Nel 1472, a Firenze c’erano più intagliatori di legno che macellai. Lo sappiamo dalla Cronaca di Benedetto Dei, nella quale sono elencate, per quell’anno, 84 botteghe di “legnaiuoli di tarsie e ‘ntagliatori”, contro 70 beccai (i macellai, appunto), 66 botteghe di speziali, e poi ancora 270 lanifici, 83 setifici, 54 botteghe di scultori e intagliatori di pietre, e soltanto 8 mercanti di pollame e cacciagione, su di una popolazione di 70mila abitanti. I pittori erano invece una quarantina, ma il numero potrebbe essere più alto, dal momento che non avevano una loro corporazione e non erano dunque registrati in via ufficiale. Sono numeri che trasmettono l’immagine di una città che vive per l’arte, dove si respira arte ovunque, dove l’arte è una pratica sociale di primissimo livello, dove riveste un’importanza che si può considerare pari a quella della politica, dell’economia, dell’apparato militare. È sufficiente una passeggiata nelle strade del centro storico del capoluogo toscano per rendersi conto di come i grandi mecenati del Quattrocento abbiano modellato l’immagine della città. Questo vale sia per il mecenatismo pubblico (un esempio è quello della chiesa di Orsanmichele, decorata con l’apporto delle Arti, ovvero le corporazioni professionali), sia per quello ecclesiastico, sia per quello privato, che rappresenta peraltro un caso a sé: verso la metà del Quattrocento erano infatti poche le città italiane che avevano un assetto di tipo repubblicano (malgrado, a partire dal 1434, Firenze fosse soggetta alla criptosignoria dei Medici). In molte altre città, come Ferrara, Milano o Mantova, le commissioni artistiche erano soprattutto appannaggio delle rispettive corti. Non mancava ovviamente l’iniziativa privata, ma nelle città dov’era presenta una corte la ricchezza e lo splendore dei privati non riuscirono a equiparare quello delle famiglie fiorentine (l’unica altra città paragonabile a Firenze nell’Italia del tempo è Venezia).
Il mecenatismo privato fiorentino del Quattrocento era dunque strettamente legato, oltre che alla prosperità economica di cui Firenze godeva e ad altre situazioni (per esempio il tasso di alfabetizzazione, che non aveva pari in Europa: i ricchi fiorentini del tempo investivano nelle scuole perché l’istruzione era ritenuta la base fondamentale per acquisire le abilità utili negli affari), anche alla vita politica della città: il sistema repubblicano e relativamente democratico di Firenze, dove vigeva libertà politica, impedì (al contrario di quello che accadeva nelle città governate da una corte) che si sviluppassero politiche culturali accentrate, col risultato che le famiglie più facoltose e potenti della città poterono utilizzare le arti come mezzo di affermazione del proprio prestigio. Si pone dunque una situazione in cui, accanto alle importanti commesse pubbliche ed ecclesiastiche (andrà ricordato che l’impresa che più catalizzò le attenzioni dei contemporanei fu l’edificazione della cupola di Santa Maria del Fiore, il capolavoro di Filippo Brunelleschi) o miste (per esempio le porte del Battistero eseguite da Lorenzo Ghiberti: la gestione del Battistero era affidata all’Arte di Calimala, ovvero la corporazione dei mercanti di tessuti), i privati assumono un’importanza sempre più rilevante. Il mecenatismo fiorentino può inoltre svilupparsi in virtù di un pensiero religioso che non condanna più la ricchezza (l’accento, semmai, si sposta sul duro lavoro e sui sacrifici necessari a costruire la propria fortuna, e sulla virtù che occorre esercitare per mantenere i propri soldi e spenderli bene) e, viceversa, in presenza di un pensiero umanistico, incarnato da figure come quelle di Leonardo Bruni e Leon Battista Alberti, che legano l’immagine della persona all’esercizio di concetti come l’onore e la virtù, che sebbene mutevoli e spesso sfuggenti dal momento che cambiarono spesso forma anche nel corso del XV secolo, sono oggetto di costante dibattito nella Firenze del tempo. Leonardo Bruni, per esempio, considera il possesso di “beni esterni” come prova dell’esercizio della virtù, anche se, pure per lo stesso Bruni, non sempre l’assioma è provato (“Vediamo che gli uomini si procacciano o conservano le virtù non con i beni esterni, ma i beni esterni con le virtù, e la stessa felicità della vita – sia che consista nel godimento o nella virtù o in ambedue – appartiene più a coloro che sono forniti in sommo grado di carattere e di intelletto, ma possiedono più di quanto ci sia bisogno, ma mancano di carattere e intelligenza”). Investire in un palazzo sontuoso o in opere d’arte diventa dunque non soltanto un modo per ostentare il proprio status sociale, ma anche per sottolineare la propria virtù.
