S’è già parlato più volte, su queste pagine, dell’estrema disinvoltura con cui i due principali musei di Napoli, il MANN e Capodimonte, prestano i loro gioielli di famiglia, ormai a getto sempre più continuo. Riguardo al Museo Archeologico Nazionale, abbiamo già discusso del maxi-prestito di 160 reperti inviati in Giappone in cambio delle risorse per il restauro del mosaico della battaglia di Isso, e in seguito la nostra testata ha sollevato il caso, poi molto discusso, del prestito dei Corridori di Ercolano a Bottega Veneta per una sfilata di moda. Adesso, un altro blocco di reperti parte da Napoli, questa volta con destinazione Barcellona, per una mostra su Pompei. Il comunicato del museo è stato un poco avaro di dettagli, ma da quel che si sa pare che si tratti soprattutto di opere conservate nei depositi. Certo, questa volta si potrebbe chiudere un occhio per il fatto che partono per l’estero pezzi che solitamente il pubblico non vede, ma il museo ha più volte dimostrato d’esser di manica larga coi prestiti e di non aver grossi problemi a mandare spesso in giro i suoi pezzi migliori (valga su tutti l’esempio della Tazza Farnese, prestata addirittura a tre mostre nell’arco dell’ultimo anno, tutte occasioni in cui peraltro la sua presenza non era fondamentale), dunque è normale attendersi una soglia d’attenzione più alta del normale quando il MANN annuncia progetti simili.
Chi invece non ha scusanti è il Museo Nazionale di Capodimonte, che s’è dimostrato recidivo: dopo aver autorizzato nel 2020 un prestito assurdo di quaranta capolavori partiti alla volta degli USA (prima a Seattle e poi a Fort Worth, e complice il Covid la permanenza all’estero è durata pure più del dovuto), adesso l’istituto replica spedendo settanta opere al Louvre, tra cui quasi tutte le opere per le quali i più vanno a visitare il museo: la Crocifissione di Masaccio (che ormai viaggia più di un pacco di Amazon: era appena rientrata da un prestito per una mostra al Museo Diocesano di Milano e deve già ripartire), la Flagellazione di Caravaggio (anche lei tornata solo a febbraio da quattro mesi di mostra a Rouen in Francia: è vero che si tratta di un’opera di proprietà del Fondo Edifici di Culto, ma ormai tutti la associano al Museo di Capodimonte), la Danae di Tiziano (altra opera che rientrava dalla mostra sull’arte liberata alle Scuderie del Quirinale), l’Antea di Parmigianino, la Pietà di Annibale Carracci, l’Atalanta e Ippomene di Guido Reni, la Giuditta che decapita Oloferne di Artemisia Gentileschi. Parte alla volta di Parigi persino il Ritratto di Galeazzo Sanvitale del Parmigianino, tavola che il museo presta raramente: opera molto delicata, non era andata neppure alla grande mostra su Correggio e Parmigianino delle Scuderie del Quirinale del 2016 e alla monografica sul Parmigianino del 2003.
Inizialmente sembrava che il prestito di un nucleo così prezioso di opere fondamentali fosse un modo per far ottenere un poco d’attenzione al museo in occasione dei lavori di rinnovamento annunciati lo scorso anno (lo aveva anticipato lo stesso direttore Sylvain Bellenger), e che sembrava dovessero far chiudere le sale interessate dagli interventi. Poi, lo scorso gennaio, il museo ha fatto sapere che le sale non avrebbero chiuso. Bellenger sperava forse di fare un regalo ai napoletani, lasciando aperte le sale che si vociferava non sarebbero state visitabili: in realtà adesso non sussiste più neppure il minimo appiglio per un prestito così pesante al Louvre, dove i capolavori di Capodimonte saranno esposti per ben sei mesi di fila, dal 7 giugno all’8 gennaio 2024.
È un prestito privo di senso, per tante ragioni, soprattutto alla luce del fatto che Capodimonte non chiuderà durante i lavori. Si potrebbe cominciare dalle stesse affermazioni di Bellenger che, annunciando il partenariato con il Louvre, dichiarava con un certo orgoglio che è “la prima volta nella storia che un museo celebra un’altra galleria e non un singolo artista con una mostra”. Anche se fosse vero (giusto a dicembre un’operazione simile è stata organizzata a Buenos Aires dal Museo Archeologico Nazionale di Taranto, con la mostra Tesoros del Museo Arqueólogico Nacional de Taranto: e come titolava lo stesso comunicato ministeriale, si trattava di una rassegna sul museo), non si capisce perché, se proprio occorre allestire altrove una mostra su Capodimonte, tocca farlo portandoci tutto il meglio, lasciando praticamente vuote le sale a Napoli.
