Ritorno al Futurismo: a Roma una rivoluzione convenzionale. Com'è la mostra della Galleria Nazionale


Recensione della mostra “Il tempo del Futurismo”, a cura di Gabriele Simongini (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, dal 3 dicembre 2024 al 28 febbraio 2025).

Il pubblico che si prepara per entrare alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma fa da sette anni la coda in mezzo ai leoni di Davide Rivalta, guardiani contro il passatismo, felini imperiosi pronti a ruggire contro tutto ciò che sa d’incancrenito, bestie incendiarie ansiose di spalancare le fauci contro polvere, muffa e vecchiume, di sbranare le vecchie tele gloriose, di ridestare il dormitorio pubblico di pittori e scultori che riposano tra quelle sale. Hic sunt leones, o così doveva essere: la missione dei leoni era quella di segnalare la presenza dei territorî inesplorati dell’arte che il visitatore avrebbe trovato dopo aver varcato le soglie del museo. E invece se ne stanno lì, a rotolarsi incuranti sulla scalinata della Galleria, innocui e inoffensivi mentre adesso guardano i banner della mostra Il tempo del Futurismo che, lontana dall’avventurarsi tra le dune del deserto, preferisce passeggiare nella fiorita sicurezza del giardino ben curato, ben irrorato, ben coltivato. Gabriele Simongini, il curatore, non ne ha fatto mistero, in conferenza stampa: Il tempo del Futurismo vuol essere mostra per tutti, adatta al pubblico vasto, dal “bibliofilo più accanito” al “bambino che cerca le novità tecnologiche”, dall’“appassionato della contemplazione” al patito d’installazioni multimediali. Le novità, ha assicurato, saranno nel catalogo e riguarderanno soprattutto il Manifesto del 1909 (con inedite interpretazioni di Giovanni Lista) e il tema dello spettacolo futurista (con nuovi dati in un dialogo tra Lista e Günther Berghaus). Il catalogo, al momento, non è ancora disponibile: per valutare la mostra senza lasciar passare troppo tempo occorre allora riferirsi soltanto al percorso di visita. E qui, al contrario, nessun inedito, nessuna novità sostanziale: s’è preferito un futurismo user friendly, potremmo dire parafrasando il curatore, un futurismo per grandi e piccoli, s’è organizzata una mostra “che non è fatta soltanto per gli addetti ai lavori”, ha detto Simongini, “una mostra che ha lo scopo principale di far capire la portata rivoluzionaria del futurismo e i suoi legami con la vita di allora e di oggi: sono orgoglioso di fare una mostra per tutti”. I “legami con la vita di oggi”, ci s’arriverà, sono da rinvenire, secondo l’idea della mostra, nel rapporto tra futurismo e scienza, tra futurismo e tecnologia.