All’investimento nel privato si aggiunge poi l’investimento nelle imprese pubbliche, soprattutto nella costruzione di chiese, cappelle, altari. “Il motivo principale del proliferare di cappelle e altari nelle chiese fiorentine”, ha ben spiegato la studiosa Mary Hollingsworth, “fu l’urgente bisogno di espiare i peccati soprattutto per l’acquisizione di ricchezze materiali. Come le donazioni di beneficenza e le tasse, il mecenatismo delle arti nella Firenze dell’inizio del XV secolo era principalmente un obbligo imposto ai ricchi. Non era il prodotto di un’esigenza estetica ben sviluppata. Ma se il mecenatismo privato era vincolato da un diverso insieme di codici morali alle attività corporative delle corporazioni, il mecenatismo istituzionale non portava con sé lo stigma della vanagloria legato all’esibizione privata”. E con un sistema politico “progettato per evitare il dominio da parte degli individui”, la Firenze repubblicana risulta essere anche “diffidente nei confronti delle sfacciate manifestazioni di ricchezza personale”. Firenze dunque non conosce eccessi: è comunque presente un sistema legale che controlla le stravaganze, sia quelle del comportamento sia quelle del vestire, ed è questo un altro dei motivi per cui ancor oggi il centro storico della città appare così equilibrato.
È questo, in sostanza, il contesto in cui le più importanti famiglie fiorentine costruiscono l’immagine della città, sia in pubblico, sia nel privato. È sicuramente arduo provare a fornire esempi completi di questo contesto, dal momento che Firenze ancora oggi è piena di attestazioni di quella irripetibile stagione, e dal momento che ovunque, per le strade, dentro i palazzi e nelle chiese ci sono i segni di questo fenomeno sociale che ha marcato la Firenze del XV secolo. Per illustrare alcuni esempi si potrebbe seguire un criterio per famiglia, cercando dunque le tracce di ciò che i casati con più disponibilità hanno lasciato in giro per la città, oppure per tipo: è quest’ultimo il criterio che seguiremo in questa sede, senza ovviamente pensare di fornire una panoramica esauriente, e cercando di individuare come il mecenatismo privato fiorentino del Quattrocento si sia espresso essenzialmente lungo tre direttive, ovvero la costruzione di palazzi privati, la costruzione di cappelle e altari o anche la decorazione di edifici ecclesiastici, e infine la commissione di opere d’arte ai principali artisti del tempo.
