Chi frequenta abitualmente Genova e conosce i suoi tesori avvertirà di sicuro una sensazione insolita, appena entrerà alle Scuderie del Quirinale per immergersi nel Superbarocco genovese, come da titolo della rassegna che allinea, di fronte alla presidenza della Repubblica, alcuni dei frutti più deliziosi e brillanti di quella feconda stagione, durata più d’un secolo, che rese Genova una delle più splendide capitali mondiali dell’arte. Il titolo, solo apparentemente pop e poco meditato, gioca sulla crasi tra la definizione, celebre fino ad arrivare allo stereotipo, che Petrarca adoperò nel suo Itinerarium per descrivere Genova (“una città regale, addossata a una collina alpestre, superba per uomini e per mura, il cui solo aspetto la mostra essere signora del mare”), e l’eccezionalità del materiale raccolto. Ed è di fronte ai pezzi che i curatori Jonathan Bober, Piero Boccardo e Franco Boggero hanno radunato alle Scuderie che si percepisce un senso di straniamento, se si è da tempo accostumati a vedere quelle opere tra le chiese, i palazzi e i musei della loro città, talvolta entro i loro contesti originari. È come vedere un gruppo d’amici, attaccatissimi alla loro città, in gita a Roma, e incontrarli alle Scuderie è come ritrovarsi con loro in trasferta: mi si passi il paragone più che triviale, ma sincero.
I curatori di Superbarocco sono stati però estremamente attenti non solo a raccogliere una selezione ben rappresentativa di ciò che son state le arti a Genova dal primo Seicento fino alla metà del Settecento (l’orizzonte temporale della rassegna spazia tra le visite di Rubens a Genova, la prima delle quali rimonta al febbraio del 1604, e la morte di Alessandro Magnasco nel 1749), ma anche a non lasciare sguarnita la città di provenienza: intanto, perché è vero che alle Scuderie s’ammirano alcune pietre miliari, ma i curatori hanno operato facendo sì che Genova non rimanesse spoglia di testimonianze altrettanto fondanti. E poi, perché sulle rive del mar Ligure è stato allestito un pendant di Superbarocco, la mostra di Palazzo Ducale intitolata Le forme della meraviglia, che ha fatto giungere in città opere rare da vedere, o perché nascoste in collezioni private, o perché conservate in posti lontani. E allora, se il Sant’Ignazio di Rubens s’è temporaneamente spostato a Roma, la Circoncisione è rimasta al suo posto. Se il Trattenimento in un giardino d’Albaro di Magnasco è andato alle Scuderie del Quirinale, a Palazzo Ducale sono arrivate due opere fondamentali del suo percorso, i galeotti di Bordeaux e i frati di Bassano. Per un Giovanni Andrea De Ferrari che parte, l’Ebbrezza di Noè dell’Accademia Ligustica, ce n’è uno che arriva (e che arrivo: l’Abramo del Saint Louis Art Museum prestato a Genova è uno dei suoi migliori lavori). E a Genova sono pervenute anche alcune opere addirittura più importanti di quelle che si trovano a Roma: si pensi ai quadri del Ringling Museum di Domenico Fiasella. E poi, in tutta la Liguria è partito un ricco palinsesto di mostre tese ad approfondire il periodo del Superbarocco, e capaci di spingere a ripetuti ritorni. In definitiva, un importante progetto scientifico per fare il punto sul Seicento genovese, un grande e diffuso strumento di divulgazione, che pur essendosi ritrovato monco, causa misure di contenimento pandemia, della sua prima tappa, la mostra Superb Baroque che esportava opere e gioco di parole alla National Gallery di Washington, museo assieme al quale è stata costruita l’esposizione romana, rimangono comunque un lavoro di gran qualità e un catalogo, quello della mostra statunitense cancellata, a dar conto di ciò che il pubblico avrebbe visto di là dall’oceano.
