Inquieti rinascimenti e viatici padani, da Brescia a Ferrara


Recensione della mostra “Il Rinascimento a Brescia. Moretto, Romanino, Savoldo. 1512-1552”, a cura di Roberta D’Adda, Filippo Piazza e Enrico Valseriati (Brescia, Museo Santa Giulia, dal 18 ottobre 2024 al 16 febbraio 2025).

Negli ultimi decenni gli storici hanno declinato alcune categorie storiche al plurale. Così il monolitico e imperioso Rinascimento, con la maiuscola, ha cominciato a scorporarsi in molteplici rinascimenti, dove l’aggettivo regionalistico ha guadagnato sul nome la forza di una nuova realtà, più aderente a una storia che si è parcellizzata e frazionata in diverse ma più concrete geografie segnate dai documenti ma anche dalla specificità dei dati antropologici, estetici, con una particolare consistenza nella storia locale delle personalità a loro modo “creatrici” in quanto capaci di performare luoghi, momenti, ideali, pur in generale riconducibili a un’unica vena connotata da un elemento che ha dato il nome all’intera epoca. Per quanto possa averne scongiurato negli ultimi decenni l’uso per via delle spinte separatiste impresse dalla Lega Lombarda coltivando le mitologie del Padus pater (e della Delta mater) e i rituali folclorici delle ampolline d’acqua raccolta dal Po e i suoi affluenti, che rispecchiano arcaici pensieri tradotti in politichese autarchico (ma oggi romano oltre ogni indipendentismo), l’idea che esista un versante padano delle arti nel pieno e tardo Rinascimento è riemersa nella concomitanza di due mostre dedicate al Rinascimento bresciano e al Cinquecento ferrarese.

L’idea di una nuova civiltà classica ispirata dall’antica non può ignorare che esistono cromosomiche appartenenze che, per esempio, diramano il Rinascimento lombardo in “parlate” bresciane, cremonesi, bergamasche, rispetto alla lingua milanese, sulle quali nondimeno anche l’influsso veneziano ha avuto un peso non soltanto politico ovvero di stile e di parola. È il tema dei “dialetti” rispetto alla lingua di un intero tipo umano. Allo stesso modo, il mondo ferrarese ha affermato un influsso oltre i propri confini dentro i confini del mondo bolognese, attraverso il Quattrocento della “officina” di Ercole de’ Roberti del quale hanno captato gli impulsi, come le due antenne di un meraviglioso coleottero, Antonio da Crevalcore e Lorenzo Costa.

L’irradiazione padana mischia le sue luci procedendo verso Nord e trovando qualche aggancio non casuale con il Rinascimento lombardo; particolari idiomi, personali e comunitari, si distinguono infatti dal mondo d’influenza leonardesca, senza negarne il ruolo (vedi, in quell’ambito, la parabola di Foppa), ma assumendo un aspetto “dialettale” che non equivale a rozzo, primitivo o prosaico, in quanto è terragno e radicato, vale a dire capace di captare quanto di più umano possa il mezzo artistico. Considerando gli sviluppi che la stessa letteratura su Caravaggio ha registrato negli ultimi trent’anni si deve considerare il fatto che lo stesso Merisi esca contaminato da forme e idee che lo rendono un po’ meno “sovversivo” ma comunque anticlassico, esposto alle frontiere del naturalismo, eppure legato nella sua formazione allo stesso manierismo di cui, in effetti, ha respirato la lezione nel momento in cui ancora ragazzino è andato a scuola dal Peterzano, ma che ha poi meditato e risolto stemperando anche il pauperismo borromaico, dove reale e naturale collaborano a una idea di uomo fuori da ogni divisione di ceto o condizione, insomma con un discorso pittorico prima ancora che ideologico come la critica del Novecento l’ha ingabbiato; ma anche il Caravaggio più maturo ha recepito elementi di quella classicità che dall’epoca antica arriva fino ai giganti del moderno evo di cui tenne conto passando per Bologna mentre veniva e poi abitava a Roma.

