Si fatica oltre misura a intravedere una mostra nelle sale espositive di Palazzo Barberini, dove da poco più d’una settimana il pubblico è stato ammesso a una nuova, immancabile, imperdibile epifania caravaggesca, organizzata in concomitanza col Giubileo. E non ci si riferisce soltanto all’impegno fisico richiesto da un’infilata di capisaldi di Caravaggio stipata in uno spazio del tutto inadeguato ad accogliere le folle di pellegrini che attendono pazienti il momento di varcare la porta santa per sprofondare nel buio di Caravaggio 2025, titolo scelto per associare il nome del Merisi all’anno della remissione dei peccati. Caravaggio vale una penitenza sacramentale, penseranno le decine di migliaia che sono già passate all’offensiva delle rivendite online di biglietti e fanno giubilare l’organizzazione (pare sia stata già abbattuta, dopo poche ore dall’inizio della messa in commercio, la soglia dei sessantamila ingressi prenotati). Si fatica a intravedere una mostra, intanto perché le sale sono al limite dell’impraticabilità, gremite come sono di folti drappelli di devoti in adorazione. Paiono i beati dell’Angelico in contemplazione del Cristo giudice che è esposto poco più in là, nelle sale della raccolta permanente: ugualmente attenti, ugualmente illuminati, con l’unica differenza che, invece d’abbracciarsi come i beati dell’Angelico, i fedeli del Caravaggio sgomitano per procacciarsi qualche secondo in posizione frontale al cospetto dell’icona sacra, prima d’esser fagocitati da quelli che hanno perso la volata e spingono da dietro. Oppure alzano i decibel delle loro audioguide oltre la soglia dell’ascolto personale innescando canoni con innumerevoli voci di contrappunto. I più intrepidi si spingono financo a monopolizzare lo spazio antistante l’opera per farsi scattare fotoricordo in posa, dacché per qualcuno il selfie non è evidentemente sufficiente a serbare la memoria della propria presenza dinnanzi al totem. E tutto questo, beninteso, coltivando la speranza che nella sala non ci piombi un gruppo tra capo e collo: viene infatti consentito l’ingresso a comitive composte anche da venticinque persone (più la guida). Il punto è che l’organizzazione ha fatto convenire a Roma una ventina d’opere da manuale e ha pensato d’addensarle nelle sale al pianterreno di Palazzo Barberini, ottime per mostre d’arte, meno buone invece per ostensioni, per raduni di popstar. Sarebbe servito il doppio dello spazio, tenendo invariato il numero dei visitatori. Oppure sarebbe stato utile stemperare la successione per dissipare gli ammassi.
Il problema è che per fluidificare la densità di capolavori si sarebbe fatto necessario l’allestimento d’una mostra. Una mostra che sfruttasse magari, com’era stato fatto per la bella mostra su Urbano VIII di un paio d’anni fa, anche i saloni monumentali del piano nobile: si fatica allora a intravedere una mostra per il semplice fatto che una mostra non c’è, laddove per “mostra” s’intenda, banalmente, una raccolta d’opere scelte secondo parametri selettivi al fine d’illustrare un’idea o dar conto d’un passaggio della storia dell’arte. C’è, semmai, una sfilata d’icone (e qualche presenza su cui la critica è tutt’altro che concorde) allestita con la stessa logica con la quale si compongono gli album delle figurine: la giustapposizione d’immagini celebri. Dopodiché, qualora anche la parata trionfale possa rientrare nella definizione di “mostra”, allora Caravaggio 2025 può dirsi una delle mostre più riuscite degli ultimi anni.
