Se Giove dipinge farfalle: il dipinto magico di Dosso Dossi


Il “Giove pittore di farfalle”, conservato al Castello di Wawel a Cracovia, è uno dei dipinti più interessanti di Dosso Dossi: un’opera dall’iconografia bizzarra, il cui significato ultimo ancora ci sfugge. Fino a febbraio, l’opera è a Ferrara, Palazzo dei Diamanti, per la mostra sul Rinascimento a Ferrara.

Dosso Dossi aveva una fantasia sconfinata: il suo estro, bizzarro, versatile, ingegnoso, immaginifico è tra i più celebri della storia dell’arte, e pochi nella sua epoca riuscirono ad avvicinarsi alla sua immaginazione visionaria. Un mito, un testo letterario, un episodio biblico diventavano per Dosso Dossi fonte d’innumerevoli spunti, suggestioni, fantasie che riversava sulle sue tele, sulle sue tavole, su tutti i prodotti del suo stravagante pennello. Mauro Lucco lo ha definito un pittore dotato di una “abilità che ha del magico, dello stregonesco”. Un pittore stregonesco: potremmo chiamare così questo artista magico. Vero nome Giovanni Luteri, nacque attorno al 1487, forse a Tramuschio, tra Mantova e Ferrara, o forse a San Giovanni del Dosso, borgo all’epoca noto come Dosso Scaffa (da cui il nome), sempre nei dintorni di Mantova. Niente sappiamo dei suoi primi anni, dato che il primo documento che lo riguarda risale al 1512, e a quell’altezza cronologica era già artista affermato, in grado di ricevere un incarico dal marchese Francesco II Gonzaga. Già l’anno dopo era però a Ferrara, città alla quale fu strettamente legato: fu qui, alla corte degli Este, che Dosso sviluppò il suo estro stregonesco, fu qui che s’immerse nella lettura dei classici e dei contemporanei (Ariosto su tutti), fu qui che il suo pennello s’impregnò di quella cultura cortigiana che fa apparire spesso poco decifrabili i suoi dipinti. Sprezzatura tradotta in immagini. Opere riservate a pochi.

A Ferrara nacquero le sue opere più famose. L’Apollo e la Melissa della Galleria Borghese di Roma, la Psiche abbandonata, il ciclo dell’Eneide e i quadri di “pittura a mandola” tutti eseguiti per Alfonso I, l’Ercole tra i pigmei, forse la Circe della National Gallery di Washington, sicuramente il Giove e Semele ricomparso pochi anni fa sul mercato. E nell’elenco non manca il Giove pittore di farfalle ch’è tra i dipinti più rilevanti dell’intera produzione dossesca, sebbene poco noto perché conservato in un luogo non così abituale per gli appassionati d’arte, ovvero il Castello Reale di Wawel a Cracovia. Il pubblico italiano ha però avuto opportunità di vederlo in qualche occasione: la mostra Dosso Dossi. Rinascimenti eccentrici al Castello del Buonconsiglio, tenutasi a Trento nel 2014 e curata da Vincenzo Farinella, e poi la mostra, sempre del 2014, sugli Este a Venaria Reale curata da Stefano Casciu e Marcello Toffanello e poi, a dieci anni di distanza, la grande mostra Il Cinquecento a Ferrara. Mazzolino, Ortolano, Garofalo, Dosso al Palazzo dei Diamanti di Ferrara, dal 12 ottobre 2024 al 16 febbraio 2025, con la curatela di Vittorio Sgarbi e Michele Danieli.