Nelle Cose bresciane Roberto Longhi nel 1929 scrive che quella scuola è “forse la più ricca d’intelligenze e ricerche quasi secrete che vanti in quel tempo l’Italia settentrionale. Le sue incontrastabili relazioni, e la sua altrettanto evidente distinzione dalla pittura veneziana contemporanea, e la sua fedeltà a tradizioni anteriori, e le sue rapidissime percezioni del nuovo, le sue rifrazioni altrove in terre non troppo distanti, lo scorre talora nelle sue vene del fluido del fluido che Lotto andava spargendo in Italia secondo una topografia capricciosa come le sue forme, sono altrettanti deliziosi quesiti che non esattamente sceverati fin qui”. I nomi di spicco erano quelli che ancora oggi ritmano con le loro opere la colta retrospettiva che si tiene nel bresciano Museo di Santa Giulia fino al 16 febbraio (catalogo Silvana) a cura di Roberta D’Adda, Filippo Piazza ed Enrico Valseriati.

Ancora nel 1935, la curatrice della mostra dedicata alla Pittura a Brescia fra Seicento e Settecento, Emma Calabi – storica dell’arte ricordata nel 2023 per aver pagato le conseguenze delle Leggi razziali che la costrinsero a fuggire in Brasile interrompendo una promettente carriera – iniziava il suo saggio introduttivo al catalogo evocando “la grande tradizione pittorica bresciana”, quella “rappresentata dal Savoldo, dal Romanino e, con maggior accento nostrano, dall’assorto Moretto!” che era stata “mantenuta viva durante il ’500 per opera di Lattanzio Gambara, di Luca Mombello, del Richino, di Agostino Galeazzi e, prima di cedere il campo al multiforme manierismo del primo Seicento, ancora aveva illuminato d’una pallida luce di riflesso le cose migliori di Pietro Marone, Girolamo Rossi e Pier Maria Bagnadore”. Notava la studiosa che lo snodo storico fa sì che questi ultimi pittori vissuti a cavallo dei due secoli, pur appartenendo a un periodo ormai finito, “già annunciano il successivo orientamento secentesco”. Questo accadeva anche senza che fossero vette assolute, anzi, precisava la storica, “s’erano ridotti a una stanca ripetizione di atteggiamenti e a qualche rara, fine annotazione cromatica”.

Allestimenti della mostra Il Rinascimento a Brescia. Moretto, Romanino, Savoldo. 1512-1552
Allestimenti della mostra Il Rinascimento a Brescia. Moretto, Romanino, Savoldo. 1512-1552. Foto: Alberto Mancini
Allestimenti della mostra Il Rinascimento a Brescia. Moretto, Romanino, Savoldo. 1512-1552
Allestimenti della mostra Il Rinascimento a Brescia. Moretto, Romanino, Savoldo. 1512-1552. Foto: Alberto Mancini
Allestimenti della mostra Il Rinascimento a Brescia. Moretto, Romanino, Savoldo. 1512-1552
Allestimenti della mostra Il Rinascimento a Brescia. Moretto, Romanino, Savoldo. 1512-1552. Foto: Alberto Mancini
Allestimenti della mostra Il Rinascimento a Brescia. Moretto, Romanino, Savoldo. 1512-1552
Allestimenti della mostra Il Rinascimento a Brescia. Moretto, Romanino, Savoldo. 1512-1552. Foto: Alberto Mancini
Allestimenti della mostra Il Rinascimento a Brescia. Moretto, Romanino, Savoldo. 1512-1552
Allestimenti della mostra Il Rinascimento a Brescia. Moretto, Romanino, Savoldo. 1512-1552. Foto: Alberto Mancini
Allestimenti della mostra Il Rinascimento a Brescia. Moretto, Romanino, Savoldo. 1512-1552
Allestimenti della mostra Il Rinascimento a Brescia. Moretto, Romanino, Savoldo. 1512-1552. Foto: Alberto Mancini

Stranamente, nel loro multiforme eclettismo, i bresciani della prima metà del Seicento, chiusi nel loro piccolo e quieto mondo provinciale, sembrarono non accorgersi di ciò che stava apportando la rivoluzione di Caravaggio nei maggiori centri italiani. Forse, notava Calabi, solo Ceruti – riscoperto proprio nella prima metà del Novecento – seppe rinnovare un secolo dopo e “con sentimento moderno, la plastica chiaroscurale caravaggesca”. Fu, del resto, il terminus ad quem longhiano e testoriano.