Il progetto, spiegano i curatori, nasce anche dalla constatazione che siano stati pochi, nella storia, gli studiosi non genovesi a occuparsi di Seicento genovese, e che poche sian state le occasioni di far conoscere questo patrimonio fuori dal suo ambito territoriale: l’ultima mostra sul tema s’è tenuta nel 1992 a Francoforte (Kunst in der Republik Genua 1528-1815). D’altro canto, è pur vero che gli studî locali sulle arti a Genova nel secolo XVIII sono stati densi e pregni di risultati d’alto livello: ai nomi di grandi studiosi come Ezia Gavazza ed Ennio Poleggi, giusto per enumerare i primi due che sovvengono alla mente, si sono aggiunte negli anni generazioni di studiosi più giovani (alcuni dei quali hanno collaborato alla realizzazione di Superbarocco), e una classe di giovanissimi si sta formando con la stessa passione, trascinata anche dalle tante iniziative (sarà sufficiente menzionare i Rolli Days) e dalle tante mostre che, negli ultimi anni, han fatto notevolmente progredire le conoscenze sul periodo (le monografiche su artisti come Domenico Fiasella, Luciano Borzone, Sinibaldo Scorza, Domenico Piola, Anton Maria Maragliano, Alessandro Magnasco e via enumerando, e poi ancora le piccole ma densissime mostre-focus di Palazzo Spinola, quelle di Palazzo Nicolosio Lomellino e molte altre). C’è dunque a Genova, e da anni, un fortissimo fermento, che ha condotto a risultati tangibili: i più evidenti sono la vasta produzione scientifica e divulgativa (monografie, cataloghi, libri, saggi, articoli) nata sul Seicento genovese e, elemento che certo non guasta, i numeri dei viaggiatori che arrivano a Genova apposta per vedere le opere del Siglo de los genoveses. Oggi, questa stagione prosegue dunque con un progetto internazionale d’ampio respiro, che di sicuro non potrà che far espandere la platea degli estimatori delle arti secentesche di Genova, e che pone le basi per un allargamento della comprensione del Barocco genovese che, scrivono i curatori nelle premesse del catalogo, “non è stato quasi mai abbastanza compreso o apprezzato”.
L’inizio della mostra, esplosivo, prende le mosse da una sala che affianca due capolavori di Rubens (i Miracoli di sant’Ignazio dalla chiesa del Gesù e il Ritratto di Giovan Carlo Doria a cavallo da Palazzo Spinola) al Sacrificio di Isacco di Orazio Gentileschi, e a due dipinti, un’Estasi della Maddalena di Giulio Cesare Procaccini e un San Sebastiano curato da sant’Irene di Simon Vouet, che dichiarano subito da dove arriva parte delle opere in mostra, oltre che da Genova (ovvero da collezioni private, come il dipinto del francese, e dagli Stati Uniti, come la tela di Washington). È un esordio che comunica subito al visitatore una delle caratteristiche tipiche del Barocco genovese: il fatto che fu aperto al mondo e risentì di lezioni provenienti da diverse parti d’Italia e d’Europa. Come la maniera emiliana del Cinquecento aveva assunto una dimensione internazionale dagli scambî tra gli artisti attivi tra Parma e Bologna che lavorarono in Francia e i francesi che diffusero in Italia le novità di Fontainebleau, così il Seicento genovese trasse linfa vitale dai fiamminghi che sostavano in città (alcuni di loro, come Cornelis de Wael, si sarebbero poi qui stabiliti), dai caravaggeschi di passaggio a Genova (anche Caravaggio in persona, peraltro, soggiornò in città), dagli stessi genovesi ch’erano stati a Roma e avevano riportato in Liguria le novità apprese in terra pontificia. L’arrivo di Rubens, in particolare, fu sconvolgente: “il contrasto con lo stile locale dominante, piuttosto astratto e omogeneo”, scrive Bober nel catalogo, “era davvero grande”, tanto che “i colleghi genovesi a malapena seppero reagire e nessuno di loro lo seguì in senso stretto, anche se col tempo alcuni assimileranno aspetti specifici del suo stile”. È vero che non si registrano strettissimi seguaci di Rubens a Genova, ma è altresì vero che tutti si resero conto, prosegue Bober, “della grandiosità dei suoi dipinti, del dinamismo e dell’immediatezza con cui colpivano i sensi dell’osservatore”: i Miracoli di sant’Ignazio e lo stesso ritratto di Giovan Carlo Doria sono due manifesti di questo turbine di novità che da Anversa arrivava in Liguria.
