Era un giorno di pieno inverno del 1879 quando Charles Fairfax Murray entrò nella chiesa di San Francesco a Siena col preciso intento di andare a vedere un’opera di Ambrogio Lorenzetti che era lì conservata, nella cappella del Seminario Arcivescovile. Murray aveva solo trent’anni ma già da otto era in Italia: pittore preraffaellita con solide conoscenze d’arte italiana, era arrivato da Londra per eseguire copie di opere italiane da inviare a John Ruskin. E poi s’era fermato: dopo aver sposato una ragazza italiana ed essersi stabilito a Firenze, aveva cominciato a collaborare con Giovanni Battista Cavalcaselle. E proprio nel 1879 stava viaggiando per la Toscana, con l’obiettivo di redigere un catalogo delle opere di Pietro e Ambrogio Lorenzetti per Cavalcaselle.
Possiamo solo immaginare lo stupore di Murray quando vide dinnanzi a sé la Madonna del latte, dati i toni entusiastici coi quali descriveva l’opera in una lettera che inviò il 20 gennaio al collega, dopo aver eseguito una copia su tela del dipinto: per il giovane inglese, la Madonna del latte era “la più bella tavola di Ambrogio esistente”, e il parere di Murray evidentemente convinse Cavalcaselle a includere l’opera nella sua Storia della pittura in Italia, fatto che l’avrebbe resa poi ben nota agli studi storico-artistici, e che costituì il presupposto perché divenisse una delle immagini più riconoscibili e iconiche dell’arte di Ambrogio Lorenzetti.
Nella monumentale impresa storiografica che lo storico dell’arte veneto redasse assieme a Joseph Archer Crowe, la Madonna del latte è descritta come “un grazioso dipinto in tavola”, che “rappresenta nella grandezza naturale la mezza figura della Madonna col Putto al seno in atto di succhiare, il quale con una mano sulla mammella si volge scherzoso a chi lo guarda”. E forse è proprio l’aggettivo “scherzoso” una delle chiavi per comprendere questo meraviglioso dipinto, nonostante l’apparente serietà della Madonna. Lei conserva un profilo ancora piuttosto duccesco, sebbene i lineamenti di questa Vergine siano più nobili rispetto a quelli delle Madonne di Duccio: gli occhi a mandorla, il profilo lievemente allungato, le fini sopracciglia arcuate, gl’incarnati teneri e diafani. Indossa, come da tradizione, un maphorion blu oltremare, con una bordatura d’oro decorata a motivi geometrici, che copre un velo bianco avvolto in sottilissime pieghe, delineate con certo virtuosismo, e terminante con un orlo dorato che sembra quasi continuare la cintola, stretta sulla tunica scarlatta all’altezza del petto. La sua figura è tracciata secondo un’impostazione spaziale inconsueta, ha fatto notare il giovane studioso catalano Ireneu Visa Guerrero: “sia Maria che Gesù sono spostati rispetto all’asse centrale, una posizione che consente ad Ambrogio di fingere che oltrepassino lo spazio circoscritto dalla cornice, la quale, a sua volta, allude sicuramente a un trono”.
Ambrogio Lorenzetti, Madonna del latte (1325 circa; tempera e oro su tavola, 96 x 49,1 cm; Siena, Museo Diocesano) |
Ambrogio Lorenzetti, Madonna del latte, particolare |
E su quel trono, cui rimanda proprio la forma cuspidata della tavola, il Bambino evidentemente non si sente a suo agio, perché non è tranquillo come la madre. Al contrario: s’agita, scalcia, con le mani abbranca avidamente il seno della Vergine per suggerne il latte, ma volta lo sguardo con fare quasi sospettoso. E la madre deve tenerlo ben fermo, onde evitare che scivoli dalla copertina rosa di cui si sta liberando, con l’azione delle gambe che non trovano posa e vengon colte dal pittore in una posizione bizzarra, inconsueta, nuova: sono piegate, quasi accavvallate l’una sopra l’altra, col tallone sinistro che poggia sul ginocchio destro e la pianta del piede che invece spinge sul braccio della madre. S’osservi il realistico particolare dell’indice e del medio della mano destra della Madonna, che si divaricano per fare maggior presa sulle terga del Bambino: è da un dettaglio come questo che s’evince l’inusitata naturalezza del dipinto di Ambrogio Lorenzetti. E proprio osservando l’atteggiamento del Bambino, fatto del tutto originale per la pittura senese, Cavalcaselle gli affibbiò quello “scherzoso”.