Quando si pensa ai palazzi della Firenze del Quattrocento, la mente corre immediatamente ai due architetti più illustri, ovvero Leon Battista Alberti (Genova, 1404 – Roma, 1472) e Michelozzo (Firenze, 1396 – 1472), ai quali spetta la progettazione dei due palazzi più esemplificativi delle rispettive idee artistiche, ovvero Palazzo Rucellai, edificato tra il 1450 e il 1460 su commissione di Giovanni Rucellai (Firenze, 1403 – 1481), importante mercante di lana che commerciava in tutta Europa, e Palazzo Medici Riccardi, che all’epoca era più semplicemente la dimora dei Medici (il marchese Gabriele Riccardi lo acquistò nel 1659: da allora è noto anche col nome dell’altra grande famiglia a cui è legata la storia dell’edificio), e che venne commissionato a Michelozzo da Cosimo il Vecchio (Firenze, 1389 – 1464), banchiere, e primo signore de facto della città (non conosciamo la datazione precisa del Palazzo, costruito comunque tra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta del Quattrocento). Leon Battista Alberti, rispetto a Michelozzo, aveva una più profonda passione per l’antico, ragion per cui il suo Palazzo Rucellai ci appare così geometricamente ordinato, con regolari divisioni di piani sia in orizzontale che in verticale, con un aspetto teso a dimostrare che un ordine classico poteva essere tranquillamente adatto non soltanto per un tempio cristiano, ma anche per una dimora privata. Michelozzo, al contrario, cercò una sorta di compromesso tra elementi innovativi ed elementi tradizionali, col pianterreno caratterizzato da un pesante bugnato, le bifore gotiche a regolare invece il primo piano (Alberti le aveva invece abolite), ma con un cortile interno impostato su di un più leggero e classicheggiante loggiato.
Dalle idee di Alberti e Michelozzo derivarono le altre dimore dell’aristocrazia fiorentina che ancor oggi si visitano e che spesso sono diventate sedi di musei. I palazzi rivestivano un ruolo fondamentale perché erano il segno più evidente dello status raggiunto da una famiglia: per questo erano strutture imponenti, solitamente a tre piani e con un cortile interno, con elementi che potevano richiamare visivamente il Palazzo della Signoria, a sottolineare l’appartenenza del proprietario alla classe dirigente della città. Il più noto è sicuramente Palazzo Strozzi, progettato da Giuliano da Sangallo (Firenze, 1445 – 1516) o da Benedetto da Maiano (Maiano, 1442 – Firenze, 1497): entrambi infatti fornirono un modello al committente Filippo Strozzi (Firenze, 1428 – 1491), banchiere. Il palazzo è esemplato sulle forme di Palazzo Medici Riccardi, anche se più grande rispetto a quest’ultimo. Accanto a Palazzo Strozzi si può collocare Palazzo Pitti, sebbene abbia subito importanti trasformazioni tra il Cinque e il Seicento: il corpo centrale della facciata conserva però ancora in parte l’aspetto quattrocentesco, una costruzione imperiosa e solenne che richiama la classicità romana ma in maniera sicuramente meno delicata rispetto a Palazzo Rucellai. A commissionare il palazzo fu Luca Pitti (Firenze, 1395 – 1473), banchiere e rivale dei Medici, anche se non si sa bene chi fu l’architetto: forse il progetto iniziale si deve a Filippo Brunelleschi, ma ad ogni modo l’architetto ufficiale fu Luca Fancelli (Settignano, 1430 circa – Firenze, 1495). D’ispirazione michelozziana è poi Palazzo Antinori, progettato forse da Giuliano da Maiano (Maiano, 1432 circa – Napoli, 1490) per Giovanni di Bono Boni, anch’egli banchiere, ma venduto già nel 1475 ai Martelli (passò invece agli Antinori nel 1506, mantenendo tuttavia, almeno all’esterno, l’aspetto originario). Ed è di Giuliano da Maiano anche Palazzo Pazzi, noto anche come il “Palazzo della Congiura”, poiché qui risiedevano i membri della famiglia Pazzi responsabili della congiura contro i Medici del 1478. Merita infine un cenno anche Palazzo Gondi, un altro dei meglio conservati palazzi quattrocenteschi di Firenze, che riprende l’idea michelozziana del bugnato che digrada in profondità decrescente verso l’alto per sottolineare i piani: è opera di Giuliano da Sangallo (Giuliano Giamberti; Firenze, 1445 – 1516) e fu realizzato tra il 1490 e il 1498 per Giuliano di Leonardo Gondi (Firenze, 1421 – 1501), imprenditore a capo di un’importante azienda (un’azienda leader, diremmo oggi) attiva nella produzione e nel commercio dei tessuti di seta.
