È costretto a sdoppiarsi chi, quest’autunno, voglia veder dal vero l’opera di Berthe Morisot, spartita tra due sedi a un paio d’ore di distanza l’una dall’altra: GAM di Torino e Palazzo Ducale a Genova ospitano due mostre, entrambe indipendenti, per presentare al pubblico le opere della più delicata tra gl’impressionisti, la “zia Berthe” come la chiamavano sul finire di carriera, la pittrice per la quale mai prima d’ora in Italia s’era organizzata una rassegna dedicata, al contrario di quel ch’è sempre avvenuto in Francia, dove Berthe Morisot, per quanto meno conosciuta rispetto a un Monet, a un Degas o a un Renoir, è stata spesso osservata sotto la lente d’ingrandimento. Avremmo potuto immaginare, di qua dalle Alpi, un’unica mostra che radunasse tutto il radunabile, capace di detenere una posizione più forte nei riguardi dei prestatori, che inquadrasse compiutamente la produzione di Berthe Morisot nel suo contesto, e che magari tirasse le fila di tutto quanto è stato prodotto su di lei negli ultimi anni? Non lo sappiamo, ma di sicuro sarebbe stato meglio che avere due mostre separate e slegate. Certo, si dirà che Berthe Morisot, artista poco conosciuta dal pubblico italiano, per essere introdotta alle nostre latitudini necessitava di un’occasione più divulgativa: dalle nostre parti poco forse c’interessa sondare i legami tra Morisot e l’arte del Settecento, poco c’interessa capire fino a che punto s’estesero su di lei le suggestioni ricavate dalla pittura inglese in un momento cruciale della sua carriera (il viaggio di nozze in Inghilterra dopo il matrimonio, nel 1874, con Eugène Manet, fratello di Édouard), poco c’interessano i dettagli quando c’è da vedere un’artista che si conosce poco. A maggior ragione, allora, avere due mostre in due città diverse nello stesso momento pare più un problema che un’opportunità: non mancano le sovrapposizioni, opere che avrebbero ben figurato in una mostra sono assenti dall’altra e viceversa, ci sono appendici che paiono più riempitivi che affondi dettati dalla necessità d’approfondire, e via dicendo.
Comune alle due mostre è l’idea che Berthe Morisot sia stata figura centrale nelle vicende dell’impressionismo, concetto ch’era ben chiaro ai suoi contemporanei, ma che s’è perso nei decennî, non tanto per oscurantismo nei riguardi d’una donna, quanto semmai per la sua personalissima vicenda, del tutto simile, per esempio, a quella di Gustave Caillebotte, altro impressionista fondamentale ma meno noto al grande pubblico dei varî Monet, Degas e Renoir. Ammirati e solitari, questa la condizione di Morisot e Caillebotte. Entrambi esponevano regolarmente alle mostre del gruppo (delle otto esposizioni impressioniste organizzate tra il 1874 e il 1886, Morisot ne saltò soltanto una), entrambi hanno vissuto un’esistenza piuttosto appartata nonostante i loro saldi legami con gli altri impressionisti, entrambi stavano bene di famiglia e quindi non avevano bisogno di dipingere per vivere, ragion per cui il grosso delle loro opere, dopo la loro scomparsa, è rimasto in casa. È per questo motivo che anche in Francia non sono molte le opere di Berthe Morisot che si conservano nei musei pubblici, almeno se paragonate alla quantità di lavori dei suoi colleghi: questo il primo mattone d’una fortuna critica relativamente scarsa (naturalmente non in termini assoluti, ma sempre in rapporto agli altri impressionisti più noti). Non le ha probabilmente giovato il carattere timido: “Quanto alla sua personalità, è noto che fu delle più schive e riservate; distinta per natura; facilmente, pericolosamente taciturna; inconsapevole d’imporre un’inspiegabile distanza a chiunque l’avvicinasse senza essere uno dei grandi artisti dell’epoca”. Scriveva così Paul Valéry, che di Berthe Morisot fu buon amico, subito dopo la scomparsa della pittrice.