A Marinetti sarebbe piaciuto un “futurismo per tutti”? Gli sarebbe piaciuto un futurismo tra colonne corinzie e sale imbiancate? Avrebbe gradito che alla sua rivoluzione s’accedesse con biglietto turistico Roma Pass? La domanda sull’eventuale apprezzamento di Marinetti, che risuona stentorea in queste ore soprattutto tra gli ambienti culturali ostili al governo, appare tuttavia oziosa: il destino d’ogni avanguardia dopo il tramonto è quello di diventare borghesia oppure storia, o entrambe le cose, e in ogni caso di diventare passato (senza contare, poi, che il nostro atteggiamento nei riguardi del passato ha conosciuto, negli ultimi cent’anni, qualche piccola modificazione). Anzi, il Marinetti del dopoguerra forse avrebbe accolto con moto d’ammirazione l’attivismo dell’ex ministro Sangiuliano: la rivoluzione politica, scriveva Marinetti nel manifesto I diritti artistici propugnati dai futuristi italiani, “deve sostenere la rivoluzione artistica, cioè il futurismo e tutte le avanguardie”. Sangiuliano deve aver preso alla lettera i propositi marinettiani, dacché fin dal suo insediamento al Collegio Romano s’è a lungo industriato, con una partecipazione alla definizione dei contenuti d’un museo che non ha precedenti nella storia del paese, per sostenere, promuovere, programmare, organizzare, avviare una grande mostra sul futurismo, sognata fin dalla prima uscita pubblica (era il 29 ottobre 2022, appena una settimana dopo la nomina, e già Sangiuliano fantasticava su di una mostra futurista, magari da allestire... nelle sale del Museo Archeologico Nazionale di Napoli!), e che ha cominciato a prender forma nel dicembre di due anni fa, col conferimento ufficiale dell’incarico a Giuseppe Simongini. Tutto quello ch’è arrivato dopo è noto, e sembra insensato rivangare in questa sede tutte le polemiche che hanno accompagnato i preparativi dell’esposizione (all’osservazione, emersa durante la conferenza stampa, che pure lo strascico di polemiche evoca un clima futurista, conviene comunque rispondere che i futuristi cercavano, sollevavano, progettavano con precisione millimetrica la polemica, e non è che la subissero com’è accaduto alla mostra della Gnam): alla fine, l’ombra che s’aggirava sulle colonne dei giornali s’è fatta carne, la fantasia s’è trasformata in sostanza, il sogno s’è fatto realtà e la mostra è infine arrivata, aperta a tutti, aperta agli apprezzamenti degli entusiasti (che non mancheranno), aperta alle discussioni e alle critiche, pronta per esser dibattuta e soppesata, col suo pachidermico carico di materiali (cinquecento oggetti, di cui trecentocinquanta opere d’arte, disposti lungo ventisei sale!) e con l’altrettanto gigantesco carico d’aspettative, ulteriormente alimentate da Renata Cristina Mazzantini, direttrice della Gnam, che in conferenza stampa l’ha addirittura presentata come una rassegna letteralmente epocale, e cioè come quella ch’è “forse la più importante mostra degli ultimi dieci anni in Italia”.

Com’è che allora si valuta l’importanza d’una mostra? Non è sufficiente la quantità di pezzi disposti lungo l’itinerario di visita (e questo è chiaro a tutti, anche a chi non ha mai messo piede in un museo), non serve rimarcare l’internazionalità dei prestiti, e spesso non è sufficiente neppure la qualità delle opere che la compongono se mancano all’appello pezzi fondamentali, se il progetto è poco chiaro, se certe letture paiono forzate, se gli apparati sono scarni, se mancano novità sostanziali, se mancano sguardi nuovi, se mancano idee nuove. Se dunque occorre valutare Il tempo del Futurismo sulla base della sua importanza, in questo momento a Roma ci sono almeno un paio di mostre sicuramente più importanti, e cioè quella sul papato Ludovisi alle Scuderie del Quirinale e quella sui rapporti tra Giambattista Marino e le arti alla Galleria Borghese, ovvero due mostre fondate su progetti effettivamente nuovi, dense d’opere rilevanti e di succosi prestiti internazionali, che approfondiscono argomenti poco o per niente esplorati (se non in letteratura, sicuramente in ambito espositivo). Ma l’importanza de Il tempo del Futurismo va ridimensionata anche rispetto alla storia delle mostre sul movimento, una storia peraltro densa, foltissima specialmente negli ultimi anni: è da respingere con forza lo stereotipo d’un futurismo rigettato dal milieu culturale italiano per via dei suoi legami col fascismo. Lo è stato, certo, per molto tempo, ma la demolizione delle barriere issate dalla damnatio memoriae è cominciata più di trent’anni fa e oggi si parla di futurismo esattamente come di manierismo cinquecentesco o di vedutismo veneziano, ovvero come d’un momento della storia dell’arte. E sotto questo profilo la mostra, malgrado le vicende che l’hanno accompagnata (a inizio novembre la commissione cultura, nel rispondere a un’interrogazione della deputata Manzi, non s’è peritata d’evidenziare che la riduzione del numero delle opere inizialmente prevista – dovevano essere circa seicento – è stata decisa “dallo stesso professor Simongini con il vertice politico del Ministero e con la direzione della Galleria nazionale di arte moderna”), va sottolineato, evita rivendicazioni di carattere ideologico o politico. Rispetto alla storia delle mostre del futurismo, si diceva, ci son stati anche nel passato recentissimo alcuni momenti più intensi e importanti, anche senza dover tornare indietro di troppo tempo: più originali della mostra della Gnam son state, per esempio (e limitando lo sguardo all’Italia), la rassegna sull’aeropittura del Labirinto della Masone, o anche quella di Palazzo Blu del 2019, che ripercorreva la storia del futurismo (l’intera storia del futurismo, come aveva fatto, per la prima volta in maniera completa, la rassegna del Guggenheim a New York qualche anno prima) con capitoli legati ai varî manifesti che hanno punteggiato la storia del movimento, o ancora la prima monografica su Gino Galli, dell’anno scorso, che ha avuto il merito di richiamare l’attenzione su di un luminoso allievo di Balla rimasto troppo a lungo coperto dalle ceneri dell’oblio.