Se la prima sala raduna artisti di diverse esperienze, ma accomunati dal fatto d’esser tutti “foresti” (ai nomi sopra elencati converrà poi aggiungere almeno quello del viterbese Bartolomeo Cavarozzi, non presente in mostra, ch’ebbe un ruolo non secondario nella diffusione delle istanze caravaggesche a Genova, un ruolo ch’è stato al centro d’una delle mostre d’approfondimento di Palazzo Spinola di cui si diceva), nella seconda si comincia a vedere l’effetto che la lezione dei maestri stranieri produsse sulla scuola locale: vengon dunque presentati due artisti, Bernardo Strozzi e Gioacchino Assereto, piuttosto distanti nel tempo essendo separati da una differenza d’età di diciott’anni, ma che ben trasmettono la reazione di Genova al caravaggismo importato da Gentileschi e dai liguri ch’eran stati a Roma a partire, per esempio, dal sarzanese Fiasella, molto vicino al Merisi nella prima parte della sua carriera. Il tema della ricezione del caravaggismo a Genova era stato affrontato in maniera approfondita da una grande mostra, L’ultimo Caravaggio, che si tenne nel 2018 alle Gallerie d’Italia di Milano, e dov’eran presenti sia Strozzi sia Assereto. Il problema del caravaggismo di Strozzi ha riempito pagine molto interessanti degli studî sul Barocco genovese, e se Franco Renzo Pesenti inseriva lo tra quanti eran stati responsabili del “primo momento del caravaggismo a Genova”, Alessandro Morandotti riteneva invece ben più decisivo l’ascendente che Giulio Cesare Procaccini aveva esercitato sul Cappuccino, mentre i modi caravaggeschi riguardavano per lo più gli aspetti esteriori. Alle Scuderie del Quirinale s’insiste di nuovo sulla sua “impronta marcatamente caravaggesca”, ricordando anche il fatto che Strozzi copiò opere di Caravaggio, per quanto l’artista avrebbe poi virato verso l’arte fiamminga. Comunque la si voglia pensare, il risultato è una sintesi fortemente personale: si veda la Madonna col Bambino e san Giovannino di Palazzo Rosso, col brano di natura morta in basso a destra che richiama il miglior Caravaggio, e con le tipiche figure piene e arrossate che comunicano la profonda meditazione dell’artista sulla lezione del tardo Cinquecento toscano, a cominciar da quella del suo maestro, Pietro Sorri. Spunti di teatralità lombarda impregnano il caravaggismo di fondo di Gioacchino Assereto, tra i più “realistici” dei pittori genovesi del primo Seicento: lo dimostra l’Alessandro e Diogene in arrivo dalla Gemäldegalerie di Berlino e forse lo dimostra ancor di più la Morte di Catone che s’incontra nella quinta sala, opera più tarda, che risente della conoscenza degli effetti luministici di Matthias Stomer, artista che a Genova, volendo ancora seguire Morandotti, avrebbe prodotto turbamenti maggiori rispetto a quelli di Caravaggio (anche se la lezione del Merisi, come detto, fu ampiamente diffusa in Liguria dai suoi seguaci).
Prima d’osservare le forme prese dal Seicento in Liguria verso la metà del secolo, è naturalmente d’obbligo una sala dedicata ad Antoon van Dyck, uno dei passaggi più belli della mostra di Roma. Dei capolavori in arrivo da fuori Italia, il suo Ritratto di Elena Grimaldi e la Diana di Valerio Castello che s’incontra due sale dopo sono di sicuro i pezzi migliori, che quasi valgono l’intera visita. Il ritratto della nobildonna, accompagnata da un paggio africano che le regge l’ombrello, è posto a dialogo con quello di Paolina Adorno Brignole Sale, con quello di Agostino Pallavicino e con un altro simbolo della ritrattistica di Van Dyck, l’Anton Giulio Brignole Sale a cavallo, a coprire quasi dieci anni di attività del fiammingo, la cui lezione fu dirompente (pressoché tutta la ritrattistica genovese del Seicento continuò a guardare a lui anche a decennî di distanza), anche più rispetto a quella di Rubens: la pittura potente di Rubens veniva stemperata da Van Dyck in modalità più composte, sorrette “da un disegno raffinato e da un’eleganza compiaciuta”, scrive Bober, che risultarono pertanto più conformi al gusto locale, tanto per gli artisti quanto per i clienti. Vicino alle opere di Van Dyck, quelle di Cornelis de Wael a testimoniare come si guardasse alle Fiandre anche per la pittura di genere (le scene particolarmente affollate di De Wael risultavano molto gradite) e per quella di paesaggio.