Il dipinto si trova in Polonia dal 1888, quando un collezionista polacco, Karol Lanckoroński, lo acquistò nell’asta delle opere della collezione dell’austriaco Daniel Penther, tenutasi presso la galleria antiquaria Miethke. Per lungo tempo rimase uno dei vanti della collezione di famiglia sistemata nel palazzo di Jacquingasse a Vienna, dov’esisteva una galleria dedicata alla pittura italiana. Come molti dei beni che appartenevano alla nobiltà polacca, anche il Giove cacciatore di farfalle subì le vicende della seconda guerra mondiale, anche se riuscì a superarle indenne: confiscato dai nazisti all’epoca dell’Anschluss, alla fine del conflitto venne ritrovato dai Monuments man, come tante altre opere d’arte, nella miniera di Altaussee che era stata adoperata come nascondiglio per i tesori che i nazisti avevano saccheggiato durante la guerra. Il dipinto fu così restituito nel 1947 alla famiglia Lanckoroński: il figlio di Karol, Anton, decise di donare l’opera al Kunsthistorisches Museum di Vienna in cambio del permesso di esportare parte delle collezioni di famiglia. Tuttavia, diversi anni dopo, un’erede, Karolina Lanckorońska, riottenne dopo un processo la proprietà del dipinto: una corte stabilì infatti che la donazione di Anton era stata forzata. E per decisione della sua proprietaria, il dipinto, a seguito della fine della contesa legale, venne donato alla collezione del Castello di Wawel. È per queste lunghe vicissitudini storiche che oggi il capolavoro di Dosso Dossi si trova lì.

Giovanni Luteri detto Dosso Dossi, Giove pittore di farfalle (1524 circa; olio su tela, 112 x 150 cm; Cracovia, Castello Reale di Wawel, Collezione Nazionale d'Arte)
Giovanni Luteri detto Dosso Dossi, Giove pittore di farfalle (1524 circa; olio su tela, 112 x 150 cm; Cracovia, Castello Reale di Wawel, Collezione Nazionale d’Arte)

La prima attestazione sicura risale al 1659, quando però l’opera era già lontana da Ferrara: si trovava all’epoca a Venezia, nella collezione del conte Widmann. Qui lo vide, quattro anni più tardi, il letterato Giustiniano Martinioni, che descrivendo le raccolte del nobile disse: “del Dossi si vede un Giove, che dipinge Farfalle, con la Virtù, che chiede audienza, che li viene impedita da Mercurio. La Favola è di Luciano, ma molto ben espressa dal pittore”. È piuttosto sicuro, tuttavia, anche in assenza di documenti certi, che il dipinto, per via soprattutto delle dimensioni e della complessità del soggetto, sia stato eseguito su commissione di Alfonso I d’Este, anche se non sappiamo a quale delle residenze ducali fosse destinato: forse la delizia del Belvedere, come ipotizzato da Vincenzo Farinella, oppure i camerini della Via Coperta, dove avrebbe raggiunto i “9 quadri di pittura a mandola” che Dosso dipinse per la camera da letto di Alfonso I. La cultura che anima questo dipinto è tuttavia indiscutibilmente ferrarese.

Entro un paesaggio boschivo, con un borgo sul fondo (lo si nota in fondo a destra), Giove, sulla sinistra, è intento a dipingere alcune farfalle su di una tela già fissata al cavalletto e già preparata. Sta dipingendo con disinvoltura, con sicurezza: le gambe, appena celate dalla tunica rosso cremisi, sono accavallate, lo sguardo assorto, ispirato, la testa lievemente inclinata a dimostrare concentrazione. I suoi attrezzi del mestiere, ovvero i fulmini, sono posati a terra. Dietro di lui, Mercurio, riconoscibile per via del petaso (l’elmo), del caduceo che tiene nella mano sinistra e dei calzari alati (da notare la bizzarria di Dosso, che ai piedi del dio mette vere ali di colomba), rivolge un gesto arpocratico, un gesto di silenzio, alla giovane dietro di lui, tutta agghindata con ghirlande di fiori. Ancora fino alla fine dell’Ottocento, il testo letterario da cui era tratta questa singolare immagine era attribuito al greco Luciano di Samosata, come si evince anche dalla descrizione di Martinionio. In realtà, la fonte di Dosso Dossi era il dialogo Virtus di Leon Battista Alberti, che faceva parte della raccolta Intercenales. La storia racconta di come la Virtù, ovvero la ragazza raffigurata sulla destra nel dipinto, chieda di essere ricevuta da Giove, in quanto costretta a subire le umiliazioni della Fortuna. Costretta a una lunga, snervante e mortificante anticamera, quando è proprio sul punto di essere accolta da Giove (nessun altro degli dèi l’aveva infatti ricevuta), viene sprezzantemente allontanata da Mercurio, che le intima di fare silenzio perché Giove non è intenzionato a darle ascolto. “Dicono che gli dèi devono far fiorire a tempo le zucche o badare a rendere più variopinte le ali delle farfalle”, dice la Virtù nel testo albertiano. “Ma come, dunque, avranno sempre qualche affare più importante per tenermi fuori e non badare a me? Eppure son fiorite le zucche, volano magnifiche le farfalle, il contadino si è dato cura che le zucche non muoiano di sete, ma io non sto a cuore né agli dèi né agli uomini”.