Allestimenti della mostra Il tempo del Futurismo. Foto: Finestre sull'Arte
Allestimenti della mostra Il tempo del Futurismo. Foto: Finestre sull’Arte
Allestimenti della mostra Il tempo del Futurismo. Foto: Finestre sull'Arte
Allestimenti della mostra Il tempo del Futurismo. Foto: Finestre sull’Arte
Allestimenti della mostra Il tempo del Futurismo. Foto: Finestre sull'Arte
Allestimenti della mostra Il tempo del Futurismo. Foto: Finestre sull’Arte
Allestimenti della mostra Il tempo del Futurismo. Foto: Finestre sull'Arte
Allestimenti della mostra Il tempo del Futurismo. Foto: Finestre sull’Arte
Allestimenti della mostra Il tempo del Futurismo. Foto: Finestre sull'Arte
Allestimenti della mostra Il tempo del Futurismo. Foto: Finestre sull’Arte

Cosa deve aspettarsi allora il pubblico? Nelle sale della Gnam va in scena una mostra che si potrebbe definire scolastica. Una mostra di riepilogo, a voler essere generosi. Una scansione cronologica, paratattica, minimalista, conformista, priva di sussulti. Una rivoluzione convenzionale, insomma. Una rassegna lacunosa anche rispetto all’intento d’essere una mostra per tutti, perché gli apparati sono ridotti ai minimi termini, sono avari d’informazioni i pochi pannelli che marcano il percorso, e peraltro m’è stato detto da un’addetta della Gnam che neppure è data la possibilità d’ascoltare un’audioguida: una mostra per tutti, insomma, che di fatto quasi abbandona il suo pubblico. Non che manchino i pezzi importanti, ma per essere la più importante mostra italiana degli ultimi dieci anni le assenze sono tante: per esempio, rispetto al canone dei quattro dipinti fondamentali stabilito da Pontus Hultén in occasione dell’irripetibile mostra di Palazzo Grassi del 1986, vale a dire La città che sale di Boccioni, la Rivolta di Russolo, I funerali dell’anarchico Galli di Carrà e l’Automobile in corsa di Balla, alla Gnam se ne può vedere soltanto uno, ovvero la Rivolta di Russolo, prestito comunque davvero eccezionale, che assieme alla Lampada ad arco di Balla forse vale l’intera visita. Mancano poi testi estremamente rilevanti come la Rissa in galleria e il Footballer di Boccioni, il Cane al guinzaglio e il Violinista di Balla, il Profumo di Russolo, mancano alcuni lavori fondamentali dall’aeropittura (come Incuneandosi nell’abitato di Tullio Crali), la scultura è quasi totalmente non pervenuta, e ancora gli unici, sparuti pezzi che rappresentano il fotodinamismo di Bragaglia si perdono nelle due sale riservate alla pubblicitaria futurista, non sono in accordo cronologico col resto della mostra, così che il pubblico, trovandosele in mezzo a volumi, scritti e articoli, rischia di sottovalutarne la rilevanza. Simongini, nel suo saggio in catalogo, si schermisce in anticipo, bollando come “gioco piuttosto stucchevole” da “addetti ai lavori” la conta delle assenze (“quest’opera c’è ma quella manca”), ma questa conta forse diventa più che legittima per una mostra che s’apre dopo mesi di proclami, presentata quasi come l’evento della rinascita, come un “progetto rilevante […] per la Galleria Nazionale stessa, che dopo anni è tornata a ospitare una rassegna dal respiro internazionale”. Auspicare la presenza dei testi fondanti non è onanismo da specialisti: è solitamente quel che ci s’aspetta da una mostra che abbia ambizioni di rilevanza.