Rimandano ai filoni tipici dell’arte nordica anche le nature morte, che s’incontrano proseguendo l’itinerario di visita: le connessioni tra Genova e le Fiandre emergono dalla Dispensa di Giacomo Legi, pittore d’evidente origine fiamminga ma del quale conosciamo soltanto il nome italianizzato, la cui abbondanza di frutta, verdura e pollame descritto con minuzia estrema riconduce alle nature morte del conterraneo Jan Roos, presente con una Entrata degli animali nell’arca, e importante punto di riferimento anche per l’analoga Dispensa di Anton Maria Vassallo, una sorta di Rubens di noialtri (fu senza dubbio lui, tra i genovesi, il più vicino al grande pittore barocco) che eccelleva nei temi religiosi e in quelli mitologici, ma che non disdegnava le nature morte e anzi, com’è testimone il quadro che arriva dalla National Gallery di Washington, si cimentava con gran profitto anche in questo genere. E dalle Fiandre sarebbe scaturita pure quella particolare vena animalista che sedusse molti eccellenti pittori, a partire dal primo della lista, Sinibaldo Scorza, che in mostra s’incontra al piano superiore con un sorprendente disegno a penna e inchiostro dal Rijksmuseum di Amsterdam, nella saletta dov’è stata sistemata tutta la produzione su carta della rassegna e di cui si dirà più sotto, per arrivare al Grechetto, ovvero Giovanni Benedetto Castiglione che, per quanto noto per lo più per le sue pitture con animali, fu artista viaggiatore ed eclettico, capace di prodursi in capolavori di gran verisimiglianza quando si trattava d’inserire gli amatissimi animali nelle scene più disparate che richiedessero una cospicua presenza di bestie (esemplare il Sacrificio a Pan con le pecore e la mucca in arrivo da destra che paion vive), ma anche in grado di misurarsi con generi ritenuti più impegnativi.
Ed è proprio il Grechetto il protagonista di uno dei momenti più intensi della mostra, l’Adorazione dei pastori dalla chiesa di San Luca a Genova, vera sintesi del suo talento, una composizione in diagonale, memore delle invenzioni di Tiziano, una scena tumultuosa con rimandi correggeschi (la Madonna col Bambino, brano di straordinaria delicatezza), con un turbinio di angeli che guarda ancora a Rubens, con l’inserto di natura morta che uno specialista come Castiglione non poteva omettere, con il pastore che suona il fagotto e che, scrive Bober, “sembra un personaggio da baccanale”. Di fianco a quello ch’è uno dei dipinti più emozionanti che si possan trovare nelle chiese genovesi, sfilano pregevoli dipinti che raccontano le direzioni che i linguaggi del Seicento genovese imboccarono negli anni Trenta: si va dal naturalismo attenuato da vene classiciste che caratterizza i modi di Domenico Fiasella (l’Imperturbabilità di Anassarco) a quello più essenziale ed emotivo di Giovanni Andrea De Ferrari (l’Ebbrezza di Noè), per arrivare alla grammatica immediata e spesso drammatica di Luciano Borzone che innesta il suo caravaggismo su di un sostrato cambiasesco (il Banchetto di Rosmunda) e alle intemperanze ormai compiutamente barocche di Valerio Castello, vero protagonista della sezione successiva.