Gran parte delle risorse dei mecenati, come anticipato, veniva investita nelle opere religiose. Si riteneva infatti che finanziare la costruzione di cappelle, oppure farle decorare, fosse una penitenza corretta per espiare il peccato di usura, ovvero il prestito di denaro a interesse, che la Chiesa non ammetteva, ma che era necessario a finanziare le attività di molti imprenditori del tempo. Tra i primi esempi in questo senso figura la Cappella Brancacci, che fin dalla fine del Trecento detenevano il giuspatronato della cappella che si trova alla testata del transetto della chiesa di Santa Maria del Carmine. Fu il mercante di seta Felice Brancacci (Firenze, 1382 – 1449 circa) a commissionare a Masolino da Panicale (Panicale, 1383 – Firenze, 1447), che chiamò poi ad aiutarlo il più giovane Masaccio (San Giovanni Valdarno, 1401 – Roma, 1428), le Storie di san Pietro considerate oggi un capolavoro del Rinascimento. Sempre Masaccio realizzò, tra il 1426 e il 1428, il noto affresco con la Trinità in Santa Maria Novella, dove vediamo raffigurati i due committenti, marito e moglie, anche se non conosciamo la loro identità (si tratta probabilmente di un membro della famiglia Berti e della sua consorte, oppure del mercante di tessuti Domenico Lenzi, la cui sepoltura è attestata in Santa Maria Novella). Poteva poi accadere che una famiglia si garantisse la cappella maggiore di una chiesa anche importante: è proprio il caso di Santa Maria Novella, dove erano i Tornabuoni a detenere il patronato della cappella maggiore. Così, nel 1485, Giovanni Tornabuoni (Firenze, 1428 – 1497), banchiere, uno degli uomini più legati ai Medici, commissionò a Domenico del Ghirlandaio (Firenze, 1448 – 1494) la decorazione di tutta la cappella con le Storie della Vergine e le Storie di san Giovanni Battista, senza dimenticare di farsi effigiare in posizione preminente. Il Ghirlandaio fu impiegato anche nella decorazione della Cappella Sassetti nella vicina chiesa di Santa Trinita, tra il 1482 e il 1485, impresa che contribuì a far crescere la fama dell’artista. Committente, in questo caso, era Francesco Sassetti (Firenze, 1421 – 1490), altro banchiere e anch’egli figura di riferimento dei Medici, tanto da farsi ritrarre dal Ghirlandaio, in uno degli episodi delle Storie di san Francesco affrescate nella cappella, assieme a Lorenzo il Magnifico. I ritratti (particolarmente pregevoli quelli del Ghirlandaio, che era uno dei migliori ritrattisti del suo tempo) indicano un aspetto fondamentale per la cultura fiorentina del tempo: il vero creatore della cappella era considerato il committente più che l’artista, anche perché erano le scelte del mecenate a orientare i contenuti e lo stile delle decorazioni e non viceversa, ovviamente. Di conseguenza, merito delle opere rivoluzionarie che oggi consideriamo capisaldi della storia dell’arte va anche ai committenti aggiornati che sono stati in grado di individuare e riconoscere gli artisti più innovativi del loro tempo.