È un esercizio utile scorrer le pagine sue e quelle di Stéphane Mallarmé, altro poeta, altro sincero amico di Berthe Morisot, per cogliere tutto quel garbo, tutta quella delicatezza di cui profumano le opere d’una ragazza, una signora elegante, riservata, che poteva sembrare distante a chi la conosceva, ma non perché assente: era “lontana per eccessiva presenza”, scriveva Valéry. Nel senso che ai suoi occhi il mondo brillava d’una purezza astratta e luminosa, una purezza che lei cercava di riprodurre coi suoi dipinti. Coi suoi dipinti cercava d’esprimere la grazia leggera e ineffabile d’un pomeriggio in giardino, d’una passeggiata sulla spiaggia, d’una bambina che gioca. Cogliere questa purezza, quest’astrazione, significava essere totalmente presenti in quest’astrazione, significava coltivare una deliziosa, delicata, raffinata ossessione per l’occasione, significava di conseguenza apparire lontani agli occhi della gente. “Ogni giorno prego che il buon Dio mi renda come una bambino, e cioè che mi faccia vedere la natura e la rappresenti come farebbe un bambino, senza preconcetti”: diceva così Camille Corot, che per qualche tempo fu maestro di Berthe Morisot. La leggerezza vivace dei suoi dipinti non è questione di femminilità (la femminilità di Berthe Morisot è semmai da trovare nelle atmosfere, più che negli elementi tecnici): anche Monet sapeva essere altrettanto e talvolta ancor più leggero di Morisot. La leggerezza è semmai sintomo di questa totale dedizione a una realtà ch’è percepita come transitoria, oltre che, com’è stato spesso rilevato, riflesso della sua conoscenza approfondita dell’arte settecentesca: la delicatezza di Berthe Morisot non è poi così lontana da quella d’un Fragonard. Che era un uomo.
Lo stereotipo della borghese annoiata che si dedica alla pittura considerandola un vezzoso passatempo femminile è quanto di più lontano dalla percezione che Berthe Morisot aveva di se stessa. E altrettanto lontana dalla realtà è l’immagine, parimenti stereotipata, della modella di Manet che a un certo punto, per qualche motivo, decide di passar dall’altra parte del cavalletto. Così, senza motivi apparenti. Se Berthe Morisot avesse potuto, avrebbe frequentato la scuola d’arte, che fino al 1897 rimase però aperta esclusivamente ai maschi: viva era l’intenzione di percorrere quella strada, la strada della pittura, assieme alla sorella Edma, che cominciò a studiare con lei, e rinunciò poi del tutto alla pittura dopo una decina d’anni, nel 1869, quando si sposò (e Berthe sarebbe rimasta per qualche tempo restia all’idea del matrimonio avendo visto cos’aveva comportato per la sorella). Berthe, al contrario, dacché cominciò a prender lezioni le prime lezioni private nel 1855 (il primo maestro suo e di sua sorella fu il sessantenne Geoffroy-Alphonse Chocarne: la madre le aveva iscritte alla sua scuola perché desiderava che apprendessero qualche rudimento per regalare dei disegni al padre per il suo compleanno), seguitò a dipingere fino alla fine dei suoi giorni. Fu il suo secondo maestro, Joseph Guichard, il primo a notare il suo talento. Berthe Morisot non aveva ancora compiuto diciott’anni che già copiava con abilità i grandi maestri (alla mostra di Genova è esposta una sua copia dal Calvario del Veronese, in collezione privata, presenza fondamentale dacché tra le rare opere giovanili di Berthe Morisot che ci siano rimaste: fu lei stessa a distruggere gran parte della sua produzione degli anni Sessanta, e alla mostra di Palazzo Ducale è possibile vederne un ristretto ma prezioso nucleo). La copia dei grandi maestri fu un’attività che Berthe praticò anche dopo il 1860, quando passò a studiare con Corot, che la introdusse alla pittura di paesaggio (esposto a Genova anche un paesaggio copiato dal maestro). Solitamente, Berthe Morisot è pittrice che si conosce in medias res, quand’è già artista formata, solida, matura, indipendente: così vien subito introdotta al pubblico dalla mostra di Torino, dove il