Risulta evidente, a questo punto della mostra, che non esiste un unico Barocco genovese: ce ne sono più d’uno. L’assetto repubblicano dello Stato genovese, e di conseguenza l’assenza d’una corte, evitarono l’affermarsi d’un gusto univoco, e facilitarono viceversa il diffondersi d’un pluralismo che ha pochi altri eguali, d’una moltitudine di correnti che non vide mai un pensiero prevalere sull’altro: una situazione estremamente composita che fu però alla base della scarsa comprensione che, nei secoli, non facilitò l’affermazione dell’arte che si produceva in città (i motivi, comunque, furono anche altri: basterà pensare al fatto che le arti del Seicento a Genova s’esprimevano per lo più nel privato, al contrario esatto di quanto avveniva a Roma). La vicinanza delle opere di Valerio Castello a quelle di Fiasella, De Ferrari e Borzone è l’immagine più evidente di questa pluralità. Valerio, figlio d’arte (anche suo padre Bernardo era stato un valente pittore), volse prima lo sguardo all’indietro, al Parmigianino e ai grandi affreschi di Perin del Vaga, trasse profitto dalla lezione dei maestri cui s’accostò (tra i quali gli stessi Fiasella e De Ferrari), e prese a modello la potenza Rubens e la luce di Van Dyck per produrre alcuni dei lavori più esuberanti e visionarî del suo tempo: la sua arte, come si vede nella splendida Diana e Atteone con Pan e Siringa in arrivo da West Palm Beach, è un misto di movimento e raffinatezza, di grande libertà compositiva e di momenti di delicata dolcezza. Il suo è uno dei linguaggi più rivoluzionarî del tempo e avrebbe attecchito su molti colleghi: prova ne è, per esempio, l’Adorazione dei Magi di Bartolomeo Biscaino. La visita al pianterreno si conclude con un altro momento denso: si passa dalla particolare figura di un pittore isolato, per molti versi ancora da scoprire e capire, quale è Giulio Benso, presente con le singolari, vorticose, fantasiose e anticonvenzionali Tentazioni di sant’Antonio da Pieve di Teco, dipinto difficile, animato da un “genuino spirito di contraddizione” (così Franco Boggero), alle opere di Domenico Piola che divenne il leader della scuola genovese dopo la peste del 1656 che dimezzò la popolazione cittadina facendo anche strage d’artisti (tra di loro lo stesso Valerio Castello) e la cui arte conobbe diverse stagioni (in mostra una tela giovanile, Giobbe e i suoi figli, e un capolavoro della maturità, l’Annunciazione della Basilica del Vastato), per arrivare al primo grande scultore del Seicento genovese, il francese Pierre Puget, che portò in Liguria le novità della grande scultura barocca romana, apprezzabili nel Ratto di Elena.
Salendo al piano superiore, nella prima sala s’incontra uno dei protagonisti più interessanti e forse più negletti del secondo Seicento ligure, il savonese Bartolomeo Guidobono, che avviò la sua carriera come ceramista, ma seppe poi distinguersi come mirabile pittore. Basti ammirare due opere in arrivo da Palazzo Rosso, Lot ubriacato dalle figlie e Abramo Convita i tre angeli, che lo storiografo Carlo Giuseppe Ratti considerava tra i quadri “de’ migliori ch’ei mai facesse”, ritenendo che i così forti contrasti chiaroscurali e gli effetti di luce li rendessero equivocabili per opere del Guercino, “tanto sono con forte e vigoroso impasto adombrati”. La particolarissima sintesi di Guidobono, che assomma “la grazia e la sensualità correggesca” (così Raffaella Besta) nella raffigurazione delle figlie di Lot e degli angeli di Abramo, reminiscenze del primo Seicento veneto e “un interesse specifico per Castiglione, in una sorta di affinità stilistica con tutti quei pittori, primo fra tutti Rubens, che rielaborano in senso barocco la tradizione coloristica”, sarebbe confluita poi, al volgere del secolo (si veda lo Zefiro e Flora) in una pittura dai toni più delicati che già anticipa il Settecento. Non manca, nella sala seguente, un assaggio di scultura: spicca al centro dell’ambiente una delle tante macchine del vero, grande campione della scultura lignea settecentesca in Liguria, ovvero Anton Maria Maragliano, cui pure è stata dedicata di recente un’importante monografica a Genova, al Teatro del Falcone di Palazzo Reale. È il Battesimo di Cristo in prestito dall’oratorio di San Giovanni Battista di Pieve di Teco, una delle tante chiese delle due riviere liguri dove si possono trovare i gruppi processionali di Maragliano: attorno, opere di Pierre Puget, Alessandro Algardi e Domenico Guidi allineano i nomi di coloro che rinnovarono la scultura locale, a lungo più attardata rispetto alla pittura.
