Dell’Ecce Homo (Fig. 1) presentato come opera d’ignoto seguace di Ribera in una vendita l’8 aprile 2021 dalla Casa d’Aste Ansorena a Madrid, che ha suscitato grande clamore nel mondo dell’arte quasi uniformemente orientato a riconoscervi un capolavoro di Caravaggio, è stato finalmente possibile vedere i risultati della rimozione, tramite un’accorta pulitura, dell’oscura patina di sudiciume e vecchie vernici, grazie ad una fotografia di ottima qualità, a mio avviso più che sufficiente a destare un’impressione assai lontana dalle promesse che l’opera aveva sembrato contenere. Si tratta indubbiamente di un bel quadro, ma totalmente privo del vigore drammatico caravaggesco e della tensione emotiva connaturata al più tragico evento storico, destinato a sconvolgere il percorso dell’umanità.
Dov’è l’immancabile manifestazione della ricerca caravaggesca, che trova la forma più nelle ombre che nelle luci, benché siano poi quest’ultime, evitando ogni ostacolo, a irrompere sulle prime in una strenua competizione che già riflette nelle intenzioni il tragico evento che si vuole far rivivere? Impossibile ora nel moderato chiaroscuro e nel pieno nitore delle forme riconoscere il seme rivoluzionario d’una pittura destinata a rendere obsoleti canoni figurativi di un passato già glorioso, ma orientati ormai ad esprimersi in termini di nobiltà devozionale, nei modi come nei soggetti, piuttosto che in una ricerca della più cruda verità.
Eliminata l’oscura patina che sembrava fare emergere drammaticamente da un buio profondo e inquietante volti stravolti dalle emozioni, la pulitura dell’opera è stata impietosa nei confronti di chi, io stesso tra le vittime, aveva già creduto all’emozionante scoperta d’un nuovo capolavoro di Caravaggio.
Oggi quello che si vede nell’opera (Fig. 2) cambia decisamente l’impressione che essa aveva destato: mutata profondamente l’intensità espressiva e la tensione drammatica della composizione e assai contenuto il suo pathos emozionale. Tutt’altro che profondamente turbato, ma solo vagamente rattristato senza troppa partecipazione empatica il volto di Pilato. Scontato il gesto delle mani che, obbligate dal poco spazio disponibile, anziché rivolte direttamente verso il Cristo prigioniero nell’additarlo al popolo, sembrano orientate piuttosto a mostrare qualcosa alla sua sinistra. Considerando la maestria di Caravaggio, anche nelle proprie opere più complesse, a creare il più convincente realismo compositivo nella sempre studiata collocazione d’ogni personaggio e credibilità nel loro atteggiamento, si può essere certi che sarebbe ricorso piuttosto ad un diverso formato, pur di non deflettere dalla piena realizzazione del proprio realistico progetto pittorico. Non più così disperatamente allucinata come ci si aspettava appare ora l’espressione del giovane alle spalle di Cristo, il bel volto parzialmente velato da un’ombra che nulla occulta dei suoi lineamenti, la bocca non più spalancata in un raccapricciante senso d’orrore, ma la cui contenuta espressività drammatica non va oltre quella assimilabile alla proclamazione d’un pubblico bando: più un semplice garzone che uno spietato carnefice.
Forse, sotto la suggestione d’immagini caravaggesche come la Medusa degli Uffizi, così come occorso a seguaci anche occasionali di Caravaggio, uno per tutti il genovese Orazio De Ferrari, ci si aspettava un’espressione d’assai più estrema intensità drammatica (Figg. 3-4). Quanto all’espressione di Gesù, anziché specchio delle atroci sofferenze patite, vi traspare la rassegnata tristezza per un dolore morale piuttosto che fisico.
Ma soprattutto occorre rilevare come la conformazione del suo volto mostri chiare debolezze nel modellato impossibili da imputare a Caravaggio. Non più occultati dalla scura patina delle vecchie vernici, oggi appaiono in clamorosa evidenza, malgrado l’inclinazione del capo possa forse ancora attenuarne un poco il disturbo visivo.
Raddrizzandolo sulla verticale, con una semplice elaborazione digitale, appare evidente come il volto di Cristo sia asimmetricamente deformato al punto che persino i suoi occhi risultano decisamente fuori allineamento, come del resto tutta la metà destra rispetto alla sinistra, per cui anche le rughe che ne solcano la fronte subiscono una conseguente innaturale declinazione.
Che l’autore del quadro fosse soggetto a queste debolezze nel modellare correttamente i tratti somatici di un volto nella corretta prospettiva di uno scorcio, si evidenzia pure nell’orecchio destro inserito nella testa di Cristo con un’impossibile inclinazione obliqua. E le debolezze di modellato si riscontrano naturalmente anche nel volto di Pilato, certificando una lacuna del modus operandi dell’autore. La perfetta conoscenza del corpo umano e l’assoluta padronanza della prospettiva di cui dà prova Caravaggio è sempre verificabile in ogni sua opera ed in qualunque momento della sua attività, quali che siano le varie posture dei personaggi da lui raffigurati.