Ciò ovviamente non significa che i pezzi importanti manchino: il giudizio non deve neppure eccedere in senso opposto, anche perché l’inizio del percorso è effettivamente roboante, con una prima sala raffinata, che evoca le premesse del futurismo con una piccola ma densissima infilata di capisaldi del divisionismo, col Sole e il Tramonto di Pellizza da Volpedo e Alla stanga di Segantini, tra gli altri, che dialogano con la Lampada ad arco di Balla: è come se la mostra cominciasse dicendo al pubblico che all’alba del Novecento un’Italia rurale, legata ai ritmi della natura, stesse per soccombere al cospetto dell’avvio della modernità, al frastuono delle città, all’Italia della luce elettrica. La luce naturale di Pellizza tramonta, sorge quella artificiale di Balla che di lì in avanti dovrebbe illuminare il resto del percorso. Un inizio denso, potente, che accompagna i visitatori verso un’altra sala dove sfilano le opere dei futuristi prima del futurismo, di altri grandi divisionisti (Previati su tutti) e di alcuni notevoli antesignani, su tutti quel Romolo Romani presente all’inizio del percorso col Ritratto di Dina Galli e soprattutto con L’urlo sospesi a metà tra reminiscenze simboliste e ansia di modernità.

Poi, dopo la deflagrazione, la mostra comincia a perder forza, vigore, intensità, subisce qualche sfasamento cronologico (non solo il Bragaglia fuori tempo massimo: il più evidente è la parata d’automobili in una sala dove ancora ci sono manifesti del divisionismo e del simbolismo, a cominciare dalla Caduta degli angeli di Previati del 1913 esposta dietro un modello di Maserati uscito quindici anni dopo la morte di Previati), e va incontro a una diluizione ch’è del resto ineludibile in un percorso ch’è fatto per grossa parte di pezzi tirati fuori dai depositi della Gnam: anche qui non mancano sorprese che valgono la visita (la Futurlibecciata di Balla ch’evoca atmosfere orientali, oppure il Ritratto geografico di Marinetti di Farfa, o ancora la Funzione architettonica di Ivo Pannaggi, sostenitore, nel futurismo della seconda ondata, d’un macchinismo alternativo e dalle forti implicazioni politiche), ma il fatto che un terzo della mostra, grosso modo, si componga d’opere che fanno parte della raccolta del museo ospitante e soprattutto dei suoi depositi (e molto si concentra sulla produzione di Balla e sulle due sezioni conclusive sull’eredità, o presunta tale, del futurismo), a dispetto del sincero entusiasmo che suscita la possibilità di vedere pezzi altrimenti difficili da ammirare, è circostanza che provoca un inevitabile annacquamento, coi pezzi fondamentali che si perdono in mezzo alle tante opere di contorno e, complice anche l’assenza d’una pannellistica che possa guidare il visitatore, rischiano di passare inosservati. Affogano tra le onde d’un apparato didattico piatto, malgrado le pretese d’inclusività, la Sintesi futurista della guerra, il Can Can di Giuseppe Cominetti (che fu tra i divisionisti più commoventi e che per qualche breve tempo fu anche futurista), due piccole Compenetrazioni iridescenti di Balla (che lungi dall’essere le migliori della serie sono comunque le uniche testimoni in mostra di questo filone delle ricerche del futurista romano, che con le Compenetrazioni si pose come uno dei primi astrattisti europei, e secondo recenti interpretazioni la sua astrazione precedette financo quella di Kandinskij), la Velocità di motoscafo di Benedetta Cappa Marinetti e la Battaglia aerea nella notte di Marisa Mori (il contributo delle futuriste al movimento è stato trascurato, malgrado le ricerche più recenti abbiano cominciato a porsi il problema, come s’è visto alla mostra del Labirinto della Masone), il Dinamismo meccanico e animale di Gino Galli ch’è stato interprete originale e a lungo negletto del futurismo della prima ora, il collage Natura morta di Ardengo Soffici innervato di linfa francese, o ancora i due fogli di Guido Strazza, l’unico futurista ancora vivente, quasi nascosti nella sezione sull’aeropittura.

