Sulla parete della terza arcata della navata di sinistra della basilica domenicana di Santa Maria Novella a Firenze, si trova un affresco che viene considerato il manifesto programmatico della nuova pittura rinascimentale. Si tratta della Trinità, ultima opera realizzata da Masaccio (Tommaso di Mone Cassai; Castel San Giovanni, 1401 – Roma, 1428) nella sua breve ma decisamente intensa attività di pittore, interrotta dalla sua prematura scomparsa avvenuta a Roma all’età di soli 26 anni. Secondo quanto riportato nelle Vite di Vasari, Filippo Brunelleschi alla notizia della sua morte si sarebbe espresso così: «Noi abbiamo fatto in Masaccio una grandissima perdita», a testimonianza dell’importanza che gli veniva già riconosciuta nell’ambiente fiorentino a lui contemporaneo. Brunelleschi e Donatello furono gli artisti di riferimento per il giovane Masaccio. In particolare, nell’opera per Santa Maria Novella il modello di riferimento è proprio Brunelleschi: è manifesta, infatti, la centralità che la rappresentazione dello spazio modellata secondo le leggi della prospettiva brunelleschiana assume in questo dipinto, tanto che alcuni studiosi hanno ipotizzato un suo coinvolgimento diretto nella realizzazione di quest’opera.
Masaccio arrivò a Firenze dal suo luogo d’origine, l’attuale San Giovanni Valdarno, entro il 1420. In quel momento il gusto pittorico predominante a Firenze era ancora legato al mondo tardogotico con Lorenzo Monaco, documentato fino al 1422, che riceveva le commissioni più importanti in città. Proprio nel 1420 arrivò nella città toscana quello che era considerato il più prestigioso pittore italiano dell’epoca, Gentile da Fabriano, che entro il 1423 realizzò un capolavoro come la tavola dell’Adorazione dei Magi commissionata dal ricco banchiere Palla Strozzi. Masaccio intraprese una direzione totalmente diversa, facendo approdare in pochi anni la pittura a nuovi e rivoluzionari esiti e contribuendo, insieme a Donatello e Brunelleschi, a gettare solide basi dell’arte rinascimentale.
L’affresco in Santa Maria Novella è di grande importanza non soltanto dal punto di vista stilistico e figurativo, ma anche da quello teologico. A Masaccio viene infatti chiesto di raffigurare il dogma della Trinità, istituito durante il concilio di Nicea del 325, in cui si afferma che Padre, Figlio e Spirito Santo siano un’unica realtà. È plausibile che per la progettazione di un dipinto con un’iconografia così complessa e così cara all’ordine domenicano sia stato coinvolto un teologo, forse interno al convento stesso, ma non si conosce documentazione a riguardo. Uno dei nomi che sono stati proposti è quello di fra’ Alessio Strozzi, che Masaccio avrebbe potuto conoscere tramite Brunelleschi.
Si trovano riferimenti a quest’opera già nelle fonti prevasariane e poi in Vasari stesso, che la elogia sia per la composizione delle figure, ma soprattutto per la prospettiva architettonica illusionistica: «Quello che vi è bellissimo, oltre alle figure, è una volta a mezza botte tirata in prospettiva, e spartita in quadri pieni di rosoni che diminuiscono e scortano così bene che pare che sia bucato quel muro». Nel 1570 Giorgio Vasari, chiamato ad apportare alcune modifiche nella chiesa domenica in seguito alla Controriforma, realizzò una tavola per il nuovo altare in pietra dedicato alla Madonna del Rosario, patrocinato da Camilla Capponi, che andò a nascondere completamente l’opera di Masaccio. L’affresco rimase così celato per secoli e venne riscoperto solo nel 1861. Venne dunque staccato con un intervento ad opera del restauratore Gaetano Bianchi e trasferito nella parete di controfacciata della basilica.