S’è anticipato sopra che alla produzione grafica dei pittori genovesi del Seicento è stata dedicata un’apposita sala: è qui che il pubblico può osservare alcuni fogli preparatorî per i grandi affreschi che continuano ancor oggi a sbigottire i visitatori dei Palazzi dei Rolli. Il Barocco genovese, s’è detto, fu del resto un fenomeno anzitutto privato, ed è tra le case del patriziato cittadino che occorre rinvenire alcuni degli apici di questa stagione: bozzetti e disegni alle Scuderie del Quirinale lasciano immaginare al visitatore lo splendore di queste sontuose dimore (val la pena citare, peraltro, il saggio che all’immagine dei palazzi genovesi dedica Giulio Sommariva in catalogo), benché non manchino comunque fogli non connessi a questo tipo d’attività, e il magnifico disegno di Sinibaldo Scorza cui s’è accennato sopra è forse il miglior esempio in tal senso. Non solo fogli, ma anche modelletti: ci sono, per esempio, quelli di Giovanni Battista Carlone per gli affreschi di San Siro, che occupano quasi tutta una sala. C’è la rapinosa Apoteosi della Repubblica di Genova, bozzetto di Domenico Piola per l’affresco destinato alla Sala del Maggior Consiglio Ducale del Palazzo Ducale, eposto assieme a quello eseguito dal figlio Paolo Gerolamo. C’è il bozzetto di Gregorio De Ferrari per il Solstizio d’Estate di Palazzo Rosso: è anche così che il fascino d’una delle più belle residenze genovesi giunge a Roma. E in un’ideale connessione tra Genova e Roma c’è anche il modelletto per il Trionfo del Nome di Gesù della chiesa del Gesù di Roma, a poca distanza dal Quirinale: il suo autore, si sa, è un genovese, quel Giovan Battista Gaulli che, sconvolto dalla peste del 1656 poiché vi perse tutta la famiglia, decise di lasciare subito la città e andarsene a Roma, per non far più ritorno in terra natia. Il Trionfo del Nome di Gesù, inconcepibile senza le pregresse esperienze di Piola e Castello, seppur possa esser considerato il contraltare pittorico della scultura di Bernini, è una specie di brano di Liguria a Roma.
Passata la sala dedicata al “barocco sontuoso” del primo Settecento, coi lavori d’altissima qualità del marattesco Paolo Gerolamo Piola e di Domenico Parodi e del Mulinaretto, artisti questi ultimi che già guardano oltre le Alpi dopo che Genova entrò nella sfera d’influenza della Francia, s’ammira un paesaggio di Carlo Antonio Tavella e s’arriva all’epilogo: la sala dedicata all’“imprevedibile” Alessandro Magnasco, artista libero, anticonformista, bizzarro, indipendente, lontano da qualunque schema e dunque difficile da incasellare. Genovese di nascita, passò in realtà gran parte della sua esistenza a Milano e si nutrì dalle sorgenti più varie: guardò alla tradizione locale, ai bamboccianti, a Salvator Rosa, a Giuseppe Maria Crespi, ai veneti, e il risultato fu una pittura senza eguali, talmente rapida da apparire quasi improvvisata, fatta di pennellate guizzanti, di figure appena accennate, di composizioni convulse. Tipico del suo modus operandi è il Sant’Agostino e il bimbo, opera eseguita a quattro mani con il paesaggista Antonio Francesco Peruzzini, dove torna il motivo del mare burrascoso che s’incontra in molte opere del Lissandrino, e dove le figure dei due protagonisti, minuscole rispetto al paesaggio e quasi anticipatrici del gusto del sublime, si mostrano con quell’immediatezza quasi bozzettistica che contraddistingue il linguaggio di Magnasco. Il vero capolavoro è però il Trattenimento in un giardino di Albaro, prestito eccezionale da Palazzo Bianco, che chiude la rassegna: mentre la secolare storia della Repubblica di Genova volgeva al termine, Magnasco dipingeva un ricevimento di nobili sulle colline di Albaro, in una veduta opprimente verso la piana del Bisagno, dove il mare non si vede, ma si distinguono benissimo queste figurette di aristocratici che, come commedianti spettrali e inconsapevoli, vanno incontro al loro definitivo sfacelo.