Quello che matura a Brescia con Savoldo, e poi con Romanino e Moretto – il più rappresentato nella mostra attuale – è un “rinascimento inquieto”. Il rapporto civile coi veneziani fu quasi come un protettorato, ma anche di qualche sottomissione creativa e sociale: il quasi mezzo secolo che trascorse dopo il Sacco delle truppe di Gaston de Foix nel 1512 è infatti un tempo di crisi economica e di dipendenza politica, aggravata due anni dopo dalla peste, con l’ombra di Venezia che per favorire la ricostruzione – un Piano Marshall dell’epoca – alleggerì la pressione fiscale così che una parte del gettito fosse usata per restaurare monumenti e chiese che aveva in parte contribuito a demolire con la “spianata” che durò dal 1516 al 1517 con lo scopo di rendere ardua l’avanzata dell’esercito francese. Ma questo significò, dopo la fine della guerra, anche un incentivo per le commissioni artistiche che favorì l’emergere di nuovi talenti. Tra questi appunto i tre “precedenti caravaggeschi”: Savoldo, Romanino e Moretto.

Il Rinascimento che oggi viene qui celebrato fu dunque quello mosso dalla volontà di trovare una “concordia civile”. Circondati come siamo quotidianamente di immagini di distruzione bellica che lasciano in piedi soltanto rovine, non dovrebbe essere difficile per noi capire l’impegno che ci volle da parte di tutti, anche degli artisti, per restaurare una città in pezzi, affinché fosse anche simbolo di unità grazie a una volontà politica di riscatto dallo stesso crollo morale e materiale. Le pale d’altare oppure lo Stendardo delle sante croci del Moretto nel 1520, l’anno della morte di Raffaello, sebbene nate in ambito religioso furono anche di stimolo sociale e politico, come già era avvenuto con lo Stendardo di Orzinuovi del Foppa, la cui ragione fu quella di un ex voto civile per implorare la protezione divina dei bresciani dalla peste.

La “Spianata” dei veneziani, che ridusse Brescia a una immane rovina, sacrificando chiese e monasteri, non venne sentita come un atto di difesa contro il comune nemico francese ma come un vulnus intollerabile dalla popolazione, che affermava ancora la posizione dominante di Venezia. E se prima Brescia e Ferrara vivevano culturalmente sotto l’influenza dei due maggiori centri culturali del Nord, vale a dire Venezia e Milano, dopo il conflitto le committenze decise da Francesco Sforza favorirono in realtà alcune grandi presenze a Bergamo e a Brescia – il leonardismo e il bramantismo furono sempre considerati come rifiuto della tradizione alta, quella che Testori chiamava degli “uomini d’oro” e che prima di lui Longhi ebbe sempre in antipatia, al punto da spingere Foppa a lavorare in Provincia sebbene avesse lasciato a Milano segni importanti come la Cappella Portinari a Sant’Eustorgio.