Nel 1951, sotto la direzione di Ugo Procacci, venne rinvenuta, nella posizione originaria, la parte inferiore dell’affresco, raffigurante la Morte. In quell’occasione si comprese che Masaccio realizzò la Trinità sulla superficie di due precedenti affreschi, tamponando parte di una finestra soprastante. Soltanto nel 1952, in seguito al ritrovamento della Morte, l’affresco è stato ricollocato nella parete su cui era stato realizzato dal pittore. Il restauratore Leonetto Tintori riuscì ad individuare le giornate di esecuzione, ventisette, e a verificare quanto sia rimasto di originale nell’affresco: in seguito alla scoperta ottocentesca, infatti, erano state effettuate alcune ridipinture. Dallo studio delle giornate emerge come il pittore abbia posto particolare attenzione ai dettagli architettonici, a testimonianza di quanto questo fosse per lui un aspetto di assoluto rilievo.
L’intera scena viene immaginata e rappresentata all’interno di una cappella, concepita secondo i modelli architettonici proposti da Brunelleschi, che recupera elementi dell’architettura classica, in particolare quella romana. L’ingresso di questa cappella è decorato con lesene scanalate terminanti in un capitello corinzio, davanti alle quali si trovano due personaggi inginocchiati, in cui si possono individuare i committenti. Un arco a tutto sesto sostenuto da colonne con capitelli ionici introduce allo spazio vero e proprio della cappella, sormontata da una splendida volta a botte decorata a cassettoni colorati in blu e rosso. Rispetto alla reale architettura brunelleschiana, Masaccio evidenzia con l’uso del colore rosso alcuni elementi architettonici, come ad esempio l’arco e l’architrave, che spesso in Brunelleschi sono realizzati in pietra serena che viene lasciata a vista. L’intera composizione è disegnata usando la prospettiva lineare centrale, sistema attraverso cui è possibile raffigurare la tridimensionalità su un piano bidimensionale. La paternità concettuale della prospettiva lineare spetta proprio al genio di Brunelleschi, che individuò un metodo scientifico per dominare razionalmente la realtà circostante. L’intero dipinto è progettato rispetto alla visione dell’osservatore, che risulta allineata con il piano su cui sono dipinti i committenti. Seguendo le linee di questa costruzione prospettica, è possibile ricostruire la sezione di questa cappella e poterne comprendere in modo più chiaro i diversi livelli di profondità che Masaccio immagina per questo spazio. Inoltre, osservando la disposizione dei personaggi, in particolare delle loro teste, ci si accorge che essi si dispongono lungo il perimetro di un immaginario triangolo, che considerando l’iconografia proposta, ne rafforza il significato attraverso la presenza simbolica del numero tre. È possibile tracciare un altro ipotetico triangolo che ha come vertici i volti di Cristo e dei committenti. Con un’osservazione ravvicinata, si può ancora individuare le linee incise sulla superficie utilizzate per la costruzione prospettica.
L’affresco della Trinità ha uno sviluppo verticale e si possono individuare tre livelli. Nella zona inferiore, deposto su un sarcofago che emerge da una nicchia, si trova uno scheletro, raffigurazione della Morte, accompagnato da una scritta che recita “IO FU’ GIÀ QUEL CHE VOI SETE, E QUEL CH’I’ SON VOI ANCO SARETE”. È un memento mori, un ammonimento nei confronti dell’uomo sulla caducità della vita terrena. Nel livello mediano, ai lati della composizione e inginocchiati sulla mensa di questo altare dipinto, si trovano i committenti. Non è possibile affermare con certezza l’identità di queste due persone: una delle ipotesi principali sostiene che si possa trattare di Domenico Lenzi e sua moglie, che nel 1426 vennero sepolti sotto il pavimento della chiesa nella zona prospiciente l’opera. Un’altra ipotesi vede la possibilità che il committente possa essere un membro della famiglia Berti. Se non siamo ancora in grado di dare loro un nome certo, possiamo però affermare che Masaccio realizza due straordinari ritratti di queste due persone, tra i più realistici di tutta l’arte rinascimentale. Il pittore pone estrema cura nella caratterizzazione delle loro fisionomie e delle loro espressioni. Seguendo le linee prospettiche, su un livello arretrato rispetto a quello dei committenti si trovano i dolenti ai lati della Croce. La Vergine non è raffigurata in atteggiamento di dolore, ma il suo sguardo impassibile è rivolto verso l’osservatore, mentre con la mano destra indica verso il gruppo della Trinità, come ad introdurci alla meditazione, fungendo da tramite tra l’osservatore e il dogma rappresentato. Anche Giovanni non è ripiegato nel proprio dolore, ma pur manifestandolo sul proprio volto, ha lo sguardo rivolto verso la croce.
