Mentre il mondo dell’arte, la scorsa settimana, è stato impegnato ad accapigliarsi sulla campagna dedicata alla Venere, pochi hanno invece dato un’occhiata al decreto ministeriale dell’11 aprile, il numero 161, con cui il ministro Gennaro Sangiuliano ha varato le linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna ai luoghi della cultura statali. La ratio del decreto è quella di fare ordine in materia stabilendo canoni validi per tutti, sia per gli affitti delle sale, sia per le riproduzioni delle opere d’arte. Il decreto contiene tabelle con coefficienti che determinano il canone minimo da pagare in ogni situazione.
Per l’affitto degli spazi si va da tariffe tra i 100 e i 500 euro per sale fino a 50 metri quadri, alla fascia 900-3.200 euro per le sedi oltre i 1550 metri quadri, da moltiplicare per il coefficiente della “classe di pregio” della location, dove il pregio è determinato dall’alto numero di visitatori, dal fatto che si tratti di testimonianza unica o eccezionale di un’epoca o di un periodo, dall’importanza della committenza, dalla presenza di affreschi o collezioni permanenti, e via dicendo. Andrà poi fatta un’ulteriore moltiplicazione, con il coefficiente dell’uso (finalità istituzionali, non lucrative, lucrative). Quanto potrebbe costare dunque, mettiamo, una serata dedicata a una sfilata di moda nel Cortile d’Onore della Pinacoteca di Brera? Data la superficie di 2.000 metri quadri e assumendo un coefficiente di pregio massimo (5) data la centralità del luogo, ipotizzando la tariffa minima di 900 euro occorre moltiplicare per il coefficiente di pregio (5) e per il coefficiente di utilizzo (per una sfilata di moda è 15, da moltiplicare per i giorni dell’evento) e si ottiene un canone d’affitto di 67.500 euro. In più, chi affitta dovrà anche pagare le spese vive (luce, riscaldamento, personale e così via).
Una cifra alla portata di qualunque maison di alta moda che voglia organizzare una sfilata in un museo, ma secondo molti il problema maggiore si rileva nel capitolo dedicato alle riproduzioni di beni culturali. Le fotografie di opere d’arte, in poche parole. Il meccanismo è identico: le tariffe sono individuate in base al tipo di foto che vada chiesta a un museo o a una direzione (stampe fotografiche, fotocopie, scansioni, immagini digitali, diapositive), e vanno moltiplicate per il coefficiente d’uso e per il coefficiente di quantità. Una rivista di settore che stampa 5.000 copie e ha necessità di un’immagine digitale per un articolo, a colori e in alta risoluzione, spenderà 12 euro da moltiplicare per il coefficiente d’uso (in questo caso 1), quello di quantità delle riproduzioni (da 1 a 1000 pezzi il coefficiente è 2) e per la tiratura (in questo caso 5), e spenderà 120 euro per la foto.
Il problema rilevato da molti sta nel fatto che, contrariamente a quanto avveniva in passato, anche le riviste scientifiche dovranno pagare. Il decreto infatti non fa distinzione tra riviste scientifiche, riviste divulgative, quotidiani e quant’altro: tutti sono tenuti a pagare, a prescindere dall’attività che svolgono, se la rivista ha scopo di lucro. Le riproduzioni saranno libere e gratuite solo se svolte senza scopo di lucro, per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa e promozione della conoscenza del patrimonio culturale. La contraddizione che in tanti rilevano è che la ricerca e la promozione della conoscenza del patrimonio culturale hanno bisogno di finanziarsi, ragion per cui molte riviste scientifiche o di settore hanno un prezzo di copertina, senza considerare il fatto che comunque la promozione del patrimonio può tranquillamente coesistere con la libera iniziativa imprenditoriale.