La favola è nient’altro che una metafora per sottintendere che la virtù non viene coltivata quando ci si dedica ad attività frivole, ma in realtà alcuni elementi allontanano il dipinto di Dosso Dossi dal testo di Leon Battista Alberti. L’artista avrebbe poi realizzato, verso il 1531, un altro lavoro sullo stesso tema, per il cardinale Bernardo Clesio nel Castello del Buonconsiglio a Trento: qui però la scena, più aderente al testo, è diversa. Vale a dire che Giove non si vede nel dipinto, e la Virtù è raffigurata in posizione da supplice, salvo vedersi chiudere in faccia la porta della reggia dell’Olimpo da Mercurio. La libera interpretazione di Dosso Dossi rispetto alla fonte letteraria ha dunque ragionevolmente indotto gli studiosi a interrogarsi sul significato dell’allegoria, poiché l’elemento di Giove che dipinge farfalle è frutto della sconfinata, strampalata, visionaria fantasia dell’artista. Uno dei più grandi storici dell’arte di sempre, Julius von Schlosser, scrisse, già nel 1900, che non serviva darsi troppa pena per capire il motivo per cui Dosso si fosse preso tutta questa libertà: esattamente come i poeti, anche gli artisti fanno uso della loro immaginazione, e il riferimento alle farfalle nel testo albertiano sarebbe stato sufficiente a ispirare l’assurdo ritratto di Giove come pittore. Molti anni più tardi, nel 1978, la sua idea sarebbe stata accolta da Paul Barolsky, secondo il quale sarebbe rischioso cercare di attribuire un significato eccessivamente intellettuale al Giove pittore di farfalle, da leggere semmai come un saggio della giocosità e della fantasia di Dosso Dossi. Molti, tuttavia, continuano a cercare il senso dell’opera, insoddisfatti dell’idea di ritenerla soltanto un parto fantasioso fine a se stesso. Qual è dunque il significato del dipinto?

Giove
Giove
Mercurio
Mercurio
La Virtù
La Virtù
Il paesaggio
Il paesaggio
L'arcobaleno
L’arcobaleno
Dosso Dossi, Mercurio e la Virtù (1531 circa; affresco; Trento, Castello del Buonconsiglio)
Dosso Dossi, Mercurio e la Virtù (1531 circa; affresco; Trento, Castello del Buonconsiglio)

