L’anno che Genova ha votato all’arte barocca, favorendo diverse mostre di notevole spessore in città e fuori (varrà la pena menzionare almeno il progetto Superbarocco alle Scuderie del Quirinale di Roma, la mostra su Domenico Parodi a Palazzo Nicolosio Lomellino, tanto rigorosa quanto innovativa, e il programma I protagonisti che s’è tenuto in tutto il capoluogo ligure, culminando con la mostra La forma della meraviglia a Palazzo Ducale), continua a offrire a grande pubblico, appassionati e studiosi nuove e rare occasioni d’approfondimento. Mentre in città cominciava una nuova edizione dei Rolli Days, l’ormai tradizionale manifestazione che apre a tutti le porte degli antichi palazzi della Repubblica di Genova, nelle sale di Palazzo Negrone apriva la mostra Senza Tempo. Dialogo tra Fiasella e i pittori di Palazzo Negrone, rassegna che dà avvio alle attività di Goldfinch Fine Arts, nuova e giovane galleria specializzata in arte italiana ed europea tra Cinque e Settecento, con sede nel Palazzo di Lazzaro e Giacomo Spinola. Per presentarsi a pubblico e addetti ai lavori, i titolari di Goldfinch, Luigi Pesce e Clemente Zerbone, hanno scelto una partenza di altissimo profilo: una mostra ridotta nelle dimensioni ma di elevato spessore scientifico, che s’avvale della presenza d’opere mai esposte prima al pubblico e di alcune novità, e che ruota attorno al ritrovamento d’un quadro di Domenico Fiasella, la Morte di Adone, notissimo all’epoca in cui fu eseguito, ma del quale s’erano da tempo perse le tracce.
Il lavoro di Pesce e Zerbone, coadiuvati da un’équipe d’esperti del Seicento genovese (Piero Boccardo, Gabriele Langosco, Giacomo Montanari, Tiziana Zennaro), ha portato all’individuazione del dipinto e all’allestimento d’una mostra utile per approfondire ulteriormente ruolo e rapporti del grande pittore sarzanese, protagonista in passato di due notevoli mostre monografiche curate da Piero Donati, ovvero quella di Genova del 1990 e quella di Sarzana del 2008, grazie alle quali è stata definitivamente messa in luce la rilevanza di Fiasella per le vicende artistiche e culturali della sua epoca, specialmente in quanto fondamentale tramite in Liguria delle novità che s’andavano delineando nella Roma dei primi anni del secolo XVII. Il ritrovamento della Morte di Adone ha fornito lo spunto per un’esposizione che, pur nelle dimensioni ridotte d’un evento che allinea dodici dipinti su tre sale, si sviluppa attraverso intrecci intriganti: i rapporti di Fiasella con la committenza Centurione, per la quale era stata dipinta la Morte di Adone, e poi la sua attività di frescante valutata a confronto con quella di Giovanni Battista Carlone ch’è autore degli affreschi della galleria di Palazzo Negrone e del quale la mostra presenta tre interessanti dipinti, disposti proprio sotto il soffitto da lui dipinto, per continuare con un affondo sulle personalità di Gioacchino Assereto e di Giovanni Maria Bottalla, autori della decorazione del salotto del piano nobile di Palazzo Negrone, e anch’essi presenti in mostra con opere rare e mai presentate prima al pubblico.