L’artista dipinse la tavola attorno al 1325: ce lo suggerisce il confronto con altre opere del tempo, prima tra tutte il ciclo d’affreschi che Ambrogio realizzò assieme al fratello Piero proprio in San Francesco nei primi anni Venti del Trecento (e che furono peraltro riscoperti sotto uno strato di scialbo una ventina d’anni prima che Murray visitasse la chiesa), dove i personaggi presentano connotati del tutto simili a quelli della Madonna del latte. Non sappiamo con certezza dove si trovasse in origine: l’opera è attestata per la prima volta nel 1439, presso l’eremo agostiniano di Lecceto, nei dintorni di Siena, e qui rimase fino al 1866, quando fu spostata nella cappella del Seminario in San Francesco, assieme alla sua cornice secentesca, poi rimossa. Spostata ancora nel 1966 al Palazzo Arcivescovile di Siena, è diventata oggi parte della raccolta del Museo Diocesano della città toscana.
Nell’eseguire la sua Virgo lactans, la sua Madonna colta nell’atto intimo e tenero d’allattare il Bambino, Ambrogio aveva rinverdito la tradizione bizantina della Vergine Galaktotrophousa, ch’era già comunque largamente praticata in ambito senese: il pittore seppe però rinnovare radicalmente l’iconografia, nell’ambito di quel processo d’umanizzazione delle immagini sacre che stava interessando la pittura senese del secondo e terzo decennio del Trecento. Anche la luce non è quella abbacinante delle icone bizantine: è una luce rotonda, intima e domestica, trasmette un senso di tranquillità, di calma, di serenità.
In suo articolo pubblicato su The Art Bulletin nel 1969, lo studioso americano Michael Mallory scriveva che, con la sua Madonna del latte, Ambrogio Lorenzetti aveva compiuto qualcosa di straordinario, per affermare con convinzione l’umanità di Cristo attraverso una scena materna, dolce, delicata: “L’artista ha fatto a meno di quasi tutti i dispositivi simbolici e ha concepito l’immagine esclusivamente in termini di gesti e azioni umane. La Vergine, che guarda teneramente al suo figlio, diventa in questo dipinto l’incarnazione dalla maternità, sia umana che divina, mentre il Bambino, che scalcia e si dimena, afferma l’elemento umano della doppia natura di Cristo”. Per Mallory, lo spirito di Ambrogio era in forte anticipo sui tempi, spingendosi financo a precorrere certe meditazioni rinascimentali come la Madonna Litta di Leonardo da Vinci.
Ma anche senza voler attribuire al pittore senese una lungimiranza bisecolare, non si potrà che convenire quando s’afferma che la Madonna del latte rappresenta un capolavoro nuovo per la pittura senese. Murray e Cavalcaselle erano stati i primi ad accorgersene: l’inglese ebbe il merito di segnalarla, mosso da un’emozione sentita e naturale, e il veneto quello di riconoscerne l’importanza. L’innovazione di Ambrogio non fu colta dai suoi successori: i pittori senesi avrebbero piuttosto optato per una sorta di connubio tra la lactans e il tipo iconografico della Madonna dell’umità. Lo vediamo bene in un dipinto dato a Lippo Memmi o al suo ambito, e conservato alla Gemäldegalerie di Berlino. Ma quando vediamo quella Madonna del latte al Museo Diocesano di Siena siamo consapevoli di assistere a un fatto inedito, a una delle più alte espressioni del senso della maternità in un dipinto del Trecento, a una delle prime opere che evocano sensazioni di rasserenante affetto familiare per sottolineare la natura umana del figlio di Dio. Un dipinto “scherzoso”, insomma. Qui non ci sono più la ieratica regina dei cieli e l’imperioso Bambino benedicente: s’è ormai compiuto quel cammino che ci ha portati a vedere, su di una tavola del Trecento, una mamma premurosa e un neonato irrequieto.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).