Nel 1964, Friderike Klauner ritenne d’individuare in Giove l’allegoria della creatività, in Mercurio l’allegoria del mecenatismo e nella Virtù la capacità degli esseri umani di resistere alla fortuna. In questo senso, a Mercurio spetterebbe il ruolo centrale nel dipinto: è lui infatti che protegge l’artista dai possibili rovesci a cui la virtù può andare incontro. Secondo Jan Ameling Emmens si tratta invece di una mera satira politica, relativa a fatti occorsi nel 1529 (per i quali occorrerebbe dunque ammettere una datazione piuttosto tarda del dipinto, ultimamente riferito invece a un periodo attorno al 1524): si tratterebbe in questo caso di un’allegoria del comportamento, giudicato pavido, di Francesco I di Francia nei confronti dell’alleato ferrarese. In questo caso, Francesco I sarebbe simboleggiato da Giove, che non presta ascolto all’alleato (la Virtù, simbolo di Ferrara), cacciata indietro da un cortigiano (Mercurio). Maurizio Calvesi, nel 1969, propose di leggere nel dipinto un’analogia tra pittura e alchimia: fu poco seguito. Nel 1982, Gottfried Biedermann suggerì di leggere nel dipinto un’allegoria della Primavera: la figura femminile sarebbe quindi Flora, dea della bella stagione. Ancora, nel 1984 André Chastel propose di identificare la giovane con la Retorica, per via delle sue ghirlande di fiori, elemento spesso associato a questa arte. L’eloquenza, secondo questa lettura, cercherebbe d’imporsi sull’arte (Giove), ma Mercurio, che in questo caso assume i panni di Arpocrate, dio del silenzio, le intima di non intromettersi con l’arte silenziosa della pittura, che riesce a ottenere miracoli straordinari senza l’uso della parola. Dosso Dossi, secondo Chastel, avrebbe dunque affrontato a suo modo il tema del paragone delle arti, la sfida, che impegnò molti intellettuali del Cinquecento, su quale fosse la prima delle arti. Nel 1992, Giorgia Biasini riprese la lettura di Chastel aggiungendo alcuni elementi: la donna, a suo avviso, potrebbe essere identificata come Iride, la dea dell’arcobaleno (che infatti compare nel paesaggio). In Giove si potrebbe invece riconoscere, per via della sua elevata caratterizzazione, un ritratto di Alfonso I, il probabile committente dell’opera, che verrebbe dunque celebrato qui come un patrono delle arti.

Più tardi, nel 1998, Luisa Ciammitti notò come il monocromo del Buonconsiglio abbia un andamento più spiccatamente narrativo rispetto al dipinto polacco, e suggerì che la tela andrebbe messa in relazione a un influente volume di Andrea Alciati, l’Emblematum Liber, pubblicato nel 1531, ma che comunque circolò in altre forme già a partire da una decina d’anni prima. Secondo Ciammitti, Dosso Dossi avrebbe puntualmente ripreso alcuni degli elementi che si trovano nelle descrizioni allegoriche di Alciati, senza però offrire nuove letture dell’iconografia complessiva. Tra le proposte più recenti, quella di Giancarlo Fiorenza (2008), che torna ad affrontare il tema della giovane come allegoria della Primavera (nello specifico, tuttavia, la fine della Primavera, e per questa ragione sarebbe triste). Mercurio, col suo gesto, si occupa di zittire la primavera per consentire il transito verso l’estate: è il simbolo del mese di maggio. Giove, infine, impersonerebbe l’estate, e più nello specifico il mese di giugno, associato alle farfalle. Secondo Marco Paoli, le farfalle sarebbero da leggere anch’esse in senso allegorico, come tradizionale simbolo dell’anima, e in particolare come “anima liberata dal corpo da parte del sonno o della morte”: Giove infatti è raffigurato a occhi chiusi. Giove, in sostanza, starebbe sognando: secondo questa lettura, dunque, Mercurio lo proteggerebbe dal risveglio, provocato dalla presenza della donna, identificata in questo caso come l’Aurora. Il dio, insomma, proibisce all’Aurora di rischiarare il cielo e di svegliare Giove. Riprendendo questa lettura, nel 2015 lo studioso polacco Marcin Fabianski ha stabilito una curiosa connessione cinquecentesca tra... Ferrara e Cracovia: nel 1518, infatti, Sigismondo il Vecchio sposò a Cracovia la duchessa di Bari, Bona Sforza, figlia del duca di Milano, Gian Galeazzo Sforza. Il re di Polonia aveva dunque sposato la nipote di Anna Maria Sforza, che era stata moglie di Alfonso I fino alla sua morte occorsa nel 1497. In occasione di questo matrimonio, l’umanista Kaspar Ursinus Velius organizzò una contesa poetica tra Polonia e “Resto del mondo”, diremmo oggi. In questo contesto, lo stesso Ursinus scrisse una poesia in cui paragonava Sigismondo a Giove, raccontando di come Mercurio avesse destato il re dal sonno inondando la camera della luce portata dall’Aurora. Secondo Fabianski, quest’idea venne portata a Ferrara da Celio Calcagnini, umanista e diplomatico della corte estense, e avrebbe stuzzicato in qualche modo la fantasia di Dosso.