Del resto, la stessa équipe che ha curato la rassegna (ovvero le due caravaggiste Francesca Cappelletti e Maria Cristina Terzaghi, cui s’aggiunge Thomas Clement Salomon che, com’è ormai abitudine sempre più frequente, da direttore del museo ospitante figura in qualità di curatore) ha deciso d’accogliere il pubblico assecondando la sua sete caravaggesca. Fin dall’introduzione nella prima sala viene evocata la mostra del 1951 (probabilmente non esiste più mostra su Caravaggio che non sia ormai accompagnata dallo scatenio del fantasma di Longhi) per stabilire una sorta di mito fondante verso cui volge lo sguardo l’occasione presente e viva, “opportunità unica e irripetibile di ammirare riuniti insieme ventiquattro capolavori del Merisi provenienti da ogni parte del mondo”, blandisce il primo pannello. Caravaggio 2025 è una di quelle occasioni uniche e irripetibili che si ripetono grosso modo ogni sette-otto anni, dacché a tutti è noto che il nome di Caravaggio ha un richiamo più forte rispetto a quello di qualsiasi altro artista del passato e del presente, e allora il pubblico italiano sa che le mostre su Caravaggio, quelle più consistenti, quelle capaci di radunare almeno una ventina d’opere autografe, arrivano con cadenza poco più dilatata rispetto a quella di un’olimpiade. La più recente grande occasione espositiva di sole opere del maestro era stata non quella del 2010 alle Scuderie del Quirinale, come ricordava Terzaghi in un’intervista al Giornale dell’Arte, ma quella del 2017 a Milano, nelle sale di Palazzo Reale, curata da Rossella Vodret, con una selezione in buona parte sovrapponibile a quella della mostra di Palazzo Barberini: c’erano il San Francesco di Hartford, la Marta e Maddalena di Detroit, il San Giovanni Battista di Kansas City, oltre a diverse opere italiane, dalla Flagellazione alla Buona ventura, dal Ritratto di cavaliere di Malta al Martirio di sant’Orsola. In precedenza c’era stata la mostra delle Scuderie del Quirinale del 2010, e ancor prima quella sull’“ultimo tempo”, ovvero il Caravaggio dal 1606 al 1610, organizzata nel 2004 al Museo Nazionale di Capodimonte a Napoli.
La principale differenza rispetto alla più numericamente consistente delle mostre recenti, quella delle Scuderie del Quirinale, risiede nel fatto che quindici anni fa c’erano solo opere autografe: quest’anno, malgrado gli annunci della vigilia (sempre nella summenzionata intervista, Cappelletti asseriva che avremmo visto “un Caravaggio in dosi massicce e allo stato puro”, “né allievi, né seguaci in mostra, solo dipinti autografi”), e volendo escludere l’Ecce Homo sul quale non ci sentiamo di ritener chiusa la partita, si contano almeno tre presenze spurie, ovvero il Narciso, il Mondafrutto e il Ritratto di Maffeo Barberini che, posto a fianco del ritratto omologo esposto per la prima volta al pubblico poche settimane fa, sempre a Palazzo Barberini, perde inevitabilmente forza fino a generare il fondato dubbio che possa essere espunto dal catalogo caravaggesco. Sul Narciso pareva che la critica, almeno quella più recente, si fosse ormai assestata sul nome dello Spadarino, benché Palazzo Barberini continuasse a esporre l’opera col nome di Caravaggio, pur seguito dal punto interrogativo, soluzione tipicamente adottata quando il dibattito scientifico non è ancora addivenuto a una soluzione, ma si vuol comunicare al visitatore che il nome suggerito dal museo trova comunque un certo consenso. In mostra il Narciso figura invece come “attribuito a Caravaggio”, senza che tuttavia la scheda in catalogo, compilata da un “MDM” non accreditato tra gli autori delle schede (si suppone sia Michele Di Monte, funzionario di Palazzo Barberini), aggiunga novità in favore d’un’eventuale paternità caravaggesca (anzi: la scheda si chiude con un sunto della proposta di Gianni Papi sullo Spadarino). Il Mondafrutto, nella versione della Royal Collection, è invece presentato come sicuro autografo: è certamente la migliore delle versioni note, ma è molto più debole delle opere che in mostra gli stanno a fianco, e la scheda glissa su eventuali nuovi argomenti in favore d’una paternità, se non certa, quanto meno solida. Poi, la cronologia proposta in mostra, anche qualora si voglia davvero ritenere un autografo il Mondafrutto, è davvero poco convincente, poiché viene ritenuta opera contemporanea al Bacchino malato che gli è esposto a fianco e che appare di qualità rumorosamente superiore: la datazione coeva pare essere conseguenza del fatto che la mostra recepisce finalmente le novità, introdotte dalla mostra Caravaggio a Roma. Una vita dal vero del 2011, sul posticipo dell’arrivo di Caravaggio a Roma, ovvero attorno al 1595 e non nel 1592 come si credeva un tempo. Il Ritratto di Maffeo Barberini è invece derubricato a dipinto “attribuito a Caravaggio”, e la possibilità di vedergli a fianco l’altro Maffeo Barberini certo non depone a favore del dipinto fiorentino.