Agostino Busti detto il Bambaja, La Battaglia di Brescia (1517-1522; marmo, 96 x 118,5 x 23 cm; Milano, Museo d’Arte antica del Castello Sforzesco)
Agostino Busti detto il Bambaja, La Battaglia di Brescia (1517-1522; marmo, 96 x 118,5 x 23 cm; Milano, Museo d’Arte antica del Castello Sforzesco)
Alessandro Bonvicino detto il Moretto, Adorazione della reliquia della santa croce con i santi Faustino e Giovita (Stendardo delle sante croci) (1520; olio su tela, 225 x 152 cm; Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo)
Alessandro Bonvicino detto il Moretto, Adorazione della reliquia della santa croce con i santi Faustino e Giovita (Stendardo delle sante croci) (1520; olio su tela, 225 x 152 cm; Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo)
Giovanni Girolamo Savoldo, Pastore con flauto (1540 circa; olio su tela, 97 x 78 cm; Los Angeles, J. Paul Getty Museum)
Giovanni Girolamo Savoldo, Pastore con flauto (1540 circa; olio su tela, 97 x 78 cm; Los Angeles, J. Paul Getty Museum)
Giovanni Girolamo Savoldo, Giovane con flauto (1525 circa; olio su tela, 74,3 × 100,3 cm; Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo, proprietà Unicredit Art Collection)
Giovanni Girolamo Savoldo, Giovane con flauto (1525 circa; olio su tela, 74,3 × 100,3 cm; Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo, proprietà Unicredit Art Collection)

La rinascita sociale doveva seguire la fine delle attività belliche, ma venne ritardata dalla peste. Lentamente si imposero all’immaginario collettivo figure come la santa Angela Merici, o come l’agronomo Agostino Gallo, che rinnovò tecniche e cultura riscoprendo il sapere degli antichi e il valore del vivere in armonia con la natura. Questo nuovo sentimento, associato a quello poetico e musicale, si intuiscono in un’opera del Savoldo, il Pastore con Flauto del 1525, dove il senso arcadico-pastorale dell’incontro fra naturalismo e linguaggio, contempla anche la dimensione dialettale del legame col territorio, che a Brescia toccò il culmine nell’opera di Giacomo Ceruti che Testori rilancia nel saggio Lingua e dialetto nella tradizione bresciana (1966). Emerge in quelle pagine una dialettica fra centro e periferia di elevato tenore culturale e politico dove il linguaggio delle gente si contrappone alle “superbe mitologie rinascimentali” e recupera i capisaldi del rinascimento bresciano. Si dà il caso che il “‘cagnaroso’ Romanino” parli una “lingua sbilenca, ‘sbotasata’ e ‘sgalvagnata’” (che fa pendant con le madri “strangosciate” del Paracca a Varallo); e che: “il dialetto, la grande ‘parlata’ bresciana diede, col Romanino, uno scossone confuso, disordinato, ma possente, come un verso gutturale che salga dalle più profonde interiorità della terra; a tal punto che sembrarono retrocedere dalla posizione già di lingua autonoma cui li aveva condotti il Foppa, a quella, gutturale e borborigmica, intasante e gigantesca, degli anonimazzi valligiani; o dei preistorici camuni presi e letti per segni di chissà quali stregonesche barbarie”.

Lingua estrema, dunque, quella dei bresciani, cui Testori cerca di conformarsi nello stile di scrittura, come se anche quel giudizio uscisse dalla sua penna come riflusso gastrico, o come un rantolo che processa la storia. Uno snodo che collega e svincola insieme, la “stregonesca barbarie” del Foppa con l’epica degli stracci del Ceruti sul quale, alla fine della sua vita, Testori aveva avuto però qualche ripensamento, in particolare riguardo alla sua pittura religiosa, poiché lo stigma che Longhi aveva impresso al Pitocchetto sembrava perdersi in un’inautentica formalità. “Tutto fu nient’altro che ‘ritratto’, e, a causa dell’ampiezza e totale umanità di sguardo e riflessione, ‘ritratto’ del mondo intero”, scrive Testori, “... non il ‘pitocco’ come tipo; ma quel povero diavolo, quel misero, quello ‘strapennato’”. Era questione di umanità e non, appunto, di concetti. L’apoteosi della ferialità, dopo Caravaggio.

