La lettera con cui l’ormai ex ministro Gennaro Sangiuliano ha rassegnato le proprie dimissioni è interessante, al di là dei refusi e dei riferimenti alla vicenda che lo ha condotto alla decisione di lasciare il Collegio Romano, soprattutto per le rivendicazioni che Sangiuliano squaderna in una mezza pagina nella quale offre ai cittadini un sunto del suo operato. È interessante, in altri termini, perché offre un’efficace sintesi di quelli che Sangiuliano percepisce come i suoi successi in poco meno di due anni da ministro della cultura. Cosa ha lasciato dunque Sangiuliano dopo questi due anni?
Si potrebbe partire proprio dai punti elencati nella sua lettera, seguendo l’ordine che lui stesso ha dato ai proprî risultati, che enumera con orgoglio, dichiarandosi “fiero” d’averli conseguiti. Il primo, scrive l’ex ministro, è l’“aver messo fine alla vergogna tutta italiana dei musei e dei siti culturali chiusi durante i periodi di ferie”. Non risulta che prima i musei chiudessero per periodi prolungati al sopraggiungere delle feste comandate, anzi: la prerogativa d’annunciare aperture straordinarie durante ponti e festività assortite lo ha piuttosto accomunato al suo predecessore Dario Franceschini. L’unica, vera novità è stata l’apertura di alcuni musei statali il giorno di Natale, il 25 dicembre, e in particolare il 25 dicembre del 2023: le porte, quel giorno, dovevano essere aperte sulla base d’un accordo coi sindacati, sebbene non tutti avessero aderito. E peraltro le aperture natalizie sono state un flop (non sarà un caso se quasi ovunque in Europa i musei chiudono il giorno di Natale, e se anche l’Italia fino allo scorso anno non apriva i musei il 25 dicembre), tanto che Sangiuliano, due giorni dopo, diramò i dati degli accessi sommando però ai numeri di Natale anche quelli di Santo Stefano, giornata che invece ha sempre tradizionalmente attirato molti visitatori nei musei. Se l’ex ministro invece allude alle aperture pasquali e ferragostane, nessuna novità: anche Franceschini ha spesso garantito aperture straordinarie nelle feste di primavera e d’estate.
Proseguendo nella sua lettera, l’ex ministro rivendica d’aver “incrementato in appena un anno il numero dei visitatori dei musei (più 22 per cento) e gli incassi degli stessi (più 33 per cento)”. Gli aumenti a doppia cifra sono reali, ma Sangiuliano ha dimenticato di specificare che il 2022 era ancora anno pandemico: fino al 1° aprile di due anni fa, qualcuno lo ricorderà, per accedere ai musei era obbligatorio esibire il green pass, e anche a partire da questa data non era venuto meno l’obbligo d’indossare una mascherina FFP2. Insomma, è piuttosto facile rivendicare aumenti vertiginosi se il confronto vien fatto con un anno in cui gran parte dei visitatori dei musei non andava a visitare i musei per timore di contrarre il Covid, o perché non s’era ancora riabituato a uscire dopo due anni di confinamenti più o meno prolungati: è come se il vincitore della medaglia d’oro dei 100 metri alle Olimpiadi si vantasse d’aver corso più veloce d’un suo collega paralimpico. Il confronto, semmai, va fatto con gli anni che hanno preceduto la pandemia, e si scopriranno aumenti di visitatori decisamente più contenuti rispetto a quelli sbandierati da Sangiuliano, oltre a un aumento degli incassi che riflette però un aumento dei prezzi generalizzato dei biglietti d’ingresso ai musei, che mai nella storia degl’istituti statali sono stati cari come nel 2023, con la media costo/visitatore più alta di sempre (sebbene si possa dire, per spezzare una lancia in favore d’un ministro spesso aduso a ribadire che sia giusto far pagare di più i biglietti dei musei, che gli aumenti non hanno provocato contrazioni del pubblico pagante, il che significa che non s’è ancora superata la soglia oltre la quale i visitatori non ritengono più conveniente visitare i musei, benché s’avverta sempre più la necessità d’adottare una politica di sconti adatta a favorire veramente la frequentazione abituale da parte degl’italiani, problema che però Sangiuliano non ha mai neppure sfiorato).