La mostra prende le mosse proprio dal ritrovato quadro di Fiasella: notissimo alle fonti (nelle Vite di Raffaele Soprani è la Venere piangente per la sgratiata morte del suo diletto Adone) e agli studiosi (basterà menzionare il suggestivo saggio di Franco Vazzoler che, nel catalogo della mostra del 1990, lo citava mentre cercava di ricostruire, basandosi sulle descrizioni antiche, l’aspetto di un’altra tela Centurione dispersa, avente per soggetto Venere e Marte), e pubblicato per la prima volta nel 1995 da Mary Newcome-Schleier, era stato dipinto per Agapito Centurione probabilmente dopo il 1626, forse in occasione del matrimonio tra il committente e Geronima Imperiale, come argomenta il giovanissimo e promettente studioso Gabriele Langosco nella scheda. L’immagine coincide perfettamente con la descrizione che compare in un inventario del 1707 della collezione di Cristoforo Centurione, in cui si parla d’una “favola d’Adone trafitto, e disteso in terra alla bocca d’una grotta col cane appresso, Venere svenuta, e sostenuta da due donne, e un putto nudo appresso, che porge l’acqua in una scudeletta, e Cupido, che porge in atto d’essibire alcuni fiori ad una delle due donne”. È da segnalare l’esistenza di un dipinto identico a quello esposto a Palazzo Negrone, ma di qualità nettamente inferiore, conservato al Museo Nazionale di Varsavia, dov’è catalogato con generosa attribuzione ad Alessandro Turchi (è peraltro già accaduto in passato che l’Orbetto e il Sarzana venissero confusi: è il caso del Sansone e Dalila del Louvre, opera sulla cui autografia fiasellesca oggi non sussiste più alcun dubbio). Il ritrovamento di cui la mostra genovese dà conto non può dunque far altro che comportare la conseguente assegnazione dello status di copia al dipinto polacco. Una copia, occorre aggiungere, di dimensioni simili a quelle citate nell’inventario, che corrispondono a circa 161 x 242 cm, e una copia comunque di buon livello, come attestano i cangiantismi dei drappeggi e alcuni passaggi chiaroscurali delle figure in primo piano, e con qualche variazione rispetto all’opera di Palazzo Negrone (il drappo su cui siede Venere per esempio subisce un cambiamento di colore), e che di conseguenza assume una grande rilevanza poiché diventa un ineludibile certificato della fama di cui il dipinto di Fiasella dovette godere in tempi antichi.
Langosco definisce il dipinto un “vertice assoluto nella produzione di Fiasella”: merito dei fini trapassi di luce, delle sapienti trasparenze del velo che avvolge il corpo nudo di Venere, della forza del chiaroscuro, oltre che della coinvolgente orchestrazione della composizione, costruita con spiccata verve narrativa. Il ritrovamento di questo “vertice assoluto” ha anche fornito l’occasione per una ricerca sulla collezione di Agapito Centurione e di suo figlio Cristoforo, un tempo custodita nel palazzo di famiglia nell’attuale via del Campo, e successivamente dispersa: una quadreria che, come ha ricostruito Piero Boccardo nel suo saggio in catalogo, venne avviata da Agapito probabilmente sempre a seguito del suo matrimonio (il suocero, Giovanni Vincenzo Imperiale, fu tra i maggiori collezionisti della Genova del suo tempo), che inizialmente si limitò soprattutto a opere d’importanti maestri locali, e che fu poi ampliata in modo deciso da Cristoforo. Alla scomparsa di questi, la quadreria contava circa duecento dipinti: oltre alle tele di Fiasella, si contano quadri di Antoon van Dyck, di Giovanni Battista Castello, di Giulio Cesare Procaccini, di Valerio Castello, di Bernardo Strozzi. Per esempio, Boccardo identifica nella Carità di Bernardo Strozzi conservata oggi a Palazzo Bianco un dipinto menzionato nell’inventario Centurione del 1707, così come viene suggerito d’identificare il Ritratto di giovane dama di Van Dyck oggi alla Frick Collection di New York con la “dama vestita all’antica” di cui parla il documento.