Forse Bellenger crede di valorizzare il suo museo prestando una sessantina di perle che, inevitabilmente, verranno soffocate dalle raccolte del Louvre (letteralmente: non avranno infatti una sezione dedicata, ma saranno annacquate in mezzo alle opere del Louvre, col pretesto del “dialogo”, presso diversi ambienti del museo, inclusa la Grande Galerie, quella che la più parte del pubblico percorre quasi di corsa ansiosa di vedere la Gioconda), ma in realtà sembra più che lo stia esponendo a una magra figura. Primo, perché sta impoverendo il suo museo rendendolo meno attraente: a chi verrà voglia, in questi sei mesi, di visitare il museo sapendo che mancherà gran parte delle opere per cui ci si reca a Capodimonte? E chi invece lo visiterà, che concetto avrà della gestione del museo quando apprenderà che il suo direttore ha spedito le opere più note al Louvre, tanto più che le sale non verranno chiuse? Ma anche se lo fossero state: che problemi c’erano a trovare a Napoli luoghi adatti ad accoglierle? È impensabile che la città manchi di spazi adeguati, anche perché era stato lo stesso museo a far sapere che, durante la chiusura (poi scongiurata), sarebbero state organizzate mostre anche in città. Secondo, perché sta assumendo una posizione subalterna nei rapporti di forza col museo francese: potremo ricrederci solo se il Louvre sarà altrettanto generoso e offrirà un numero identico di opere altrettanto fondamentali all’interno delle proprie collezioni e altrettanto attrattive nei riguardi del pubblico. Ma riesce difficile immaginarsi di vedere a Capodimonte, mettiamo, la Gioconda, la Morte della Vergine di Caravaggio, la Belle Jardinière di Raffaello, le Nozze di Cana del Veronese, le Stimmate di san Francesco di Giotto, tutte assieme in un’unica mandata.
Non si sa, infatti, quale sarà la contropartita: non sappiamo se Capodimonte ospiterà una mostra coi capolavori del Louvre (cosa che comunque avrebbe poco senso: quali ragioni scientifiche sosterrebbero un eventuale scambio tanto ingente di capolavori tra i due musei?), né sappiamo se il museo parigino in cambio abbia offerto delle risorse o altro tipo di conguaglio per ottenere in prestito una mole così impressionante di capolavori. E questa mancanza di trasparenza per un’operazione del genere è inaccettabile, almeno per un museo che voglia apparire serio. Per adesso, sappiamo soltanto, da un comunicato del Ministero della Cultura, che a margine del prestito sono in corso trattative per la restituzione di alcuni reperti archeologici trafugati ed esportati illegalmente dall’Italia all’estero e finiti nella collezione del Louvre. La mostra assumerebbe così i contorni di una mossa diplomatica (quale in effetti sembra essere, al di là dei proclami su “dialoghi”, “scoperte”, “condivisioni” e via dicendo): ma le proporzioni sono corrette?
Infine, Bellenger auspica, nelle dichiarazioni che accompagnano la mostra, di far “scoprire a un pubblico più vasto” il Museo Nazionale di Capodimonte. Il direttore, in questo senso, ha perfettamente ragione: un’operazione del genere serve a far conoscere nel mondo il museo, che seguita però a riscuotere cifre indecenti in relazione alla sua importanza: è vero che dal 2014 i visitatori, seguendo un trend che ha riguardato pressoché tutti i musei autonomi, hanno registrato aumenti a doppia cifra (dal 144mila del 2014 ai 252mila del 2019), ma si tratta di numeri eccezionalmente bassi per una collezione accostabile per rilevanza e densità di capolavori a quella degli Uffizi o a quella della Pinacoteca di Brera. Tuttavia, occorre domandarsi se dinnanzi a un obiettivo del genere vale la pena sguarnire il museo in maniera tanto smodata.
Non si discute, infatti, l’idea di far girare le opere di Capodimonte mentre parte del museo è impraticabile per lavori di risistemazione. Anzi, è auspicabile che il pubblico possa continuare a vedere le opere, che comunque sarebbero state movimentate: non si possono fare i lavori nelle sale con dentro le opere, dunque tanto vale esporle. Si discute semmai l’idea di mandare tutto assieme il blocco dei capolavori principali in un’unica destinazione, lontana dal territorio. L’esempio recente meglio paragonabile è quello del “trasloco” della Galleria Sabauda, che nel 2012 diede avvio ai lavori di trasferimento dal Palazzo dell’Accademia delle Scienze (storica sede che accoglieva la raccolta dal 1865) alla Manica Nuova di Palazzo Reale, dove si trova oggi. Si resero necessari due anni per completare i lavori, ma nessuno si sognò di inviare tutte le principali opere della Sabauda al Louvre di turno: da aprile 2012 a gennaio 2013 una grande mostra, I quadri del re, espose due selezioni della galleria a Palazzo Reale e alla Reggia di Venaria. Successivamente, venivano aperti al pubblico i depositi della soprintendenza a Moncalieri per consentire ai piemontesi di continuare a vedere le opere durante i lavori di spostamento. Lo stesso accadeva a settembre 2013 con il deposito della Galleria Sabauda. Infine, nel maggio del 2014, veniva organizzato il progetto espositivo La Sabauda in tour per le città: cinquanta opere tra quelle più note della Sabauda venivano esposte in diverse sedi a Torino (Palazzo di Città, Palazzo Reale, Armeria Reale, Palazzo Carignano e Villa della Regina) e nel Piemonte (Alba, Alessandria, Asti, Biella, Casale Monferrato, Cuneo, Domodossola, Ivrea, Novara, Saluzzo, Varallo, Verbania, Vercelli), in un palinsesto di diciotto mostre. Un vero e utile lavoro di valorizzazione fatto direttamente sul territorio, che potrebbe essere replicato anche a Napoli. Il problema è che per adesso Bellenger ha scelto la strada meno raffinata: quella del momentaneo trasloco in Francia del cuore della collezione.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).