Il gruppo della Trinità è composto da Dio Padre che, con le braccia spalancate, sorregge i bracci della croce su cui è stato crocifisso il Figlio, mentre una colomba, simbolo dello Spirito Santo, plana verso Cristo, trovandosi proprio tra la sua testa e il volto del Padre. Masaccio per questa rappresentazione si ispira al modello iconografico del Trono di Grazia, diffusosi a Firenze alla fine del XIV secolo, con la differenza di presentare Dio Padre stante e non seduto, appunto, su un trono.
Masaccio, per rendere coerente e realistica la rappresentazione, compie una scelta rivoluzionaria: tutti i personaggi sono raffigurati con le stesse dimensioni, senza distinzione tra la dimensione sacra e quella profana. Anzi, i due committenti appaiano all’occhio dell’osservatore leggermente più grandi perché in primo piano rispetto ai due dolenti e al gruppo della Trinità, posizionati all’interno dello spazio della cappella. È una proposta dirompente, che crea una netta rottura con la raffigurazione medievale: infatti le proporzioni simboliche, che ancora Piero della Francesca userà per determinate iconografie, vengono sottomesse alla costruzione razionale della scena. È proprio l’impianto prospettico il vero protagonista di questo affresco. Tutti i personaggi di questo dipinto affermano la loro presenza nello spazio attraverso la loro imponente volumetria tridimensionale, resa grazie ad uno straordinario utilizzo del chiaroscuro, che rende queste figure decisamente maestose. Esse appaiono, avvolte in sontuosi panneggi, come delle imponenti statue. Il realismo proposto da Masaccio è davvero sconvolgente e l’uso della luce ne esalta in maniera decisa le forme. Anche in questo caso, non vi è una distinzione tra dimensione sacra e quella profana, perché tutti i personaggi risultano allo stesso modo concreti all’interno dello spazio.
Non è soltanto il dogma della Trinità ad essere raffigurato da Masaccio nell’affresco di Santa Maria Novella, ma anche il percorso che l’uomo è portato a compiere per raggiungere la salvezza cristiana. Partendo dal basso, lo scheletro rappresenta la vita terrena e la sua caducità. L’uomo, per sua natura mortale, attraverso l’esercizio della preghiera, in cui sono impegnati i due committenti inginocchiati, e l’intercessione dei santi (la Vergine e San Giovanni), può raggiungere Dio e la vita eterna
Questo sofisticato affresco, che chiude la breve carriera di Masaccio, è una delle opere di riferimento dell’arte occidentale ed è considerata uno degli emblemi della cultura umanistica che si sviluppò a Firenze all’inizio del Quattrocento. Grazie all’utilizzo della prospettiva lineare, Masaccio riuscì a conferire a questo dipinto un’inedita profondità aprendo non soltanto, illusionisticamente, uno spazio nella parete, ma anche nuovi orizzonti per la pittura rinascimentale.
L'autrice di questo articolo: Francesca Interguglielmi
Storica dell'arte, laureata in Arte Medievale presso l'Università degli Studi di Siena. Attualmente si sta formando in didattica museale presso l'Università degli Studi Roma Tre.