Ancora, Sangiuliano anticipa che “a dicembre a Milano aprirà Palazzo Citterio acquistato dal ministero nei primi anni Settanta e poi rimasto inutilizzato per decenni” (la riapertura è comunque frutto d’un percorso lungo diversi anni, sul quale poco può rivendicare l’ex ministro), ed esibisce come suoi successi il fatto che siano “ben avviati” progetti come l’ampliamento degli Uffizi (altro progetto in essere da anni), l’ex Albergo dei Poveri di Napoli (la trasformazione di questo sito in un polo culturale è un altro progetto partito quando ministro era Franceschini, e si tratta peraltro d’un progetto fortemente criticato), l’investimento sulla Biennale di Venezia (casomai se ne avvertisse il bisogno). Infine, Sangiuliano afferma che “per la prima volta in Italia sono state organizzate grandi mostre su autori e personaggi storici che la sinistra aveva ignorato per ragioni ideologiche”. L’ex ministro probabilmente allude a esposizioni come quella su Tolkien alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma: ebbene, mai s’era visto prima di Sangiuliano un ministro così fortemente interessato, per usare un eufemismo, all’agenda espositiva d’un museo statale, e così partecipe. Una mostra, peraltro, spacciata come un evento di successo da una lunga sequenza di comunicati che ostentavano numeri a cinque zeri: “30mila visitatori in un mese”, recitava la prima nota. Grazie: alla GNAM non c’è una biglietteria separata per mostre e musei, e i visitatori della mostra di Tolkien altri non erano che il totale dei visitatori entrati nel museo in quel periodo. Il calcolo, dunque, conteggiava qualunque visitatore della GNAM come visitatore della mostra di Tolkien, includendo nel novero anche tutti coloro che le sale della mostra di Tolkien non le hanno viste neppure in fotografia, perché magari sono andati al museo per vedere altro. Stessa situazione, per esempio, per la mostra sulle riviste del Novecento agli Uffizi (una buona mostra, a onor di cronaca), con spumeggianti note che sciorinavano numeri di visitatori a sei zeri: facile, se si calcola come visitatore della mostra anche il turista americano che saltava a piedi uniti l’intera mostra e correva nella sala del Botticelli per vedere la Venere e la Primavera.
Termina qui l’elenco delle rivendicazioni che il ministro ha presentato nella sua lettera di dimissioni. Tutto qua? Questa la domanda che ci si potrebbe porre leggendo la scarna missiva. Ovviamente no: l’ex titolare del Collegio Romano s’è distinto anche per molte altre azioni sulle quali ha sorvolato indirizzando le sue riflessioni al “Caro Presidente” e alla “cara Giorgia”. Sangiuliano potrebbe esser ricordato come il ministro dell’economia domestica applicata ai beni culturali, il suo mandato come il biennio in cui i musei statali son stati considerati secondo un’ottica riduttivamente economicistica, nel senso deteriore del termine: la principale preoccupazione di Sangiuliano, nell’ottica dell’obiettivo d’un improbabile autofinanziamento generalizzato degl’istituti, è stata quella di far fruttare i musei secondo modalità elementari, senza cioè adottare politiche flessibili, modulando l’offerta sulla base dei flussi o degl’interessi del pubblico, oppure cercando un più attivo e strutturato coinvolgimento dei privati, ma più banalmente attraverso la più semplice messa a reddito del patrimonio. Uno dei primi provvedimenti, in questo senso, è stato l’ormai famigerato decreto 161 (noto anche come “decreto Tarasco” dal nome del capo dell’ufficio legislativo del Ministero), che andava a regolare in maniera rigidissima la riproduzione delle immagini di beni culturali, prevedendo un macchinoso sistema di tariffe che andavano a colpire anche le categorie che fino a quel momento avevano avuto diritto alla gratuità: ne scaturì un acceso dibattito, che in parte si svolse anche sulle pagine di questa rivista, e che portò, dopo un anno di continue discussioni e di accese proteste, a una sostanziale modifica della disciplina. Se una buona parte degli addetti ai lavori ha potuto tornare a respirare sollevata, non è