Allestimenti della mostra Il tempo del Futurismo. Foto: Finestre sull'Arte
Allestimenti della mostra Il tempo del Futurismo. Foto: Finestre sull’Arte
Allestimenti della mostra Il tempo del Futurismo. Foto: Finestre sull'Arte
Allestimenti della mostra Il tempo del Futurismo. Foto: Finestre sull’Arte
Allestimenti della mostra Il tempo del Futurismo. Foto: Finestre sull'Arte
Allestimenti della mostra Il tempo del Futurismo. Foto: Finestre sull’Arte
Allestimenti della mostra Il tempo del Futurismo. Foto: Finestre sull'Arte
Allestimenti della mostra Il tempo del Futurismo. Foto: Finestre sull’Arte
Allestimenti della mostra Il tempo del Futurismo. Foto: Finestre sull'Arte
Allestimenti della mostra Il tempo del Futurismo. Foto: Finestre sull’Arte

Il curatore, si diceva, vuole che la sostanza della mostra emerga non dal registro dei presenti e degli assenti, bensì dalla contestualizzazione di quanto esposto “in una sorta di ‘sociologia’ culturale fondata soprattutto sulle fondamentali innovazioni scientifiche e tecnologiche che ne hanno accompagnato la creazione e senza le quali sfuggirebbe completamente il senso profondamente e radicalmente rivoluzionario del futurismo”. Naturalmente è difficile ricordare una delle tante mostre sul futurismo che non abbia insistito sull’esaltazione del futurismo per le macchine o per gli aeroplani, e pure l’idea d’esporre automobili e apparecchi non è nuova (già la mostra di Palazzo Grassi del 1986 era stata pionieristica in tal senso). Parimenti discutibile è l’idea d’arruolare Guglielmo Marconi tra i ranghi del futurismo, specie laddove la mostra tenta d’instaurare un forzato parallelo tra l’immaginazione marinettiana e lo sviluppo della telegrafia senza fili che valse allo scienziato il Nobel per la fisica del 1909, lo stesso anno in cui Marinetti pubblicava il primo manifesto futurista. Riesce difficile pensare a un Marconi futurista: semmai, volendo rispondere con un’altra forzatura, è il futurismo ch’è stato marconiano. Anzi, si potrebbe riprendere uno spunto di Crispolti e immaginare, al contrario, un Marconi che di fatto smorza il misticismo elettrico, se così lo vogliamo chiamare, del primo futurismo, e orienta le ricerche dei futuristi degli anni Venti e Trenta indirizzandole verso un rapporto più stretto tra arte e scienza (“Il tram appare nell’orizzonte della boccioniana La città che sale e invade al tempo stesso la pittura di Carrà”, scriveva Crispolti. “Le strade, le insegne, i caffè illuminano la notte. ‘O braccia dell’Elettrico / distese in ogni luogo / a prendere la vita, a trasformarla’, canterà Folgore nella poesia L’elettricità. Questa novità sconvolgente che proviene dal mistero e che muove i motori, l’elettricità, è l’anima del primo futurismo. Ma diviene ordinaria fino a quando il genio di Marconi, progressivamente, non le assegna altro fascino e, sul finire degli anni Venti, inedite prospettive”). È anche sulla base delle ricerche di Marconi che un futurista come Enrico Prampolini (rammentato nella sala dedicata a Marconi solo per l’elogio ricevuto dallo scienziato: riteneva che fosse l’unico artista ad aver compreso le sue ricerche) elaborò, notava Filiberto Menna già negli anni Sessanta, “una moderna cosmologia fondata sulla nozione di relatività e sul concetto di quarta dimensione, così come la cosmologia della Commedia dantesca era fondata sull’astronomia medievale”. Non manca in mostra una bella sala sull’idealismo cosmico di Prampolini e di quanti condivisero i suoi intenti (è tra le meglio riuscite della mostra), ma forse è stato sottovalutato il contributo che la scienza e le scoperte di Marconi hanno offerto alla sua pittura visionaria. A raccontare il rapporto tra futurismo e tecnologia rimane allora l’installazione di Magister Art che dovrebbe dimostrare al pubblico l’idea per cui “l’intelligenza artificiale e gli algoritmi generativi rientrano perfettamente nella visione di futuro di Marinetti, che parlava di umanizzazione della macchina e di macchinizzazione dell’umano” (così Simongini in conferenza stampa). Non è però chiaro come tutto ciò si dovrebbe inferire da una sorta di giostra ch’emette luci colorate (dovrebbero essere gli Stati d’animo di Boccioni) e diffonde una declamazione di Marinetti.