Accompagna la mostra un libellus delle “Cinquanta parole superbe” che viene distribuito gratuitamente al pubblico in biglietteria, e che consente di avere un’idea più larga del contesto che produsse un Barocco così polifonico come quello di Genova: il libretto contiene infatti piccoli sunti sulla realtà sociale, culturale, economica e finanziaria che caratterizzò la Repubblica di Genova nel periodo della mostra, e che viene ulteriormente presa in esame da Andrea Zanini nel saggio d’apertura del catalogo, un contributo che si legge con piacere per la quantità d’interessanti informazioni storiche che riesce a trasmettere. Non si potrebbe del resto comprendere il Seicento genovese senza comprendere ciò che in quell’epoca accadeva nel territorio di una Repubblica che, stretta tra l’Appennino e le coste del mar Ligure, povera di risorse e materie prime per la conformazione geografica d’un territorio impervio e avaro, fu capace di fondare le sue ricchezze dapprima sui traffici marittimi e poi, quando le rotte del commercio mondiale si spostarono dal Mediterraneo all’Oceano Atlantico, sulla finanza e sull’industria di trasformazione, prima su tutte quella della seta. In questo contesto agiva quel “patriziato attivo e intraprendente” (così Zanini) capace d’intervenire in diversi settori dell’economia, sufficientemente avveduto per capire che certe forme di stato sociale erano imprescindibili per il benessere della repubblica, mentre un’accorta politica estera di equilibrio e neutralità lo era per la sua sopravvivenza. La “Civiltà dei Palazzi”, come l’aveva chiamata Ennio Poleggi, che si riempiva di quelle opere d’arte che avrebbero reso vivo il Barocco genovese, è l’immagine più eloquente che oggi ci è rimasta di quel periodo storico.
Il catalogo, infine, è un efficacissimo strumento che condensa in cinque utili e sintetici saggi lo stato dell’arte sul periodo che la mostra prende in esame: al contributo di Zanini di cui s’è appena detto e a quello sulle architetture secentesche di Sommariva che s’è citato sopra, s’affiancano quelli sui rapporti tra artisti e committenti, un contributo a quattro mani di Boccardo e Boggero, un denso saggio sullo status economico e lavorativo degli artisti nella Repubblica di Genova a firma di Peter Lukehart, e un saggio riassuntivo degli “stili del Barocco genovese” firmato da Jonathan Bober. Le accurate schede non contengono sunti bibliografici, ma sono dense di note che rimandano alla bibliografia generale: da notare che quelle delle opere più note preferiscono concentrarsi su alcuni aspetti peculiari, e per quelli più generali o meglio noti rimandano alle pubblicazioni passate, citate in maniera estesa e raccolte nel ricco regesto che conclude il volume. Per Genova, in definitiva, Superbarocco è un progetto di gran valore oltre che un’occasione importante per promuoversi. Per il pubblico d’Italia e del mondo, è la prima volta in trent’anni esatti ch’è dato vedere gran parte delle perle di quella stagione riunite in un luogo che non sia la loro città, in una mostra che parte da quel ch’era stato acquisito negli anni Novanta e attraversa tre decennî di ricerche intense e diffuse per portare al Quirinale un percorso aggiornato e di alto livello. Col doppio obiettivo di far conoscere a quanto più pubblico possibile il Seicento genovese, e d’incitare ulteriori e ancor più diffuse prosecuzioni degli studî sulla materia.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).