Il dipinto di Fiasella è esposto nel salotto affrescato da Bottalla e Assereto, dove giunge anche una Cena in Emmaus tuttora disputata tra Gioacchino Assereto (a cui fu data già da Roberto Longhi, attribuzione accettata in maniera quasi unanime) e Orazio de Ferrari, alla cui mano la tela era ascritta in precedenza, e al quale la attribuisce Piero Donati, che peraltro proprio quest’anno ha dedicato a Orazio de Ferrari un’interessante mostra di dipinti poco noti o di collezioni private, tenutasi all’Accademia Ligustica di Genova. Le proporzioni massicce, la pennellata greve e corposa, i toni terrosi, e financo i connotati (alla mostra della Ligustica veniva presentata una Testa di santo molto simigliante al pellegrino di sinistra) in effetti ben s’attagliano alla produzione del pittore di Voltri, mentre a favore dell’attribuzione a Gioacchino Assereto vengono chiamate in causa da Tiziana Zennaro la tensione espressiva e l’economia del gesto che avvicinano il quadro alla fase estrema della produzione del genovese, oltre alle somiglianze coi tipi di altri dipinti, per esempio il Cristo che compare nel Transito di san Giuseppe di Collezione Carige: è comunque indubbiamente uno dei dipinti più affascinanti della mostra. Un fascino diverso emana invece il Prometeo di Giovanni Maria Bottalla, opera comparsa nel 2017 sul mercato antiquario (in un’asta di Boetto, scheda di Anna Orlando) e ora esposta per la prima volta al pubblico: è il fascino dell’eccezionalità, poiché rare sono le opere di questo singolare pittore savonese, noto soprattutto per due grandi tele esposte in quella ch’è di fatto la sala conferenze della Pinacoteca Capitolina di Roma, il Giuseppe venduto dai fratelli e l’Incontro tra Esaù e Giacobbe. La tela esposta a Genova, secondo Tiziana Zennaro, è vicina al Giuseppe venduto dai fratelli e s’impone all’attenzione del visitatore con le due corpulente figure, quella di Prometeo e dell’uomo cui dà vita (di grande effetto la diversa consistenza dell’epidermide dell’uomo, che pulsa di colori vivi dov’è più vicina al fuoco del creatore), che occupano tutta la composizione e che, pregne di suggestioni romane, a cominciare da Pietro da Cortona e Andrea Sacchi, ci riportano a quelle dipinte nella volta del salotto in collaborazione con Gioacchino Assereto.
Ulteriori confronti vengono stabiliti tra Giovanni Battista Carlone, di cui la mostra espone un Giuseppe che spiega i sogni al faraone e il Ritrovamento della tazza nel sacco di Beniamino, e lo stesso Fiasella, presente a fianco di Carlone con la Partenza e il Ritorno del figliol prodigo, dipinti pubblicati nel 2018 da Marco Franzone e Giacomo Montanari, di qualità inferiore rispetto alla Morte di Adone che il pubblico vede nel salotto, e dunque eseguiti col concorso della bottega, benché l’originalità dell’invenzione e certi passaggi, come la “la ricca pellicola pittorica, i morbidi trapassi di luce e i volumi compatti delle figure” menzionati da Langosco, lascino intravedere la mano del maestro. I dipinti di Carlone vengono accostati in catalogo da Montanari ai dipinti della volta della galleria Negrone, sotto alla quale vengono esposti: prova ne sono “la carica espressiva degli incarnati e lo squillar delle tinte”, oltre alla “preziosità cromatica e materica” e alle somiglianze fisiognomiche. Il confronto ideale tra Carlone e Fiasella, come s’è accennato, riguarda anche le loro attività di frescanti, e a questa sorta di tenzone è dedicata parte d’un corposo saggio di Montanari, che muovendo dalla definizione longhiana di “mediocrissimo frescante” affibbiata a Fiasella (e nei riguardi della quale lo storico dell’arte genovese sottolinea giustamente che per il sarzanese l’affresco non costituiva attività dominante nell’economia complessiva del suo lavoro), rammenta come i due, che furono tra i pittori più eminenti della Genova del tempo, si fossero spartiti il mercato: a Fiasella rimase la leadership della pittura su cavalletto, mentre invece Carlone, forte anche dell’esperienza del fratello maggiore Giovanni, impostò, scrive Montanari, “una linea di produzione ‘seriale’ estremamente efficace e redditizia”, che non gl’impedì di “acquisire quelle caratteristiche di sguardo verso il naturale, di caratterizzazione nel disegno e di robustezza nel colore” che s’ammirano anche negli affreschi di Palazzo Negrone e nei dipinti in mostra, e gli garantirono, da metà del Seicento in avanti, una sorta di monopolio del mercato genovese della pittura ad affresco, almeno fino a quando emerse l’astro di Domenico Piola, l’unico che sarebbe stato in grado di contendergli il primato.