Il Maffeo senza libro è una delle due grosse novità della mostra, sebbene sia esposto a Palazzo Barberini da fine novembre. L’altra è l’Ecce Homo, che da qualche anno catalizza l’attenzione di tutti soprattutto in virtù della rocambolesca vicenda della sua riscoperta, e che può esser finalmente visto per la prima volta dal pubblico italiano, esposto sulla parete di fondo della terza sala, vicino alla Flagellazione di Napoli e al David della Galleria Borghese. Sull’opera spagnola val la pena spendere qualche parola di più, dal momento ch’è possibile considerarla l’autentica star della mostra, ancorché la sua collocazione non sia delle più felici: in una posizione di rincalzo, compressa tra l’angolo della parete e uno dei dipinti che più attirano l’attenzione (la Flagellazione), e con in più un addetto che siede fisso dinnanzi all’opera per controllare che il pubblico non scatti fotografie (stessa cosa per la Cattura di Cristo, di cui si dirà più avanti: sono le uniche due opere che i visitatori non possono fotografare, divieto incomprensibile anche alla luce della fama dei due dipinti, dei quali ormai circolano infinite riproduzioni). L’Ecce Homo viene presentato come opera autografa: tuttavia, molti elementi avrebbero dovuto suggerire, quanto meno, un poco di prudenza. Ci si riferisce, in particolare, alla data relativamente recente della scoperta, al fatto che diversi studiosi non si siano ancora pronunciati sull’opera o non abbiano preso posizione (tra questi, fatto che appare piuttosto interessante, anche Francesca Cappelletti che, pur essendo curatrice della mostra, non sembra essersi espressa sul dipinto, o almeno sicuramente non lo fa sul catalogo), ad alcuni dettagli come il sangue raffigurato in maniera poco realistica o la clavicola, alla presenza d’alcune voci contrarie (Manzitti, Spinosa, Vannugli) e al generale disaccordo sull’eventuale datazione pur tra i pochi che si sono pronunciati in favore dell’autografia. L’Ecce Homo sarebbe dunque opera eseguita tra Roma e Napoli secondo Papi e Christiansen, tra il soggiorno presso i feudi laziali dei Colonna e il primo tempo napoletano secondo Terzaghi, e opera tarda secondo Porzio: si copre, in sostanza, un lasso di tempo in cui lo stile di Caravaggio conosce vertiginosi cambiamenti. Nella didascalia in sala e nella scheda in catalogo pare darsi quasi per scontato che il visitatore accetti con fideistica convinzione l’autografia (nella didascalia si legge che l’Ecce Homo “è una delle acquisizioni più recenti del catalogo di Caravaggio”), mentre la scheda rimanda a quanto già pubblicato nel volume del 2023 dedicato al dipinto, senza ulteriori aggiunte. Il dibattito attorno all’opera sembra però tutt’altro che chiuso, anche perché occorrerebbe cominciare a evitare d’eludere un problema sul quale sarà inevitabile posizionarsi in futuro, ovvero la collocazione dell’Ecce Homo di Genova (ed eventualmente il nome del suo autore), dipinto al quale il catalogo di Caravaggio 2025 non fa alcun cenno. È curioso, peraltro, rilevare come la prova tecnica addotta tanto per l’autografia dell’Ecce Homo genovese quanto per l’autografia dell’Ecce Homo spagnolo sia, di fatto, la stessa: le incisioni, rilevate in ambedue le versioni, e indicate, anche all’epoca del convegno sul dipinto di Palazzo Bianco, come caratteristica tipica del modus operandi di Caravaggio. Occorrerà allora ammettere che o sono entrambi autografi, oppure che l’incisione forse non sia un elemento dirimente e che potesse essere semmai una modalità tecnica adoperata anche da altri artisti del tempo, come del resto riconosce la stessa Rossella Vodret (“l’uso sistematico delle incisioni”, scrive in catalogo, “non è una caratteristica solo di Caravaggio, molti pittori anche della sua epoca ne facevano uso”). Cosa si può dire allora di certo sull’Ecce Homo? Forse, per adesso, non molto più di quello che ha detto Claudio Strinati in un video da lui pubblicato sulla sua pagina Facebook (“Com’è questo quadro? È bello”).