L’opera vuole rappresentare il fatale momento in cui si decide della vita o della morte di un personaggio di enorme rilievo e di altrettanto diffusa popolarità che, tra sentimenti estremi di odio e amore, divideva drammaticamente in fazioni contrapposte l’intera popolazione della Giudea. Delle numerose versioni dell’episodio dipinte da Caravaggio, secondo la testimonianza di notizie storiche, nessuna ci è giunta oltre al solo esemplare genovese di Palazzo Bianco.
Tuttavia considerando le opere del pittore inerenti anch’esse al tema del martirio di Cristo e la forte tensione drammatica che le caratterizza, l’Ecce Homo testé ritrovato si contraddistingue per l’interpretazione all’insegna d’una moderazione espressiva che davvero non sembra corrispondere alla tensione drammatica che ci si aspetta da Caravaggio.
L’argomento offre l’occasione per un contributo in favore del riconoscimento come opera autografa di Caravaggio dell’Ecce Homo del museo genovese di Palazzo Bianco (Fig. 14) che il ritrovamento di Madrid, sembrava poter declassare, dando definitivo credito a non pochi dubbi espressi da alcuni studiosi circa la sua appartenenza al pittore.
È assodato ormai che nessuna delle due opere possa essere posta in relazione con la commissione data tra il 1605 ed il 1607 dal nobiluomo romano Massimo Massimi a Caravaggio, Cigoli e Passignano di tre dipinti raffiguranti l’Ecce Homo, che dovevano avere per contratto le medesime misure, oggi verificabili nell’unico esemplare superstite dipinto dal Cigoli, passato nel tempo a Palazzo Pitti e che risultano di cm 175 x135, quindi assai maggiori di entrambi i quadri di Genova e di Madrid.
Una certa distanza da quanto ci si possa aspettare da Caravaggio per un’interpretazione dell’episodio centrata su una più cruda brutalità espressiva, ha influito probabilmente sui dubbi che ancora resistono circa l’attribuzione dell’esemplare genovese che, sebbene sempre accreditato di alta qualità esecutiva, è sembrato ad alcuni estraneo al consueto realismo figurativo del pittore. Un aspetto che non può certo essere sfuggito a Roberto Longhi, il cui giudizio divenne perentorio in favore della sicura appartenenza dell’opera a Caravaggio stesso, solo dopo che la pulitura eseguita da Pico Cellini ne avesse reso visibile l’originale qualità, rimuovendo l’oscura patina secolare di sudiciume e vecchie vernici ossidate che gli avevano suscitato iniziali perplessità. In precedenza, numerosi esemplari della stessa composizione erano stati da Longhi considerati modeste copie fedeli, tratte da un originale perduto del maestro lombardo, a cominciare da quello appartenente al Museo Nazionale di Messina esposto nella storica mostra milanese del 1951. Si trattò quindi di un giudizio maturato dopo elaborata riflessione dal grande studioso, che fu il primo a comprendere l’enorme portata dell’arte di un geniale pittore, il più grande del suo tempo, quasi dimenticato in secoli deviati da pregiudizi, settarismo e integralismo culturale. Al di là della capacità di riconoscere e restituire al Caravaggio opere giacenti ignorate o dimenticate, in un tempo in cui i mezzi di confronto e gli strumenti di supporto alla memoria erano costituiti unicamente da fotografie in bianco e nero, va soprattutto riconosciuto a Longhi l’avere compreso e penetrato lo spirito creativo di Caravaggio con la profondità consentitagli da un talento critico che era e resta tutt’oggi ineguagliata.
Evidentemente non deve essergli sembrata così fuorviante la diversa interpretazione di un episodio anche passibile di emozioni alternative, non più espressive di maschia brutalità ma indirizzate a suscitare sentimenti di pietà altrettanto veritieri, sebbene inediti nella più consueta attività del pittore.
Dopo questo sentito omaggio a quello che è stato il mio maestro e mentore, credo giusto onorare la sua intuizione riguardante l’Ecce Homo di Palazzo Bianco con alcune considerazioni che mi sembrano quanto mai appropriate.
Benché sotto l’aspetto pittorico la qualità dell’opera non sia mai stata messa in dubbio da nessuno, insolitamente dopo oltre settant’anni dalla sua scoperta non è stata mai formulata alcuna ipotesi alternativa circa un possibile autore dell’opera, nonostante le numerose copie esistenti indirizzino verso un artista di consolidato mestiere e conseguente notorietà. Sarebbe forse ormai tempo di rassegnarsi all’idea che di questo ignoto pittore non esistano altre opere sopravvissute al trascorrere dei secoli, salvo non optare per l’ipotesi, a mio avviso più ragionevole, che una certa atipicità non abbia consentito un consenso unanime nel riconoscervi modi riferibili a Caravaggio. È stato concordemente rilevato, nel volto di Pilato, l’aspetto di un evidente ritratto e diversi studiosi si sono avvicendati nel suggerire la possibilità che si tratti dell’autoritratto del Caravaggio stesso, mentre altri vi hanno ravvisato una più convincente somiglianza con l’Andrea Doria (Fig. 15), dipinto da Sebastiano del Piombo a Roma nel 1526 per ordine di Clemente VII, quando l’ammiraglio divenne comandante supremo della flotta pontificia.