La mostra di Palazzo Negrone concede il tempo per ammirare un’ultima, rara tela di Domenico Fiasella, il Commiato di Ettore, comparsa sul mercato nel 1991 e pubblicata da Alessandro Morandotti quattro anni più tardi, per poi tornare indisturbata nella collezione privata che la ospita: anche per questo dipinto, Senza tempo rappresenta la prima occasione d’esposizione pubblica. Il soggetto non è dei più frequenti, e anche per la possibilità d’ammirare una testimonianza di questa iconografia la mostra val bene una visita: raffigura il momento in cui l’eroe troiano Ettore s’accomiata dalla moglie Andromaca, in lacrime in quanto presaga del di lui destino, prima di partecipare allo scontro finale col rivale Achille. Sulla base di tangenze stilistiche con le opere dipinte da Fiasella per Ansaldo Pallavicino, Langosco situa il Commiato di Ettore negli anni Quaranta del Seicento, evidenziando il trattamento dei volti maschili, connotato da “una pennellata corposa e fratta, che si fa liquida e sciolta nella definizione delle chiome”, e che richiama la stessa pennellata libera e grassa di artisti come Luciano Borzone e Orazio de Ferrari.
La visita termina con altre quattro rare opere dei protagonisti della mostra. Si comincia ammirando l’immagine imperiosa, acre e severa del Lamba Doria di Gioacchino Assereto, ritratto ideale del condottiero distintosi nel XIII secolo per la vittoria sui veneziani nella battaglia della Curzola del 1298: altra opera proposta per la prima volta al pubblico, in antico faceva parte d’un ciclo di ritratti degli antenati della famiglia Doria nel quale s’annoveravano anche il ritratto di Oberto Doria e quello di Pagano Doria. Quello di Lamba è però secondo Tiziana Zennaro il più intenso e meglio conservato: è stato peraltro restaurato giusto quest’anno, da Antonio Silvestri. Di Giovanni Battista Carlone è possibile vedere un Tobia che restituisce la vista al padre, interessante opera giovanile del pittore che si sarebbe poi specializzato nella pittura su parete: la collocazione temporale è anche qui su base stilistica, e la memoria in questo caso ricorre all’omologa tela di Palazzo Bianco, in cui la scena è identica a quella che Carlone riprende in questa di collezione privata, sebbene quest’ultima appaia con un taglio diverso, ovvero con mezze figure invece che con figure intere come nel quadro dei Musei di Strada Nuova. Si chiude, infine, con due vertici della produzione di Assereto, il Marsia scorticato da Apollo e la Medea che ringiovanisce Esone: la mostra è occasione per vedere due acuti del pittore genovese, simili per temperamento, scioltezza, tonalità e potenza visiva (e, nel caso del Marsia, anche per tipi facciali) a uno dei capolavori di Assereto, la Morte di Catone conservata anch’essa a Palazzo Bianco.
Chi vorrà visitare la mostra, dovrà affrettarsi: per ragioni organizzative, la durata è di una sola settimana, dal 15 al 23 ottobre, e trattandosi di un evento che, per quanto accessibile al pubblico, è comunque di carattere privato, è obbligatoria la prenotazione scrivendo una mail all’indirizzo info@goldfinchfinearts.com. Chi invece non potrà o non riuscirà, potrà comunque contare sul corposo catalogo, che merita una menzione particolare anche perché è fatto raro che una galleria esordiente si proponga per la prima volta a pubblico e addetti ai lavori con una pubblicazione solida e densa come quella che accompagna Senza tempo. Se questa è dunque la qualità del debutto, da una galleria che, come Goldfinch Fine Arts, si presenta al mondo con un ritrovamento estremamente significativo, con una rassegna di opere rare e importanti, con un catalogo tanto fitto, avvalendosi della collaborazione di alcuni tra i principali esperti del periodo di riferimento, e offrendo al pubblico la possibilità d’ammirare lavori raramente accessibili e per di più inseriti in un dialogo convincente e fecondo con il contesto che li ospita, le aspettative per il prosieguo delle attività della giovane galleria genovese non possono che essere alte. Esordio dunque promosso a pieni voti, con la certezza che il mondo dell’arte antica s’è arricchito d’una nuova realtà che saprà continuare a distinguersi in futuro, fornendo spunti di lavoro e riflessione e materia per far progredire le conoscenze, esattamente com’è stato per Senza Tempo, mostra che con eleganza e rigore ci consente d’estendere ulteriormente lo sguardo sull’anno del barocco genovese.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).