Se la Cappella Brancacci, la Cappella Sassetti e la Cappella Tornabuoni rappresentano le più importanti imprese decorative, a livello costruttivo spiccano invece la Sagrestia Vecchia della basilica di San Lorenzo e la Cappella Pazzi, che si trova a fianco della basilica di Santa Croce. La Sagrestia Vecchia è uno dei capolavori di Filippo Brunelleschi (Firenze, 1377 – 1446), e fu realizzata tra il 1419 e il 1428 su progetto di Giovanni di Bicci de’ Medici (Firenze, 1360 – 1429), banchiere, che commissionò al grande architetto una cappella che potesse rivaleggiare con la Cappella Strozzi che uno dei principali rivali dei Medici, il banchiere Palla Strozzi (Firenze, 1372 – Padova, 1462), aveva fatto costruire nella chiesa di Santa Trinita, tra il 1419 e il 1423, affidando l’incarico a Lorenzo Ghiberti. La Sagrestia Vecchia assunse l’aspetto di un antico sacello, costituita da un grande vano cubico sormontato da una cupola a ombrello e aperto su di un secondo vano di dimensioni più ridotte (la “scarsella”, una sorta di piccola abside), e impostata su attenti ed equilibrati ritmi geometrici. Simile alla Sagrestia Vecchia è la Cappella Pazzi, altro progetto di Brunelleschi: venne commissionata con tutta probabilità a Brunelleschi nel 1429 dal banchiere Andrea Pazzi (Firenze, 1372 – 1445), anche se i lavori si protrassero molto a lungo. I moduli richiamano quelli della Sagrestia Vecchia, anche se in questo caso siamo in presenza di un edificio separato dal corpo della basilica: spiccano qui in particolare le leggiadre decorazioni in terracotta invetriata di Luca della Robbia, che coprono anche la superficie della cupoletta del portico che immette nella cappella.
Si potrebbe concludere con una breve panoramica sulle principali opere d’arte frutto di una committenza mecenatesca. Il panorama è estremamente vasto, anche perché le famiglie commissionavano le opere ai loro artisti preferiti per le ragioni più varie. Il caso forse più tipico è quello della pala d’altare per decorare una cappella: uno degli esempi più illustri è l’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano (Fabriano, 1370 – Roma, 1427) che Palla Strozzi commissionò nel 1423 all’artista marchigiano per la summenzionata Cappella Strozzi in Santa Trinita: un’opera passata alla storia anche perché tra le più costose del suo tempo, dato che il ricco banchiere pagò l’artista ben 150 fiorini d’oro. Per dare un’idea, basterà pensare che quando Brunelleschi dirigeva i lavori della cupola di Santa Maria del Fiore, riceveva uno stipendio di 100 fiorini d’oro all’anno dall’Opera di Santa Maria del Fiore, mentre Lorenzo Ghiberti, che sovrintese ai lavori assieme a Brunelleschi dal 1420, anno della nomina di entrambi, fino al 1425, di fiorini ne riceveva tre al mese. In sostanza, l’opera costò a Palla Strozzi l’equivalente di un anno e mezzo di stipendio del più grande architetto del tempo. Molto significativa è un’altra opera destinata a una chiesa, quella di Sant’Egidio: si tratta del Trittico Portinari, capolavoro di Hugo van der Goes (Gand, 1440 circa – Auderghem, 1482) che il committente, il banchiere Tommaso Portinari (Firenze, 1424 – 1501), direttore della filiale di Bruges del Banco mediceo (ovvero la banca dei Medici), aveva fatto realizzare al pittore fiammingo con l’idea precisa di portare l’opera a Firenze (dove veniva effettivamente sistemata, nella primavera del 1483, all’interno della chiesa che doveva accoglierla: oggi invece si trova agli Uffizi). L’opera è di grande interesse anche per la storia della cultura del tempo, perché dimostra il gusto raffinato, aggiornato e aperto del suo committente, uno dei pochi fiorentini che, per un’opera a destinazione pubblica, preferirono rivolgersi a un artista non toscano e addirittura non italiano.