Sempre in conferenza stampa s’è poi rimarcato il carattere internazionale del futurismo, punto sul quale in passato ha insistito molto l’ex ministro Sangiuliano, rammentando, ogni volta che ce ne fosse l’occasione, come il futurismo sia stato avanguardia che s’è poi diffusa in tutto il mondo: un filone d’indagine, quello dei futurismi internazionali, che venne avviato da Hultén con la mostra del 1986, ma ch’è stato poi a lungo trascurato, e che la mostra della Gnam non tocca (le presenze internazionali si limitano al pur importante Nudo che scende le scale no. 1 di Duchamp e a un collage di Schwitters, senza che però il visitatore venga informato sul perché della loro presenza), così come nemmeno sfiorato è il tema delle relazioni internazionali dei futuristi, oggetto peraltro d’una mostra che s’è tenuta lo scorso anno al Kröller-Müller Museum di Otterlo. Sarebbe stato più utile, anche per un più approfondito inquadramento del futurismo e per dare al pubblico una vera idea della sua portata, prevedere una sezione che desse veramente conto del carattere internazionale del movimento, magari al posto dell’anodino capitolo finale dedicato a quanti avrebbero sviluppato, dagli anni Cinquanta in poi, le proprie ricerche cogliendo spunti dal futurismo (e anche in questo caso si son mescolati artisti che si sono posti quasi in ottica di continuità ad altri per i quali invece l’accostamento al futurismo è stato episodico).

Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il sole (Il sole levante) (1904; olio su tela, 55 x 55 cm; Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea)
Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il sole (Il sole levante) (1904; olio su tela, 55 x 55 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)
Giacomo Balla, Lampada ad arco (1909-1911; olio su tela, 174,7 x 114,7 cm; New York, Museum of Modern Art)
Giacomo Balla, Lampada ad arco (1909-1911; olio su tela, 174,7 x 114,7 cm; New York, Museum of Modern Art)
Umberto Boccioni, Stati d’animo I: Quelli che vanno (1911; olio su tela, 71 x 95,5 cm; Milano, Museo del Novecento)
Umberto Boccioni, Stati d’animo I: Quelli che vanno (1911; olio su tela, 71 x 95,5 cm; Milano, Museo del Novecento)
Umberto Boccioni, Stati d’animo I: Gli addii (1911; olio su tela, 71 x 96 cm; Milano, Museo del Novecento)
Umberto Boccioni, Stati d’animo I: Gli addii (1911; olio su tela, 71 x 96 cm; Milano, Museo del Novecento)
Umberto Boccioni, Stati d’animo I: Quelli che restano (1911; olio su tela, 71 x 96 cm; Milano, Museo del Novecento)
Umberto Boccioni, Stati d’animo I: Quelli che restano (1911; olio su tela, 71 x 96 cm; Milano, Museo del Novecento)
Luigi Russolo, La rivolta (1911; olio su tela, 150 x 230 cm; L'Aia, Den Haag Kunstmuseum)
Luigi Russolo, La rivolta (1911; olio su tela, 150 x 230 cm; L’Aia, Den Haag Kunstmuseum)
Giacomo Balla, Bambina che corre sul balcone (1912; olio su tela, 125 x 125 cm; Milano, Galleria d'Arte Moderna)
Giacomo Balla, Bambina che corre sul balcone (1912; olio su tela, 125 x 125 cm; Milano, Galleria d’Arte Moderna)
Umberto Boccioni, Sviluppo di una bottiglia nello spazio (1912; bronzo, 38 x 59 x 32 cm; Milano, Museo del Novecento)
Umberto Boccioni, Sviluppo di una bottiglia nello spazio (1912; bronzo, 38 x 59 x 32 cm; Milano, Museo del Novecento)
Giuseppe Cominetti, Can Can (1911; olio su tela, 106,5 x 97,5 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)
Giuseppe Cominetti, Can Can (1911; olio su tela, 106,5 x 97,5 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)
Gino Severini, Danseuse articulée (1915; olio su cartone con elementi mobili collegati da spaghi, 65,5 x 54 cm; Mamiano di Traversetolo, Fondazione Magnani-Rocca)
Gino Severini, Danseuse articulée (1915; olio su cartone con elementi mobili collegati da spaghi, 65,5 x 54 cm; Mamiano di Traversetolo, Fondazione Magnani-Rocca)
Rougena Zátková, Marinetti soleil (1921-1922; olio su tela, 100 x 89 cm; Collezione privata)
Rougena Zátková, Marinetti soleil (1921-1922; olio su tela, 100 x 89 cm; Collezione privata)
Fortunato Depero, Guerra-Festa (1925; arazzo, 330 x 243 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)
Fortunato Depero, Guerra-Festa (1925; arazzo, 330 x 243 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)
Giacomo Balla, Pessimismo e Ottimismo (1923; olio su tela, 115 x 176 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)
Giacomo Balla, Pessimismo e Ottimismo (1923; olio su tela, 115 x 176 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)
Gerardo Dottori, Incendio città (1926; olio su tela, 211 x 190 cm; Perugia, Museo Civico di Palazzo della Penna)
Gerardo Dottori, Incendio città (1926; olio su tela, 211 x 190 cm; Perugia, Museo Civico di Palazzo della Penna)
Enrico Prampolini, L’automa quotidiano (1930; olio e collage su tavola, 100 x 80 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)
Enrico Prampolini, L’automa quotidiano (1930; olio e collage su tavola, 100 x 80 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)
Guglielmo Sansoni (Tato), Sorvolando in spirale il Colosseo (1930; olio su tela, 80 x 80 cm; Roma, Collezione privata)
Guglielmo Sansoni (Tato), Sorvolando in spirale il Colosseo (1930; olio su tela, 80 x 80 cm; Roma, Collezione privata)
Tullio Crali, Prima che si apra il paracadute (1939; olio su tavola, 141 x 151 cm; Udine, Museo d’Arte Moderna e Contemporanea)
Tullio Crali, Prima che si apra il paracadute (1939; olio su tavola, 141 x 151 cm; Udine, Museo d’Arte Moderna e Contemporanea)