Ci sono comunque altri nodi, emersi e discussi in anni recenti (grosso modo tra la mostra Dentro Caravaggio e l’attuale), che la mostra lambisce di striscio oppure non affronta: per esempio, pur toccando l’argomento delle modelle di Caravaggio (nell’ottimo saggio di Francesca Curti, in altri passaggi del catalogo, e negli apparati della seconda sala, dove sono esposte la splendida Santa Caterina del Thyssen-Bornemisza di Madrid, la Marta e Maddalena di Detroit e la Giuditta e Oloferne di Palazzo Barberini, opera, quest’ultima, per la quale viene accettata dalla curatela la datazione al 1599-1600 circa, senza che venga dunque considerata la possibilità di legarla a una nota del 1602 letta da alcuni studiosi che hanno espresso le posizioni più aggiornate su questo tema, ovvero Cuppone, Papi e Vodret, come un pagamento per questo dipinto), viene messa in sordina la Natività di Palermo come opera che, stante il vasto consenso che la datazione al 1600 (che la rende dunque l’unica pala d’altare dipinta da Caravaggio in un anno giubilare) ha raggiunto in anni recenti, dovrebbe far parte dello stesso gruppo di dipinti. Non vengono approfondite le implicazioni di una recente scoperta (forse però proprio in ragione della freschezza della novità) di Vincenzo Sorrentino, che pure ha avuto una certa eco anche sulla stampa generalista: il ritrovamento di un pagamento che legherebbe l’Adorazione dei pastori di Messina a una probabile esecuzione napoletana. Le implicazioni, nel caso, sarebbero ragguardevoli, dacché crescerebbe il novero dei lavori napoletani di Caravaggio, con tutte le conseguenze sugli artisti locali che potrebbero aver visto dal vivo e da vicino l’Adorazione oggi in Sicilia (anche se Giuseppe Porzio e Rossella Vodret in catalogo ammoniscono sul fatto che Caravaggio potrebbe semplicemente aver eseguito l’opera in Sicilia ed esser stato pagato a Napoli, mentre Christiansen, pur parlando dell’opera in catalogo, non commenta la novità). Sui documenti rinvenuti da Sorrentino è opportuno un passaggio ulteriore, perché si tratta d’una scoperta recente e importante: se ne deduce infatti che Caravaggio fosse arrivato a Napoli ben prima dell’ottobre del 1609, come si pensava fino a poco fa, se si considera che aveva lavorato prima del 27 novembre a una pala come l’Adorazione dei pastori e, in contemporanea fino al 31 ottobre, data del primo documento del secondo soggiorno napoletano di Caravaggio, ad almeno un altro dipinto per una finora sconosciuta committente genovese, Ippolita Cattaneo de Marini, altrimenti non nota. E poi, non viene fatto alcun cenno, al di fuori d’una fugace citazione in una nota, alla “Maddalena Gregori”, il dipinto, riconosciuto presso un privato collezionista olandese nel 2014, e ch’è stato al centro d’una mostra al Musée Jacquemart-André nel 2019, riaprendo il dibattito critico attorno a un’opera che merita d’essere approfondita: è stato uno dei momenti più interessanti della storia caravaggesca recente.
Infine, tra le opere su cui forse occorre tornare a riflettere, si potrebbe includere anche la Cattura di Cristo della National Gallery of Ireland, dipinto dagli spiccati accenti nordici (che sarebbero un hapax nella produzione caravaggesca), tanto che in passato figurava attribuita a Gerrit van Honthorst: Caravaggio 2025 ha totalmente trascurato la discussione sorta a seguito della recente esposizione, nelle sale di Palazzo Chigi ad Ariccia prima e alla Fondazione Banco di Napoli poi, tra il 2023 e il 2024, della versione Ruffo della Cattura, circostanza che ha riacceso il dibattito sull’autografia, tra chi s’è pronunciato a favore dell’esemplare calabrese (Anna Coliva, che ha addirittura proposto di riassegnare la versione di Dublino a Van Honthorst), chi invece propende per l’opera irlandese (Alessandro Zuccari), chi invece le considera entrambe autografe (Francesco Petrucci, con precedenza accordata alla versione Ruffo). Peccato dunque che la mostra, pur avendo a disposizione molto materiale recente sul quale discutere e pur presentandosi come “un’opportunità unica per riscoprire l’arte di Caravaggio in chiave nuova, in un percorso espositivo che integra scoperte, riflessioni critiche e un confronto ravvicinato tra i suoi capolavori” finisca per rivelarsi quanto meno tiepida sotto il profilo delle novità scientifiche, che non sembrano essere al centro dell’esposizione.
