Alla Magnani Rocca di Traversetolo, raccolta al pianterreno di questo prezioso scrigno d’arte, una rara e minuta mostra, Amedeo Modigliani. Opere dal Musée de Grenoble, offre, attraverso pochi ma significativi prestiti, l’occasione di osservare con uno sguardo attento l’opera pittorica e grafica di Amedeo Modigliani, a margine del centenario della sua morte del 1920, che ha visto, per la verità, poche esposizioni in Italia, a ragione della problematica autenticità del suo catalogo.
Quadri e disegni, provenienti dal Musée de Grenoble, assieme ad altre opere e feticci africani facenti parte della nutrita collezione di Magnani, consentono di far parlare la pittura di Modigliani con le sei opere grafiche e soprattutto con diverse correnti e periodi storici solo apparentemente distanti: la pittura gotica senese, l’art nègre e la pittura moderna francese.
Al centro dell’allestimento, spicca un dettaglio incorporato in quell’opera riassuntiva della sua vicenda artistica e umana, che è l’olio del 1917, la femme au col blanc.
Il ritratto (il primo dei 14 a olio) raffigura Lunia, giovane donna polacca di Varsavia, ospite di Léopold Zborowski, il mercante e mecenate, amico di Modigliani, che sebbene inizialmente non ricco, è stato un personaggio chiave per la diffusione e conoscenza del suo stile, da quando nel 1916 riuscì a garantire all’artista un contratto e gli permise di esporre i suoi lavori persino nella mostra dadaista organizzata al Cabaret Voltaire di Zurigo.
Lunia Czechowska è stata una delle modelle preferite dell’artista, una di quelle, come dichiara lei stessa nell’intervista del 1990 presente in catalogo, a non aver posato mai nuda e, caso straordinario, per la realizzazione del suo dipinto Modigliani impiegò ben tre sedute di posa. In quest’opera dirompente c’è tutto l’estro di Modì, persino il fiammifero che si attaccò alla pittura fresca dopo la caduta accidentale della tela dovuta alla violenza con cui Amedeo affrontava la materia (sappiamo peraltro che dipingeva in maniche di camicia e cantando canzoni italiane). Lunia è infatti ritratto-simbolo che non solo conferma la predilezione di Modigliani per i soggetti femminili (preferenza che sarà assunta in seguito all’incontro con la poetessa Beatrice Hastings del 1914) ma anzitutto raccoglie diffusamente i suoi caratteri più peculiari. Dall’impenetrabilità dello sguardo (con le orbite vuote) che si presume arrivi dall’attenzione alla statuaria classica e dalla fascinazione verso le maschere africane (ci sono infatti in mostra due esempi di maschere antropomorfe di etnia Gouro, rilevanti in particolare per i profili affilati e il prognatismo) da cui assumerà anche una certa sintesi formale, all’uso delle formulazioni della pittura senese e italiana come è evidente sia nella tavolozza cromatica (il blu) e nelle linee affusolate del collo lungo della donna, sia nella testa leggermente reclinata, nella posa delicata e gli occhi a mandorla che Modì ha visto presumibilmente nelle Madonne di Simone Martini e forse, nella Madonna del latte di Ambrogio Lorenzetti, fino alla scelta della posizione di tre quarti con l’incrocio delle mani sulle ginocchia che è un modulo che lui desume da Cézanne in Francia.
Amedeo Modigliani, Femme au col blanc (1917; olio su tela; Grenoble, Musée de Grenoble) |
Maschera africana Gouro, Costa d’Avorio (Collezione privata Marcello Lattari) |
Pietro di Giovanni Ambrosi, Madonna col Bambino (1446-1447; tempera su tavola centinata; Mamiano di Traversetolo, Fondazione Magnani Rocca) |
Anche se il curatore della mostra, Stefano Roffi, ci dice che “più che il riferimento a opere precise, per Modigliani valgono le caratteristiche condivise dalle figure femminili senesi di quel tempo; dita, collo, occhi, tratti allungati, affusolati, grande eleganza. Si tratta di un’influenza in qualche modo ‘costituzionale’ acquisita fin dall’infanzia, quando, grazie alla colta madre, Amedeo ebbe la possibilità di visitare chiese e pinacoteche della sua Toscana (e oltre), restando affascinato dalle Madonne. Più avanti appenderà le riproduzioni di queste opere ai muri dei suoi ateliers; il linearismo toscano si sedimentò nella sua arte fino a riemergere nello stile maturo della sua pittura”.