Che fare dunque? Un primo appello al ministro arriva dalle Federazioni delle Consulte Universitarie di Archeologia, dalla Consulta Universitaria Nazionale per la Storia dell’Arte e dalla Sisca – Società Italiana di Storia della Critica d’Arte. Intanto, spiegano le sigle, non si capisce se il sistema di tariffazione si applica alle riproduzioni già disponibili all’utente, per esempio a seguito di download da siti specializzati o di ripresa con mezzo proprio: il decreto in tal senso non è chiaro. Ma l’aspetto più grave, secondo l’appello, sta nel fatto che “il decreto colpisce direttamente la ricerca perché generalizza l’applicazione di tariffe sulla pubblicazione di immagini di beni culturali in qualsiasi prodotto editoriale”.
“Con un salto indietro di oltre trent’anni”, prosegue il testo, “in un sol colpo viene calpestato il DM 8 aprile 1994, che aveva stabilito la gratuità per la pubblicazione in tutti i periodici e nelle monografie entro i 70 euro e 2000 copie di tiratura, e vengono azzerate le Linee guida per l’acquisizione, la circolazione e il riuso delle riproduzioni dei beni culturali in ambiente digitale, pubblicate la scorsa estate dalla Digital Library del Ministero della Cultura, pur affermando di tenerne conto”.
Il documento della Digital Library, a differenza di questo decreto, ritenuto unilaterale, era stato il frutto di oltre un anno di lavoro interno al ministero e di consultazioni pubbliche, proprio in occasione delle quali la Federazione delle consulte universitarie di archeologia, in una nota del 6 giugno 2022, aveva avuto modo di apprezzare la principale novità del documento della Digital Library, vale a dire la previsione di gratuità per la pubblicazione di immagini di beni culturali statali in qualunque prodotto editoriale, indipendentemente dalla tipologia, dalla tiratura o dal relativo prezzo di copertina. “Al danno che questo decreto rappresenta per i ricercatori”, continuano le sigle, “si aggiunge pertanto la beffa nei confronti di tutti coloro ai quali era stata annunciata, qualche mese prima, la gratuità per qualsiasi utilizzo editoriale.
In definitiva, secondo le consulte il problema è che la linea adottata dal ministero finirà “per ripercuotersi contro chi studia e valorizza il patrimonio culturale e contro lo stesso ministero il quale, moltiplicando controlli, balzelli e autorizzazioni, si trova - e si troverà sempre di più – a sopportare oneri ben maggiori degli introiti derivanti dai canoni di concessione”. Tutto questo mentre le associazioni di categoria da anni fanno ripetutamente appello ai principi della Convenzione di Faro per sottolineare l’esigenza di favorire le condizioni per la più ampia riutilizzabilità di dati e immagini del nostro patrimonio culturale, in una logica di Open Access che individua nel libero riuso uno strumento fondamentale per incentivare non solo la ricerca, ma anche l’editoria, l’imprenditoria culturale e creativa, il design e tutti quei settori del Made in Italy che il governo afferma di voler promuovere.
“Tassare ricerca e innovazione significa, inevitabilmente, introdurre inutili barriere e mortificare una moltitudine di iniziative che il ministero dovrebbe - all’opposto - incoraggiare attivamente mettendo chiunque nelle condizioni di poter riutilizzare, allo stesso modo, le immagini di beni culturali che gli appartengono”, concludono le sigle. La richiesta che proviene dal basso è quindi il ritiro del decreto e la riformulazione del tariffario in coerenza con quanto già espresso nel Piano Nazionale Digitalizzazione e con la più volte richiesta adozione generalizzata di licenze Open Access da parte di musei, archivi e biblioteche. Le sigle chiedono inoltre un urgente incontro per discutere di questa e varie altre questioni relative alla libertà della ricerca sul patrimonio culturale.
Nella foto: il Collegio Romano, sede del Ministero della Cultura. Foto: Finestre sull’Arte
Il decreto Sangiuliano sui canoni di riproduzione delle foto ai beni culturali (che fa discutere) |