Piuttosto articolata un’altra lettura recente (2014), quella di Vincenzo Farinella, che suggerisce di concentrare l’attenzione sull’arcobaleno alle spalle di Giove, “che andrà inteso”, scrive, “non come un attributo del dio, un segno astrologico, un simbolo di pace o un semplice evento meteorologico, ma come la raffigurazione di quei ‘fenomeni’ celesti che, secondo Filostrato, ‘dipingono’ la volta cava del cielo”. Dunque, a un primo livello di significato, “ci troviamo di fronte ad una vera e propria glorificazione dell’arte pittorica, tramite l’assimilazione del pittore con la somma divinità pagana”. Con Farinella concorda anche, nel catalogo della mostra Rinascimento a Ferrara, Marialucia Menegatti: “Il Giove, criptoritratto di Alfonso, va senz’altro letto come un elogio dell’arte pittorica e nello stesso tempo come una giustificazione degli interessi del duca, appassionato di arti fabbrili e, stando alle fonti antiche, egli stesso pittore”. Come del resto aveva già sottolineato Farinella, “le fonti non solo sottolineano le sue particolarissime abitudini al lavoro manuale nei laboratori fatti appositamente costruire a palazzo, dove Alfonso poteva mettere alla prova le sue capacità di fondere i metalli, lavorare il legno al tornio, modellare ceramiche d’argilla, ma accennano anche al desiderio del Duca di dipingere in prima persona, giacché nel 1493, quando aveva diciassette anni, aveva chiesto all’ambasciatore estense a Venezia di recuperare colori di grande qualità”. Insomma, una grande allegoria dell’otium cui il duca si concedeva per potersi dedicare anche a quelle attività alchemiche che lo appassionavano. L’arcobaleno, in questa lettura, diventa ponte tra cielo e terra, le farfalle sono le sostanze create dall’alchimista, e Mercurio la divinità che presiede all’alchimia, tenendo l’alchimista (il Giove-sovrano) lontano dai tormenti della virtù, che lo richiama ai suoi impegni.

Al di là delle varie interpretazioni, nessuna delle quali ha mai comunque chiarito il significato ultimo del dipinto, che rimane ancora lontano dall’essere sciolto (e probabilmente mai lo sarà), il Giove pittore di farfalle di Dosso Dossi conserva intatto il suo fascino. L’opera rimane, intanto, un esemplare saggio del virtuosismo tecnico di Dosso Dossi che modella le sue figure con un sottile sfumato, si prodiga in eccellenti brani di controluce (si guardi la stessa figura di Giove), dona al riguardante sensazioni tattili nel rendere le vesti (si osservino le pieghe sgualcite della veste della Virtù), sempre nelle vesti si diverte con abili cangiantismi, dipinge il paesaggio ricordandosi della sua passione per la pittura di Giorgione. Si può datare l’opera, secondo la critica più aggiornata, a un periodo attorno al 1524 perché il Giove pittore di farfalle è un dipinto che segna l’apice della prima fase della carriera di Dosso, ma si pone al di qua dell’arrivo di Giulio Romano a Mantova, che avrà un impatto sull’arte del suo collega attivo a Ferrara, ancora non riscontrabile nel dipinto polacco. E poi, l’incanto di questo dipinto risiede non solo nel suo singolare soggetto, affrontato con singolare maestria da Dosso Dossi, ma anche nello stesso enigma che l’opera racchiude. E che non è disposta a svelare. Per queste ragioni siamo portati a considerarlo un dipinto magico come pochi altri.


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