L’individuazione è tuttavia rimasta senza seguito significativo, ma è comunque sorprendente il fatto che nessuno vi abbia mai rilevato l’evidente anomalia d’un abbigliamento assolutamente inedito per un personaggio raffigurato sempre da ogni pittore, in ogni epoca, in abiti orientali, conformi al territorio teatro della vicenda.
Non vi sono solo la somiglianza fisiognomica e la postura a suggerire l’appropriato accostamento, ma è soprattutto quella inusuale veste nera e la caratteristica berretta indossate da Pilato. Indumenti che costituivano l’abbigliamento d’ordinanza dei senatori della Repubblica Genovese (Fig. 16), indossato infatti nel ritratto anche da Andrea Doria, il quale, come noto, dopo avere riformato la costituzione della Repubblica Genovese, rifiutò sempre la carica di Doge, mantenendo solo il suo posto di senatore della Repubblica in un più decisivo organo di controllo che costituiva il Priorato dei Sindacatori, in definitiva vero centro del potere.
Se può considerarsi a questo punto convincente la relazione della figura di Pilato con l’Andrea Doria di Sebastiano del Piombo, ne va tuttavia rilevata la diversa espressione del volto, dove l’altera serenità del grande ammiraglio, viene sostituita dallo sguardo corrucciato del prefetto romano di Galilea, chiamato al compito sgradito di emettere una condanna a morte palesemente scellerata. Le sopracciglia rialzate che gli solcano profonde rughe sulla fronte, esprimono una sorta di scetticismo e d’incredula disapprovazione, nel chiedere al popolo in subbuglio, quale pericolo potesse mai rappresentare un individuo visibilmente mite ed inerme come quello di cui si pretendeva la crocifissione. E appropriatamente Gesù vi è infatti raffigurato di costituzione insolitamente gracile, con gli occhi bassi, umiliato ed arreso, mentre il carceriere dietro di lui, col capo leggermente reclinato, pare intento a coprirgli le spalle con caritatevole delicatezza piuttosto che con insolente intento denigratorio.
Si tratta in definitiva di un’opera di carattere singolarmente compassionevole, in cui tutti i personaggi interpretano in maniera univoca, ciascuno secondo il ruolo assegnatogli dal pittore, la propria parte, raggiungendo una convincente realtà espressiva che, sebbene di carattere inedito in Caravaggio, non può tuttavia ritenersi estranea alla sua ricerca di cruciale verità.
Un’interpretazione così pietistica del soggetto corrisponde in fondo ad una corretta lettura di quanto riportato dagli evangelisti, che sottolineano l’iniziale reticenza di Pilato di fronte alla perentoria pretesa dei Sadducei, allora dominanti tra la popolazione ebraica, di condannare Gesù alla crocifissione. Pretesa alla quale Pilato finì per cedere, più per viltà che per convinzione, consegnandosi alla storia come colui che “lavandosene le mani” condannò a una morte atroce il figlio di Dio.
Cosa possa avere indotto Caravaggio a raffigurare Andrea Doria sotto quelle esecrate spoglie resta arduo da spiegare, soprattutto in mancanza di notizie sulla provenienza dell’opera, pervenuta non si sa come nei depositi di Palazzo Bianco. Una possibile ipotesi potrebbe essere formulata considerando che i maggiori estimatori e protettori di Caravaggio appartenevano alla nobiltà papalina, presso cui in quel tempo il pessimo ricordo di Andrea Doria era probabilmente ancora vivo a Roma.
È probabile che in buona parte dell’aristocrazia covasse ancora un radicato sentimento di odio verso il grande ammiraglio genovese, nel ricordo di quando egli aveva repentinamente lasciato il comando della flotta pontificia e rotto l’alleanza con il re francese papista Francesco I, per passare al servizio del grande nemico Carlo V, già resosi responsabile di avere scatenato contro la città orde di lanzichenecchi in una disumana opera di saccheggio e devastazione, le cui conseguenze dovevano ancora in qualche misura persistere.
Tralasciando tuttavia di spingere oltre l’immaginazione in congetture non confortate da notizie documentali, non si può a mio avviso non riaffermare decisamente l’alto livello qualitativo dell’opera e, con almeno una citazione da connoisseurship, ricorrere ad uno di quei chiari segni “morelliani” utili a rafforzare la convinzione della sua appartenenza al tempo più maturo di Caravaggio. Tornando al volto del Pilato-Andrea Doria, il modo spiccatamente caratteristico di accentuarne la forza espressiva, solcando profonde rughe parallele che percorrono in tracce sinusoidali la sua fronte pressata dal sollevamento dei sopraccigli, costituisce una sorta di “stilema” del tutto tipico e inconfondibilmente unico, che si ripete spesso nelle opere di Caravaggio e così marcate solo nelle sue, tra tanto seguito caravaggesco.