comunque venuta meno l’idea d’una concezione proprietaria del bene culturale pubblico che ha trovato larga affermazione durante il biennio Sangiuliano e che appare anche anacronistica osservando i più recenti orientamenti internazionali. S’è già detto, poi, degli aumenti generalizzati sui titoli d’accesso ai musei, e si potrebbe aggiungere in questo senso anche l’introduzione del biglietto a pagamento per visitare il Pantheon, l’azione forse più celebre del ministro Sangiuliano, anche se già se n’era parlato a lungo quando ministro era Franceschini. E rispetto al suo predecessore, Sangiuliano ha anche deciso di mantenere l’istituto delle domeniche gratuite, giudicando peraltro un “grande risultato” le folle che si riversano nei musei in queste occasioni (quand’è semmai l’esatto contrario: le masse in aumento nelle giornate di gratuità sono indice d’un problema). Non s’è inoltre arrestata la tendenza a far girare nel mondo i capolavori dei nostri musei, anzi: con Sangiuliano abbiamo assistito a un’intensa continuazione di queste spericolate politiche di prestiti, quasi sempre fatti passare sotto traccia, e che su queste pagine abbiano sempre criticato: si ricorderanno dunque l’insensato prestito di circa settanta gioielli del Museo di Capodimonte al Louvre, i tanti prestiti che con somma generosità son stati concessi negli ultimi mesi dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli (curioso il fatto che Napoli non sia mai stata così spoglia dei suoi capolavori come durante il governo d’un ministro napoletano), la spedizione della Scapigliata di Leonardo da Vinci allo Shanghai Museum, la presenza del Bacco di Caravaggio al Vinitaly e, da ultimo, il programmato invio dell’Atlante Farnese in qualità di testimonial del patrimonio culturale italiano all’Expo di Osaka 2025.
C’è qualcosa di positivo? Forse sì: la rimodulazione del bonus per i diciottenni, per esempio, oppure l’idea d’aumentare per un determinato periodo di un euro i biglietti di tutti i musei statali per raccogliere fondi da destinare alla Romagna alluvionata lo scorso anno. Probabilmente è invece presto per giudicare la cosiddetta “riforma Sangiuliano”, una ristrutturazione del ministero approvata da pochi mesi (basti pensare che i nuovi capi dipartimento sono stati nominati solo lo scorso luglio). Le premesse, tuttavia, non fanno ben sperare: la riforma dell’ex ministro è stata criticata soprattutto per aver sancito la definitiva separazione tra tutela e valorizzazione (che sono diventate due aree funzionali separate), per aver avviato una significativa proliferazione dei musei autonomi, aumentati a oltre sessanta, e per aver reintrodotto una struttura a dipartimenti sulla falsariga della riforma del 2005 (ministro, all’epoca, era Rocco Buttiglione: i dipartimenti vennero poi eliminati l’anno dopo). Dai dipartimenti dipenderanno le direzioni generali: il provvedimento è stato dunque criticato perché allungherà la catena di comando, rendendo più pesante la struttura ministeriale ed esponendola al rischio di sovrapposizioni di compiti e competenze, oppure, paradossalmente, al pericolo di annacquare settori importanti (la Direzione generale Educazione e Ricerca, per esempio, è stata abolita e le sue prerogative sono state distribuite tra i nuovi dipartimenti).
Due anni, dunque, sostanzialmente incolori, durante i quali l’azione del ministro non ha segnato grosse rotture col passato: Gennaro Sangiuliano si è rivelato, anzi, un ministro che ha continuato, seppur spesso in maniera peggiorativa (almeno ad avviso di chi scrive), l’operato di chi lo ha preceduto, senza distinguersi per un’azione strutturale propria, o per aver introdotto modelli e visioni che segneranno in maniera marcata gli anni a venire. È più probabile che, nell’immaginario non solo degl’italiani in generale, ma anche degli addetti ai lavori, la memoria di Sangiuliano rimarrà scolpita dalle sue numerose gaffe e dalla vicenda che lo ha fatto diventare il primo ministro del governo Meloni a rassegnare le proprie dimissioni.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).