pubblico troverà due dei capolavori dell’artista francese, la Donna col ventaglio ed Eugène Manet all’isola di Wight, distanti, in due sale diverse, poiché entrambe le mostre sono costruite principalmente su base tematica, scelta che contribuisce a movimentare di più il percorso di visita ma che al contempo tende a far passare un poco in secondo piano gli aspetti legati alla ricerca formale, cui forse andava dato maggior risalto (si vedrà più avanti perché). A quelle altezze, peraltro, Berthe Morisot già vendeva: aveva cominciato a piazzare le sue opere sul mercato nel 1873, attraverso la galleria di Paul Durand-Ruel. E proprio verso la fine di quell’anno aveva deciso d’unirsi agli altri impressionisti in vista della prima mostra del gruppo, quella del 1874, quella fondamentale mostra di cui oggi si celebrano i centocinquant’anni (in Francia, per la ricorrenza, il Musée d’Orsay ha organizzato una delle mostre più interessanti degli ultimi anni). Nessuno dei dieci dipinti che Berthe Morisot espose alla mostra del 1874 è presente nelle due rassegne italiane, ma a Genova se ne può vedere uno, I lillà a Maurecourt, simile per modi e soggetto alle opere che l’artista presentò nello studio fotografico di Nadar. Preoccupazione principale di Berthe Morisot in questo periodo è dipingere una figura catturata nel pieno d’un momento di vita quotidiano, in uno spazio aperto, in un ambiente naturale, possibilmente colta en plein air, secondo l’insegnamento del maestro Corot: anzi, lo storico dell’arte Denis Rouart ha ipotizzato che sia stata proprio Berthe Morisot a convincere l’amico Édouard Manet a dipingere all’aperto (anche se poi Manet avrebbe comunque preferito lavorare nel comodo del suo studio, ma non per questo non volle provare ad aprirsi alla pittura nuova, che si faceva all’aria aperta: Le Jardin, opera di Manet del 1870 conservata nel Vermont, è il primo dipinto chiave per comprendere i rapporti artistici tra i due, argomento che tuttavia nelle mostre di Genova e Torino viene solo sfiorato).
Il principale difetto delle due mostre (che, dopo le rispettive introduzioni, procedono piuttosto in parallelo: a Genova una sezione dedicata alla figlia di Berthe, Julie, protagonista di molti suoi ritratti, cui risponde la sezione Ritratti di famiglia della mostra torinese, e poi sempre a Genova un suggestivo capitolo sulla ritrattistica, cui è stato dato il titolo di L’incarnazione dell’impressionismo, al quale corrisponde, benché più in piccolo, la sezione Ritratti femminili della rassegna della GAM) consiste nel fatto che, essendo stati ridotti ai minimi termini i confronti con altri artisti (a Torino il confronto più interessante, come si vedrà, è con un’opera di Manet, mentre a Genova c’è un capolavoro di Monet, Le ville a Bordighera, risalente al periodo del suo soggiorno in Liguria), si fa qualche fatica a cogliere gli elementi in comune e, viceversa, le divergenze rispetto agli altri impressionisti, al di là della scelta dei soggetti (non che gli altri impressionisti disdegnassero dipingere scene d’intimità quotidiana, ma nella pittura di Berthe Morisot sono prevalenti), di cui entrambe le mostre offrono un adeguato campionario. È vero: seguendo Paul Valéry, si può esser come lui tentati di dire “che nell’insieme la sua opera assomiglia a un diario femminile, del quale il colore e il disegno sono il medium espressivo”. Il più rilevante elemento distintivo dell’arte di Berthe Morisot non sta tanto nella femminilità dei suoi modi, una femminilità certo presente, certo palpabile, certo inconfutabile: suo elemento distintivo è forse soprattutto quell’atteggiamento d’estrema libertà espressiva che la porta a elaborare una pittura ch’è anzitutto d’atmosfera (la mostra di Genova esplicita meglio questo aspetto). Lo aveva intuito del resto anche Valéry: “Tele fatte con nulla, un nulla moltiplicato dell’arte suprema della pennellata, un nulla di brume, di ombre di cigni, prodigi della setola che a malapena sfiora la