Al posto della mostra centrata sulle novità, con pochi pezzi uniti magari a qualche opera di raffronto, s’è sostanzialmente accordata preferenza alla manifestazione solenne, al corteo celebrativo, al blockbuster in grado di smuovere le masse, per le quali viene però ammannito un percorso superficiale, quasi tutto improntato al biografismo, senza reali affondi sulle opere. La stessa audioguida, inclusa nei 18 euro che occorre versare per vedere la mostra (che diventano 25 se si vuole vedere anche il museo), non aggiunge molto più rispetto alle didascalie in sala: pochi appunti, per lo più di carattere storico o iconografico. Siamo del resto nell’epoca dello storytelling, c’interessa la pura aneddotica, rifuggiamo il formalismo, scacciamo il contesto, combattiamo contro qualunque affondo sui valori dell’immagine pura. E le opere sono le reliquie del culto di Caravaggio: nelle sale al pianterreno di Palazzo Barberini ci contentiamo di riverirle in mezzo alla mischia, di contemplarle per poi farci risucchiare dal gorgo degli altri fedeli, di adorarle mentre galleggiano su di una luce che le appiattisce e le fa sembrare dei display retroilluminati, specie nelle prime due sale. Si dà poi per scontato che il pubblico, uscito di qui, vada a cercarsi Caravaggio nelle chiese e nei musei di Roma per conto proprio, dal momento che né l’audioguida né i pannelli presenti in loco suggeriscono percorsi nella città, né per vedere Caravaggio né per approfondire il contesto del primo Seicento. Non stupisce allora che le chiese di Roma non abbiano previsto, in occasione della mostra, estensioni dei loro orarî spesso risicati o proibitivi (Santa Maria del Popolo, per esempio, concede appena un’ora e mezza, dalle 16:30 alle 18, nei giorni festivi, e poco più nei feriali, ovvero dalle 8:30 alle 9:45, dalle 10:30 alle 12 e dalle 16 alle 18).
Naturalmente ci sono anche i meriti, e la mostra vale sicuramente una visita, magari anche ripetuta. Non ci si può esentare dall’esprimere gratitudine ai curatori per aver radunato a Roma opere altrimenti di non facile accesso, in un momento storico nel quale prestiti di tale portata diventano vieppiù rari e complicati: la preziosa possibilità di veder radunata una ventina di dipinti di Caravaggio, alcuni dei quali giunti da lontano, è il principale motivo per vedere la mostra. Non dovrebbe essere così, ma così è: le opere sono qui, e la visita è dunque da incoraggiare. Emoziona la possibilità di vedere, uno accanto all’altro, in un raffronto serrato, la Buona ventura della Pinacoteca Capitolina e i Bari di Fort Worth: del resto, è più comodo andare a Roma che in Texas per vedere il capolavoro che il cardinal Del Monte acquistò presso la bottega del rigattiere Costantino Spada e gli fece di fatto conoscere Caravaggio. È affascinante rivedere, a distanza di otto anni, i dipinti di Ottavio Costa tutti assieme: la Giuditta di Palazzo Barberini ritrova dunque il San Francesco da Hartford e il San Giovanni Battista da Kansas City, una convergenza genovese che sarebbe stato bello veder approfondita proprio alla luce della comune committenza, magari tenendo presente anche la bella copia di Albenga ch’è centrale per comprendere i rapporti tra Caravaggio e il facoltoso banchiere ligure. Appassiona e accalora il confronto tra l’Ecce Homo, che si voglia credere o no all’autografia, la Flagellazione e il David, con l’esaltante presenza, sulla parete attigua, della Cena in Emmaus della Pinacoteca di Brera. E varrebbero il viaggio soltanto la Conversione della collezione Odescalchi, prima versione dell’omologo dipinto della cappella Cerasi, dipinto difficilmente accessibile e che pure gli studiosi faticano a vedere, e la Santa Caterina del Thyssen-Bornemisza: è illuminata da una luce troppo forte, ma si ragiona sul fatto che il museo madrileno difficilmente la presta, e allora ci si lascia sedurre da quella tela ch’era tra le preferite del cardinal Del Monte.
Può essere che alla fine le considerazioni sulle mancanze della mostra cedano sotto la forza delle opere. Può essere che si tenda a dimenticare il fatto che, in queste sale, Caravaggio piomba come una monade. Che la sua modernità, per come ci vien presentata, pare quasi esser frutto d’un genio celeste, retaggio romantico che la mostra, azzerando il contesto, non contribuisce a fugare. Che su alcuni dei dipinti il consenso sia tutt’altro che unanime, checché se ne dica. E allora alla fine ci lasciamo incantare dai dipinti. Almeno finché ci viene consentito dagli altri visitatori che ansano, premono e spingono per ottenere la loro parte di sacra illuminazione.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Al suo attivo anche docenze in materia di giornalismo culturale (presso Università di Genova e Ordine dei Giornalisti), inoltre partecipa regolarmente come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).