad accogliere il pubblico nella sala è proprio un dipinto di Albert Maignan che raffigura una personificazione dell’assenzio: la Muse verte è un’avvenente fata, avvolta in una tunica verde, che giunge alle spalle del bevitore e s’attacca alla sua testa provocandogli quello stato d’ebbrezza cercato dai consumatori della forte bevanda. L’assenzio si beveva diluito con acqua e una zolletta di zucchero, che colava nel bicchiere attraverso un apposito cucchiaino forato che vi veniva posato sopra: attorno al tavolo che rievoca il rituale del consumo dell’assenzio, posto al centro della sala, s’ammirano le opere che hanno per protagonisti i bevitori d’assenzio. Uno dei vertici dell’intera rassegna è il doppio confronto tra Toulouse-Lautrec (À Grenelle: L’attente e La buveuse) e Rops (Le Quatrième verre de cognac e La buveuse d’absinthe), argomento tra i più interessanti della mostra di Rovigo: “Lautrec”, spiega Parisi, “realizzò diverse opere sul tema dell’alcolismo femminile […]. Se la Buveuse di Rops mostrava tracce di intossicazione e uno sguardo satanico, l’interpretazione data da Lautrec si rivelava incentrata più sul carattere ‘bestiale’ della donna che non sugli aspetti ‘trascendentali’ e culturalmente decadenti. Pur ammirando il talento ropsiano, come sembra esplicito constatare da alcune opere, Lautrec era comunque lontano da quella rappresentazione demoniaca della donna dell’artista belga, anche quando posta in contesti a lui più congeniali”. Nelle due opere di Rops lo sguardo dell’artista giunge a un’efferatezza che è del tutto sconosciuta a Toulouse-Lautrec, artista dal temperamento più malinconico: À Grenelle, opera presumibilmente ispirata a un’omonima ballata dello chansonnier Aristide Bruant (soggetto, peraltro, d’alcune celeberrime stampe dell’artista), è opera che coglie la solitudine, il malessere della frequentatrice d’un bar che sommerge il suo passato nel bicchiere d’assenzio posto dinnanzi a lei, e dal quale distoglie addirittura lo sguardo. Ci sono anche dipinti che, con piglio più realistico, offrono un’idea delle conseguenze provocate dall’assenzio: è il caso, per esempio, del Buveur d’absinthe di Gustave Bourgain, ritratto impietoso di un bevitore dallo sguardo assente e dall’aria trasandata davanti al bicchiere dell’alcolico verde, oppure della malinconica Les incompris, capolavoro del 1904 di André Devambez, dove uno dei protagonisti seduti attorno al tavolo, quello sulla destra (forse Paul Verlaine), appare in balia degli effetti dell’alcol. Dipinto malinconico, perché pur raffigurando alcuni artisti e intellettuali che discutono attorno a un tavolo, e quindi all’apparenza opera che restituisce con efficacia il clima di quegli anni, ci appare crudo nel restituire questi personaggi avanti negli anni che ancora non si sono rassegnati al passaggio del tempo, circostanza della quale è probabilmente avveduta la donna che stringe, quasi con un moto di rabbia, la rivista L’Art. La conosciamo: è la pittrice Victorine Meurent, ovvero la donna che, quarant’anni prima, era stata la modella dell’Olympia di Édouard Manet: quella giovane nuda, fragrante e disinibita è diventata la vecchia arcigna del dipinto di Devambez. Un dramma diverso è invece quello della Vitrioleuse di Eugène Grasset, ritratto d’una donna dall’aspetto inquietante con in mano una ciotola di vetriolo, altra allusione, neanche troppo velata, agli effetti dell’assenzio.
Ecco poi, nella sala seguente, la rivelazione della rassegna, ovvero la sezione dedicata a Les arts incohérents, il singolare movimento guidato da Jules Lévy, caduto nell’oblio, e riemerso all’attenzione della critica soltanto nel 2018, quando sono state riscoperte diverse opere degli artisti appartenenti al gruppo, grazie al lavoro del gallerista Johann Naldi (autore anche del saggio in catalogo dedicato a questo particolarissimo movimento): una parte di queste opere, diciassette in tutto, sono state dichiarate peraltro Trésor National dal Ministero della Cultura della Francia. Fino al 2018, si pensava che tutte le opere degli artisti “incoerenti” fossero andate perdute: a Rovigo è dunque possibile ammirare una selezione di lavori di quest’accozzaglia di personaggi che includeva pittori professionisti e dilettanti, scrittori, giornalisti, disegnatori, e che anticipò per certi versi il dadaismo, il surrealismo e molta arte del Novecento con l’obiettivo, sintetizza Naldi, di “contestare mediante il riso – ma non solo – la serietà del mondo dell’arte”. Opere che, utile sottolinearlo, per la prima volta nella storia escono dalla Francia: un’altra gemma, dunque, di questa mostra. Ecco allora il primo dipinto monocromo della storia dell’arte fin qui noto, il Combat de nègres pendant la nuit di Paul Bilhaud, una tela completamente nera accompagnata da un titolo ironico per prendersi gioco del pubblico, e poi ancora un proto-readymade, una tendina verde intitolata Des souteneurs encore dans la force de l’âge et le ventre dans l’herbe, un dipinto-oggetto di Gieffe (pseudonimo di François Jules Foloppe) che dà sostanza a una favola di La Fontaine, e non potevano mancare neppure manifesti e cataloghi delle mostre che gli incoerenti, nel loro breve periodo d’attività, riuscirono a organizzare a Parigi. Anche Toulouse-Lautrec frequentò questo gruppo e lo aiutò ad allestire alcune mostre, senza calcolare il fatto che fu tra gli artisti che giovarono del clima dissacratorio, libero e ribelle che si respirava ogni volta che Jules Lévy e compagni architettavano le loro esposizioni.