superficie. Ed è tutto in questo sfioramento: l’ora, il luogo, la stagione, il sapere, l’immediatezza stessa, la grande dote di ridurre all’essenziale, di alleggerire la materia e spingere così l’impressione dell’atto spirituale al culmine”. Berthe Morisot, in altri termini, è forse l’artista più impalpabile ed eterea del gruppo, e non a caso era la più legata alla pittura del Settecento, quella che più l’aveva studiata e approfondita: il suo metodo è fondato su di una pennellata estremamente rapida, fluida, che sfiora appena la superficie della tela, anche laddove l’enfasi è sulla figura. Alla GAM lo si vede nella Donna col ventaglio e, fatto interessante, lo si vede anche nella Giovane donna tra i fiori del 1879, opera di Édouard Manet esposta a fianco dei dipinti di Berthe per dimostrare come gl’interessi dei due fossero comuni (a Genova un confronto simile è con Julie con l’annaffiatoio di Manet, del 1880), mentre a Palazzo Ducale sono dipinti particolarmente rivelatorî La spiaggia di Nizza del 1882, la Giovane donna in grigio distesa del 1879, e tutti i dipinti della sezione dedicata a Julie.
Questo atteggiamento matura ulteriormente verso la metà degli anni Ottanta, quando nella pittura di Morisot sembra affacciarsi un nuovo problema: comprendere fino a che punto un dipinto può essere essenziale senza perdere la sua qualità d’evocare l’atmosfera. Quanto un dipinto può essere immediato, quanto dettaglio si può risparmiare, in altre parole quanto si può essere audaci. Il pubblico di Genova faccia caso alla Fanciulla con cane e indugi su quello che sembra essere un West Highland Terrier in braccio alla bambina: il muso del cagnolino altro non è che un tondo di pennellate veloci assestate con rapidità e precisione noncurante, l’occhio e il naso del cane sono due macchie, l’orecchio pare quasi una sbrodolatura del pennello. A Torino quest’immediatezza si coglie soprattutto nella Bambina con bambola prestata dal Musée d’Ixelles, ma gli esempî non sono pochi. È forse lo sperimentalismo, più che il ventaglio delle sue scelte tematiche, invero piuttosto ristretto, a rendere interessante la pittura di Berthe Morisot, che dalla seconda metà degli anni Ottanta e fino alla sua scomparsa cercherà d’accentuare questa essenzialità ricorrendo anche al non finito, come si vede in alcuni dipinti presenti in entrambe le mostre. A Genova, il dipinto Sul melo, del 1890, arriva a un grado d’astrazione tale da portare Berthe Morisot a rinunciare ai connotati del volto d’entrambe le figure (particolarmente interessante quella in basso, vista frontalmente: il suo viso altro non è che un ovale neutro), o ancora il Sole calante sul lago del Bois de Boulogne dove alcune pennellate liquide date in verticale sono sufficienti a suggerire la forma dei tronchi d’albero, mentre l’imprimitura è lasciata a vista sul bordo inferiore della Barca illuminata del 1889, suo unico notturno, come c’informa la mostra, presente nella sezione dedicata ai soggiorni a Nizza, con interessante allestimento che riproduce le fotografie del porto della città della Costa Azzurra com’era a quel tempo. C’è poi un non finito del 1885, in cui la pittrice si ritrae assieme alla figlia Julie, lasciando a vista le linee della composizione: Berthe Morisot non smise mai di sperimentare anche col disegno, spesso consentendo che la composizione s’intravedesse anche sulla tela dipinta. Anche a Torino, dov’è più approfondito l’argomento della confidenza che Berthe Morisot aveva col disegno (a Genova, invece, c’è un focus sull’incisione, altro mezzo espressivo cui la pittrice giunse nella seconda parte della sua carriera) ci sono interessanti esempî della Morisot sperimentale degli ultimi anni: dal bel non finito de Il flagioletto alla meditata fluidità de Il ciliegio (il capolavoro che chiude il percorso espositivo), passando per il verde turbinoso della Ragazza con cane e per la totale identificazione di figura e paesaggio che si riscontra ne La ciotola del latte.