Anni fa, nel 2019 se non ricordo male, si tenne nel Museo Tosio Martinengo una mostra dedicata agli animali, e in questo singolare zoo bresciano spiccava come un vuoto intollerabile l’assenza di una tela che resta unica e memorabile nel suo genere e che oggi possiamo vedere finalmente a Santa Giulia: parlo del Cristo nel deseto con gli animali, che secondo l’immaginoso frequentatore delle culture antiche Robert Eisler – di cui è stato pubblicato nel 2011 anche in italiano Man in to Wolf, un magmatico saggio del 1953 che studia la differenza antropologica fra l’uomo frugivoro e l’uomo carnivoro (Uomo lupo, Medusa, 2011) – , prendeva ispirazione dal Vangelo di Marco 1,13. Si tratta di un dipinto del periodo giovanile di Moretto, immediatamente successivo al Sacco, entrato nelle collezioni del Metropolitan Museum of Art fin dal 1911; secondo gli studiosi, il piccolo quadro era parte di un dipinto più ampio, quando la pittura di Moretto era ancora sotto influenza veneziana. Un unicum iconografico dove il Cristo sembra assorto ad ascoltare le bestie, quasi che parlasse con esse a un livello di interiorità mentale, una immagine tutt’altro che soggetta alle tentazioni di Satana. Bisognerebbe chiarire anche chi fu il mandante di questa “riduzione” della tela, per comprendere fino a che punto l’impressione tematica e stilistica combaci con l’elemento classico che si delinea in un nuovo sentimento della natura, carico di valori lirici nel riferimento alla musica, come una sinfonia composta con le voci degli animali nel riflesso pittorico (un ambito valorizzato nella mostra dal Giovane con flauto e il pastore di Savoldo, allo splendido Sacerdote che contempla il profeta David del Moretto, che al posto dell’arpa esibisce una lira da braccio (fra gli strumenti esposti il Violino Carlo IX con le tracce della decorazione che attesta l’appartenenza al re di Francia, e una spinetta pentagonale, ancora con la tastiera nella sua estensione originale). Il deserto di Moretto è però quasi silente, come un film muto, come se volesse alludere al dialogo interiore del Cristo con le anime semplici che popolano il paesaggio facendone un emblema dell’inizio, che se può anche ricordare il mito di Orfeo, viceversa suggerisce una rammemorazione del Paradiso perduto.

Passato il tempo di Cosmè Tura, di Francesco del Cossa e di Ercole de’ Roberti, è come quando in una storia meravigliosa, a un periodo di straordinaria intensità e creatività subentra una crisi che aspira, anzitutto, a un nuovo inizio. Ciò che pone Ferrara di fronte alla difficile sfida di un ricambio di alto livello. Un pungolante fardello con cui occorreva misurarsi (così desiderava Alfonso I subentrando al padre Ercole), anche perché ciò che deve colmare il vuoto è stato allevato in quel prima e ha allo stesso tempo ha raccolto gli stimoli di una varietà di sfumature locali.

Girolamo Romani detto Romanino, Ritratto di gentiluomo (1530-1540 circa; olio su tela, 76 x 65 cm; Allentown, Allentown Art Museum)
Girolamo Romani detto Romanino, Ritratto di gentiluomo (1530-1540 circa; olio su tela, 76 x 65 cm; Allentown, Allentown Art Museum)
Alessandro Bonvicino detto il Moretto, Cristo nel deserto con gli animali (1515-1520 circa; olio su tela, 45,7 x 55,2 cm; New York, The Metropolitan Museum of Art)
Alessandro Bonvicino detto il Moretto, Cristo nel deserto con gli animali (1515-1520 circa; olio su tela, 45,7 x 55,2 cm; New York, The Metropolitan Museum of Art)
Alessandro Bonvicino detto il Moretto, Sacerdote che contempla il profeta David (1550-1554 circa; olio su tela, 74 x 85,5 cm; The Southesk Collection)
Alessandro Bonvicino detto il Moretto, Sacerdote che contempla il profeta David (1550-1554 circa; olio su tela, 74 x 85,5 cm; The Southesk Collection)
Violino Andrea Amati Carlo IX (1566 circa; Cremona, Museo del Violino)
Violino Andrea Amati Carlo IX (1566 circa; Cremona, Museo del Violino)