Illuminanti sono in tal senso le parole di Lamberto Vitali, tratte da Disegni di Modigliani, del 1929: “Gli è che la chiave dell’arte di Modigliani, la ragion d’essere delle deformazioni cui assoggetta i suoi modelli (dai volti allungati, inclinati sui colli cilindrici che sostengono le teste quasi a modo di colonna), il senso di spirituale levità che emana dalle sue opere, godimento che io non so paragonare se non a quello delle armoniose figurazioni d’una danza lenta, hanno un solo nome: arabesco. Per questo mi sembra che Modigliani [...] sia della stessa famiglia dalla quale sono usciti i giapponesi e due italiani che si sono espressi con lo stesso linguaggio pittorico: intendo Simone Martini e Sandro Botticelli. Ma soprattutto al senese mi piace avvicinare Modigliani: a Simone Martini, quando abbandona la narrazione, per farsi pittore decorativo (decorativo, nel senso berensoniano)... il disegno d’un pittore è come il diario intimo d’un letterato; in esso l’artista ti si rivela schietto, nei suoi caratteri essenziali, senza infingimenti e senza trucchi, che del resto l’aristocratico contrasto del bianco e del nero mal tollererebbe... Di rado vi si ritrovano preoccupazioni chiaroscurali; molto spesso è un segno uguale e sottile, che si snoda filato leggero, con singolare purezza, chiudendo le forme in un ben ritmato giuoco d’arabeschi di una squisita eleganza. Le curve s’intrecciano e si combinano via via con un senso quasi musicale, fra pause e riprese, incroci e sospensioni, suggerendo più che descrivendo, sintetizzando e non analizzando. E come il motivo d’un flauto pastorale evoca con le sue modulate cadenze tutto un mondo nostalgico ideale, così l’arabesco di Modigliani supera la realtà minuta del modello, innalzandolo in un mondo diverso e superiore, dove donne nutrite d’uno strano languore hanno corpi di una virginea purezza”.
Ruota tutt’attorno al prestito della Femme au col blanc il fulcro della mostra curata da Roffi, perché da lì non soltanto si dipana il gioco d’influenze, giustificando la presenza delle altre opere e dei disegni, ma si dissolvono anche i dubbi su un’esposizione così apparentemente cursoria, che rischiava di passare in second’ordine o di non essere del tutto compresa. Quanto emerge è quindi un prezioso condensato del pensiero artistico di Modigliani, come esito di un processo interiorizzato nel tempo attraverso il trasferimento dell’artista dall’Italia (Livorno, Firenze, Venezia, ecc.) in Francia, a Parigi, nel 1906.
Amedeo Modigliani, Portrait d’homme (1915 circa; matita su carta; Grenoble, Musée de Grenoble) |
Amedeo Modigliani, Portrait de Gillet (1917-1919 circa; matita su carta; Grenoble, Musée de Grenoble) |
Amedeo Modigliani, Portrait de Paul Dermée (1918-1920 circa; matita su carta; Grenoble, Musée de Grenoble) |
Paul Cézanne, Arbres (1887-1890; acquerello su carta; Mamiano di Traversetolo, Fondazione Magnani Rocca) |
Parigi è una città che Modigliani vivrà con grande entusiasmo, e infatti andrà assiduamente al Bateau-Lavoir, la celebre residenza d’artista (frequentata da André Salmon, Guillaume Apollinaire, Max Jacob e pure Pablo Picasso che disprezzò Modigliani per le sue origini ebree), al quartiere di Montmartre, frequenterà anche il café Lapin Agile, punto di contatto per molti artisti e intellettuali, che è il luogo dove conosce Suzanne Valadon e suo figlio Maurice Utrillo (suo grande amico, assieme a Chaïm Soutine), e sarà infine ospite, per intermediazione di Doucet, alla casa-atelier di rue Delta, dove farà la preziosa conoscenza di Paul Alexandre, mecenate grazie al quale cambierà per sempre il suo destino d’artista.
La Ville Lumière, nei primi del Novecento, è soprattutto la culla delle grandi Esposizioni Universali, dove appunto, sarà possibile vedere, studiare e finalmente apprezzare altre arti del mondo che elaboravano un concetto estetico diverso, per i “parigini” e per Modigliani risuonava dentro, in particolare, l’arte proveniente da terre lontane, come quella tribale della Costa d’Avorio. L’enigmatica lingua del Gu, simbolo di bellezza femminile, l’antico richiamo esotico erano state dal 1915 la sua Africa in terra di Francia.
Il pregiudizio dell’artista maledetto, Modi-maudit, motivato dall’uso eccessivo di alcool e droghe e dall’irruenza del suo modo di dipingere e scolpire, e che da sempre circonda questo artista, non trova sempre ragione d’essere. E questo dato di verità si riverbera anche nella perizia e meticolosa acribia con cui si adopera nei disegni che spesso regalava senza firmare. I sei ‘fili di linee’ presenti in mostra ne danno superbamente prova. Soprattutto quello di Dérain per i contorni morbidi e l’uso della carta Vélin.