Senza le aspettative della lunga vigilia, Il tempo del Futurismo sarebbe stata una delle tante mostre sul futurismo che a cadenza quasi annuale vengono organizzate nei musei italiani. E quindi sostanzialmente una mostra discreta, gradevole e ben costruita soprattutto nelle prime sale, intelligente nell’esporre assieme alcuni capolavori divisionisti coi primi esperimenti futuristi di Boccioni e compagni per mostrare al grande pubblico che la storia dell’arte non è una sequenza a compartimenti stagni come ci vien presentata nei manuali, una mostra ravvivata da alcuni lampi (la Lampada ad arco di Balla, la Rivolta di Russolo, il trittico degli Affetti di Balla e ancora la sua Bambina che corre sul balcone, il Ritratto di Dina Galli di Romani, il trittico degli Stati d’animo di Boccioni, il Marinetti Soleil di Rougena Zatkova, i burattini futuristi di Enrico Prampolini che l’anno scorso davano avvio alla mostra sui burattini e le marionette di Palazzo Magnani a Reggio Emilia, l’Incendio città di Gerardo Dottori) ma poco audace e molto conformista, priva di quel respiro internazionale che le si è voluto attribuire, incolore nel finale, e per di più una mostra che sconta l’assenza d’una pannellistica approfondita che dia conto al pubblico delle scelte del curatore, anche in relazione alla presenza di lavori che paiono catapultati in mezzo alle opere principali: vale, per esempio, per l’Accademico di Regina, per il Fioraio di Dudreville, per le opere di Julius Evola, per la Ballerina di Sironi. Niente di nuovo, insomma, per chi abbia già visto negli ultimi anni almeno una mostra riassuntiva del futurismo: la rassegna di Simongini, in tal caso, merita giusto per la possibilità di vedere le opere tratte dai depositi e quei pochi prestiti internazionali che si son menzionati. Se invece dobbiamo considerarla alla luce delle attese, e dunque come una delle più importanti mostre italiane degli ultimi dieci anni, allora Il tempo del Futurismo difficilmente potrà esser ritenuta una pietra miliare, per i motivi di cui s’è detto, per le mancanze che riguardano non soltanto le opere presenti ma anche i temi toccati (nessun accenno, per esempio, alle futuriste, ai futurismi internazionali, ai rapporti tra i futuristi e le altre avanguardie del primo Novecento, alla musica futurista, al teatro futurista, alle implicazioni politiche del macchinismo di Paladini e Pannaggi, all’anarcofuturismo, ai rapporti tra futurismo e potere), e anche in relazione al dispiegamento di forze con cui la rassegna è stata costruita (due anni di progettazione, quattromila metri quadri di superficie espositiva, un milione e mezzo di euro il costo per le casse del Ministero, più gli sponsor privati).

Andrà tenuto conto che per render possibile Il tempo del Futurismo è stato disallestito mezzo museo onde poter concedere alla mostra le ventisei sale lungo le quali Simongini ha dispiegato la sua parata di opere, che occupa quelli ch’erano i settori tre e quattro del fu Time is out of joint: e, beninteso, non ci sarebbe stato niente di male, se non che nell’altra metà del museo son rimasti giusto i lacerti del più che discutibile allestimento di Cristiana Collu, i monconi di quell’operazione tardivamente postmoderna che i visitatori del museo hanno dovuto subire loro malgrado per sette anni. Ieri, primo giorno d’apertura al pubblico della mostra, oltre a Il tempo del Futurismo si poteva visitare soltanto l’ex settore due del vecchio allestimento. La Gnam, in altri termini, non s’è preoccupata di fornire ai visitatori un sunto ordinato della collezione permanente nelle sale della raccolta: quello che s’incontra è, in pratica, l’allestimento creativo, per usare un eufemismo, della ex direttrice, amputato però d’una sua parte. In queste condizioni la visita alla raccolta permanente del museo diventa pressoché inutile. Che la Gnam abbia voluto mettere in atto un’operazione, questa sì, veramente marinettiana e futurista? Mentre s’interrogano, i visitatori interessati alla collezione permanente non potranno far altro che aspettare il rappel à l’ordre.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Al suo attivo anche docenze in materia di giornalismo culturale (presso Università di Genova e Ordine dei Giornalisti), inoltre partecipa regolarmente come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).




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DIC-GEN-FEB 2019/2020
Finestre sull'Arte