Più triste e dimessa è invece l’aria che pervade la sala seguente, dedicata a Elles, le prostitute raffigurate da Toulouse-Lautrec in una nota cartella di litografie (alcuni esemplari sono presenti in mostra) che ebbe scarso successo commerciale, ma sollevò discussioni, a partire dalla sua pubblicazione nel 1891: la sezione, pur non essendo quella più originale della mostra (il tema del meretricio in Toulouse-Lautrec è tra i più esaminati dalla critica), offre comunque una veduta più completa del tema della prostituzione nell’arte del tempo, instaurando un nuovo parallelo con l’arte di Rops, che ne Les Deux amies affronta l’argomento da una prospettiva diversa, sottolineando “l’allure diabolica della donna tentatrice, piuttosto che l’aspetto più realistico della condizione femminile” (così Agnese Sferrazza), mentre l’albigese, con i suoi Études de nu (uno dei quali messo a confronto con una tela di Giovanni Boldini: stessa posa, esiti opposti), oltre a polemizzare col nudo accademico offrendo della donna una rappresentazione semplice, sobria, scevra di qualunque accenno d’erotismo, riesce a entrare nel quotidiano delle sue modelle, superando qualunque stereotipo ma al contempo evitando pietismo e commiserazione. Quella di Toulouse-Lautrec era semplicemente ricerca di verità. Ecco allora ritratti schietti e naturali, come quello di mademoiselle Lucie Bellanger, o quello, ancor più eloquente, noto come Femme se frisant, istantanea d’una ragazza che si pettina davanti a uno specchio. Opere che si propongono con quell’immediatezza e quella spontaneità cui Toulouse-Lautrec era giunto dopo anni d’intense sperimentazioni anche tecniche, arrivando a una pittura fatta di colori a olio sciolti nella trementina e poi stesi sul cartone: “il cartone grezzo”, spiega Fanny Girard nel suo saggio interamente centrato sulle innovazioni tecniche di Toulouse-Lautrec, “assorbe l’essenza di trementina, lasciando apparire solo il pigmento che assume un’opacità che richiama il pastello”, evita l’effetto lucido che l’artista rifuggiva, e dona all’insieme quell’apparenza bozzettistica che, al contrario, Toulouse-Lautrec ricercava.
Si scende al piano inferiore per le ultime tre sale della mostra: una di queste è interamente dedicata al cabaret dello Chat Noir, forse il più ardito dei café della Parigi di fine Ottocento. Ecco allora dipinti, disegni, riviste (lo Chat Noir ne aveva una propria), poesie, persino insegne per rievocare la straordinaria stagione del cabaret anticonformista fondato da Rodolphe Salis, primo café a introdurre un pianoforte, luogo d’incontro di artisti, scrittori e poeti che si riunivano per discutere, litigare, cantare, declamare versi, improvvisare recite, punto d’incontro gioioso ma anche “laboratorio del Decadentismo e del Simbolismo” come ben ricostruisce Jumeau-Lafond: la mostra è in grado d’offrire una vivace e preziosa ricostruzione di quel che doveva essere stato lo Chat Noir. La conclusione della mostra è affidata alle due sale più convenzionali, quelle sui manifesti e sulla grafica di Toulouse-Lautrec, per chiudere il discorso con la porzione più nota e più innovativa della sua produzione.
In un suo articolo del 1899, Julius Meier-Gräfe scriveva che, con Toulouse-Lautrec, una “grande arte”, quella dei Monet, dei Renoir, dei Pissarro, dei Degas, “s’incamminava verso la tomba”: era sicuramente presto per celebrare i funerali dell’impressionismo, che avrebbe avuto ancora qualcosa da dire nel primo scorcio del Novecento, ma si può comunque affermare che già a quelle altezze il critico tedesco aveva intuito la portata dell’arte di Toulouse-Lautrec. Un’arte che oggi, a Rovigo, rileggiamo nel quadro d’un contesto più ampio, spogliata delle mitografie che l’hanno accompagnata nella più parte delle occasioni espositive che le son state dedicate, anche per via della facilità con cui è possibile organizzare mostre su di lui (il vantaggio della litografia, e in generale della riproduzione a stampa, sta nel fatto che le idee circolano di più, e lo svantaggio, oggi, è che l’immagine riprodotta si presta per mostre raffazzonate e preconfezionate che oltre al grande nome dell’artista hanno poco da dare al pubblico).
“Finalmente”, si potrebbe dire al termine della mostra di Rovigo: una mostra in cui il contesto in cui operò l’artista è ricostruito con precisione lenticolare e con sorprendenti novità (la sala degli incohérents, da sola, vale il viaggio in Veneto), una mostra che non si perde nell’aneddotica sull’artista e nel biografismo, una mostra che fa emergere in maniera chiara lo spirito dell’artista. Uno spirito che poco corrisponde all’animo di quel presunto celebratore della Belle Époque che Toulouse-Lautrec non fu mai, e tanto meno fu una sorta d’attivista che svelava le condizioni sociali delle categorie che popolavano le sue opere, a cominciare dalle meretrici, che diventano soggetto privilegiato non sulla base d’una volontà di denuncia ma, più semplicemente, un po’ perché soggetto frequente nell’arte del tempo, e un po’ perché gli erano familiari. Uno spirito sicuramente più inquieto e decadente rispetto a quello cantato dalla vulgata. La mostra ne dà una lettura più completa, sicuramente più vicina a quello che doveva essere il reale temperamento di Henri de Toulouse-Lautrec. Un Toulouse-Lautrec che preferiamo. Perduto e ritrovato.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).