Berthe Morisot è un’artista che forse, se presentata al pubblico sotto la lente della ricerca costante che animò le sue intenzioni, difficilmente finisce per annoiare. E forse gioverebbe di più alla sua immagine, aiuterebbe a presentarla meglio come una vera “dissidente del gentil sesso”, come l’aveva chiamata Mallarmé, ma non tanto nel senso che intendeva il poeta, vale a dire di donna che “propone estetica in modo altro che con la propria persona”, quanto piuttosto nell’accezione d’artista che non s’accontenta di dipingere quello che all’epoca ci s’aspettava da una donna, ma al contrario spicca perché figura centrale nel movimento impressionista: la sua continua tensione a innovare e sperimentare è paragonabile forse soltanto a quella di Monet, la sua audacia forse era unica.
Quale delle due mostre visitare avendo la possibilità di sceglierne soltanto una? Dipende sostanzialmente da cosa si cerca. Quella di Palazzo Ducale, curata da Marianne Mathieu, è una riedizione della mostra Berthe Morisot à Nice. Escales impressionnistes che s’è tenuta quest’estate a Nizza, totalmente centrata sui due soggiorni dell’artista in Costa Azzurra: a Genova, l’impianto di quella mostra è stato rivisitato, mantenendo intatto il nucleo, ma aggiungendo alcune sale introduttive per presentare l’artista al pubblico genovese, e una coda sui dipinti di Julie Manet, figlia dell’artista, anche lei pittrice, peraltro protagonista d’una mostra che il Musée Marmottan Monet le dedicò tra il 2021 e il 2022. Una coda che, tuttavia, niente aggiunge al discorso su Berthe Morisot artista (anzi: la si anche può saltare senza troppi rimpianti). Così come alla GAM di Torino niente aggiungono i confronti, che paiono decisamente forzati, con alcuni artisti piemontesi dell’Ottocento. La mostra di Torino è organizzata per temi ed è curata da Maria Teresa Benedetti e Giulia Perin, che si sono avvalse d’un cospicuo numero di prestiti del Musée Marmottan Monet, integrati però al fine d’offrire al pubblico un percorso più completo, pur mancando d’alcuni passaggi (per esempio, non ci sono opere giovanili). C’è però una densità di opere importanti forse maggiore rispetto alla rassegna di Palazzo Ducale, e da valutare in positivo anche gli interventi di Stefano Arienti, che ha progettato parte degli allestimenti per rievocare le atmosfere della pittura di Berthe Morisot, oltre che dei luoghi da lei frequentati: una presenza, quella di Arienti, davvero molto interessante, dal momento che si percepiscono con limpida nitidezza lo studio, la cura, la passione con cui Arienti s’è avvicinato a Berthe Morisot e con cui ha cercato di restituire al pubblico la propria amorevole interpretazione. A Genova una mostra più lineare, e più lunga, organizzata con una base cronologica piuttosto definita sulla quale s’innestano approfondimenti molto verticali (c’è per esempio un focus molto divertente sul suo salotto-atelier, con tanto di ricostruzione, ispirato alla chiesa del Gesù di Nizza e alla sua luce, e con esposta anche la Venere da Boucher che Berthe appese al centro della sala), e che però verso il finale tende a perder forza. Tirando le somme. Chi vuole una mostra d’impianto più tradizionale e una panoramica più esaustiva, vada a Genova. Chi ha già qualche conoscenza di base e vuole camminare in mezzo alle atmosfere di Berthe Morisot, vada a Torino. Chi ne ha voglia, se le veda entrambe.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).