Su questa linea “padana” correva già la mostra di due anni fa a Palazzo dei Diamanti Rinascimento a Ferrara articolata su Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa, il cui sequel è ora questa dedicata al Cinquecento di Mazzolino, Ortolano, Garofalo e Dosso, sempre nella stessa sede, a cura di Vittorio Sgarbi e Michele Danieli fino al 16 febbraio (catalogo Skira). Anche allora Sgarbi batteva il tasto sui mutui scambi degli artisti ferraresi col contesto bolognese per una osmosi che spingeva l’ethos padano alla definizione di un “altro” Rinascimento e portava il critico ad augurarsi una prossima mostra su quello bolognese. La questione abbraccia il discorso delle macroaree culturali, modulandolo sull’opera pittorica dei quattro moschettieri e coagulandosi attorno a Raffaello (propizio fu, per tutti, l’arrivo a Bologna nel 1516 dell’Estasi di Santa Cecilia) e a Tiziano (col Polittico Averoldi nel 1522 a Brescia), contatti che in Ferrara trovano il raccordo tra Brescia e Cremona, e con Pavia, ovvero a Modena quello con Milano. Linguaggio padano che Sgarbi rilancia e che trova in Dosso Dossi, il più dotato e colto del quartetto, il pittore che Alfonso predilisse, il trait-d’union fra Raffaello e Tiziano.

Ed è appunto sotto il regno di Alfonso I d’Este che matura questo nuovo sentimento dell’arte ferrarese con le fonti classiche che ispirarono il dipinto forse più celebrato di Dosso, anch’esso un unicum pittorico, quello di Giove pittore di farfalle, Mercurio e la Virtù eseguito tra il 1523 e il 1524. Diventando il mecenate di una nuova generazione di artisti, il duca emerge come moderno sovrano che esercita il potere anche attraverso la gestione delle immagini. È il momento dove, fra Bologna e Ferrara, si sviluppa una cultura, i cui toni se anche sono quelli di un “rinascimento umbratile” non manca però di valorizzare tutta la tradizione ferrarese e padana, con una mappa che dalla “periferia” afferma i valori cari a Roberto Longhi in aperta polemica con il primato fiorentino, ovvero anche una ricerca libera dalle obbligazioni del viatico veneziano.

Nello stesso periodo anche a Brescia s’impone un tipo umano che aspira a una diversa “autonomia” e la simboleggia nell’immagine di Fortunato Martinengo, rampollo di una delle famiglie aristocratiche più influenti nel Cinquecento; l’emblematicità che assume la sua effigie nel ritratto di Moretto – che tuttavia è stato identificato col Martinengo soltanto verso metà del secolo scorso dopo numerosi tentativi e riconoscimenti con altri personaggi – riguarda anzitutto la posa del braccio che puntella la testa col volto assorto in profondi pensieri tipica del melanconico e la raffinatezza dell’abbigliamento, che ha portato anche a evocare legami pittorici col Lotto; una eleganza che ben corrisponde all’inclinazione di Fortunato per le “lettere”. Egli infatti non seguì né la carriera ecclesiastica, né quella militare, e nemmeno si diede gran daffare per i possedimenti della famiglia: il suo vero interesse si pone nella cultura in senso largo, da quella letteraria alla musica, dalle arti visive alla filosofia e alle opere dello spirito; fu nondimeno un protagonista del confronto all’epoca durissimo fra Riforma e Controriforma sebbene, morendo prematuramente, non potrà vedere la fine del Concilio di Trento e i suoi immediati effetti.


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Maurizio Cecchetti

L'autore di questo articolo: Maurizio Cecchetti

Maurizio Cecchetti è nato a Cesena il 13 ottobre 1960. Critico d'arte, scrittore ed editore. Per molti anni è stato critico d'arte del quotidiano "Avvenire". Ora collabora con "Tuttolibri" della "Stampa". Tra i suoi libri si ricordano: Edgar Degas. La vita e l'opera (1998), Le valigie di Ingres (2003), I cerchi delle betulle (2007). Tra i suoi libri recenti: Pedinamenti. Esercizi di critica d'arte (2018), Fuori servizio. Note per la manutenzione di Marcel Duchamp (2019) e Gli anni di Fancello. Una meteora nell'arte italiana tra le due guerre (2023).




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