Altre volte, le opere erano destinate a decorare una dimora privata, e i soggetti potevano essere i più disparati. Rimanendo a Firenze, è possibile vedere agli Uffizi uno dei pannelli della Battaglia di San Romano di Paolo Uccello (Paolo di Dono; Pratovecchio, 1397 – Firenze, 1475), verosimilmente commissionati da Lionardo di Bartolomeo Bartolini Salimbeni, mercante di lana, per la decorazione della “Camera grande” del palazzo di famiglia situato vicino a Santa Trinita. E poiché Leonardo Bartolini Salimbeni prestò servizio militare nelle campagne di Firenze contro Milano e Siena, è possibile che abbia voluto celebrare l’evento con un ciclo di tre opere che rievocassero uno degli scontri, la battaglia combattuta a San Romano il 2 giugno 1432 tra fiorentini e senesi, ai quali dovette aver partecipato. Un’opera, dunque, dal chiaro intento celebrativo. Le opere d’arte destinate a uso privato potevano poi assumere anche scopi marcatamente educativi: è il caso della Primavera e della Venere di Sandro Botticelli (Alessandro Filipepi; Firenze, 1445 – 1510), di committenza medicea. Con tutta probabilità, le immagini neoplatoniche del grande pittore fiorentino erano state pensate per ispirare l’esercizio della virtù a Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, detto il Popolano (Firenze, 1463 – 1503), cugino del Magnifico, esponente di un ramo cadetto della famiglia).
Ci sono poi casi particolari come il David del Verrocchio (Firenze, 1435 – Venezia, 1488), che fu commissionato al grande scultore da Lorenzo il Magnifico (Firenze, 1449 – 1492) e suo fratello Giuliano de’ Medici (Firenze, 1453 – 1478), che poi, nel 1476, al prezzo di 150 fiorini, vendettero il bronzo all’amministrazione della Repubblica fiorentina in vista di una collocazione dell’opera all’ingresso della Sala dei Gigli in Palazzo Vecchio: l’eroe biblico Davide era infatti visto come simbolo di libertà politica. Non mancano, anche se si tratta di casi non così frequenti, i busti-ritratti: il più famoso è sicuramente quello che ritrae Piero di Cosimo de’ Medici (Firenze, 1416 – 1469), figlio di Cosimo il Vecchio e padre di Lorenzo il Magnifico, realizzato da Mino da Fiesole (Poppi, 1429 – Firenze, 1484) tra il 1453 e il 1454. Si tratta anche del primo busto-ritratto del Rinascimento noto deliberatamente ispirato ai busti della classicità romana. Il revival della classicità aveva peraltro condotto diversi committenti a commissionare agli artisti opere che richiamano l’antico in maniera diretta, per esempio ritratti degli eroi dell’antichità che abbellivano le loro dimore private: è il caso, per esempio, della Olimpia di Desiderio da Settignano (Settignano, 1430 circa – Firenze, 1464), uno dei migliori profili eroici del Rinascimento, oggi conservato in Spagna (non conosciamo il committente). E sempre dai toni celebrativi è il famoso ciclo degli Uomini illustri di Andrea del Castagno (Castagno d’Andrea, 1421 – Firenze, 1457), che decoravano la Villa Carducci di Legnaia: vi si trovano anche le effigi dei tre grandi poeti moderni (Dante, Petrarca e Boccaccio).
Ancora, le opere potevano essere commissionate anche per celebrare una ricorrenza o una festa: l’esempio più noto è forse la serie dei quattro pannelli con le Storie di Nastagio degli Onesti che Sandro Botticelli dipinse probabilmente per Lorenzo il Magnifico, che richiese le opere per farne dono a Giannozzo Pucci in occasione del suo matrimonio con Lucrezia Bini. Gran parte di quelle opere si trovano oggi conservate nei musei, ma c’è ancora qualcosa rimasto invece, nonostante siano passati secoli, nella disponibilità dei discendenti dei committenti, o dei destinatari: proprio uno dei pannelli delle Storie di Nastagio degli Onesti si trova ancor oggi in quello che fu il palazzo della famiglia del destinatario, Palazzo Pucci a Firenze (anche se per qualche tempo se ne allontanò). La stragrande maggioranza delle opere ha però cambiato significato: da espressioni di un potere economico, finanziario e politico sono oggi diventate testimoni della storia che le ha prodotte.
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