Ciechi che guidano i morti. Com'è la mostra dei fratelli Chapman a Pietrasanta


Recensione della mostra “Jake e Dinos Chapman. The blind leading the dead” (Pietrasanta, The Project Space, dall’11 agosto al 5 novembre 2023).

Viviamo nella società palliativa, sostiene Byung-chul Han. Una società che ha rimosso il dolore dall’orizzonte delle proprie esperienze, una società che cerca di nascondere il dolore in tutti i modi, una società che ha eletto la felicità personale a bene supremo al punto che oggi lo sfruttamento non si realizza più tramite la costrizione, l’obbligo e l’ubbidienza, bensì tramite l’induzione all’autoaffermazione: lo stesso potere, dunque, si sgancia dal dolore e s’esprime senza repressione. Niente deve più far male, neppure l’arte, “costretta con tutte le forze nel corsetto del mi piace”, scrive il filosofo tedesco: l’arte, oggi, è completamente anestetizzata, è diventata intrattenimento, è stata spogliata d’ogni aspirazione alla complessità. Anzi: la complessità è guardata con sospetto. Il paradigma vale per le arti visive, ma comincia a colpire anche l’arte dominante del nostro tempo, il cinema: si pensi alle demenziali discussioni degli ultimi giorni, alimentate da schiere di critici improvvisati che imperversano sulla stampa, attorno al film Comandante, dinnanzi al quale l’unica questione su cui si spreca inchiostro è se il lavoro di Edoardo De Angelis sia da considerarsi sostanzialmente fascista o sostanzialmente antifascista. C’è dunque ancora spazio per un’arte che riesca a liberarsi dalla logica del like, che riesca a sottrarsi al manicheismo asfittico e analgesico del discorso pubblico odierno?

Questo ci si potrebbe domandare visitando The blind leading the dead, la personale di Jake & Dinos Chapman che tornano in Italia, nel grande salone bianco di The Project Space a Pietrasanta, tredici anni dopo la loro ultima apparizione, collettive escluse (era il 2010 e i due fratelli inglesi esponevano alla Fondazione Pino Pascali). Esiste allora un’arte che provochi una reazione? Forniamo subito la risposta breve, che è anche piuttosto lapidaria: probabilmente no, o almeno non secondo l’accezione comune per cui un’opera d’arte deve necessariamente cambiare il modo di vedere le cose. Ma è una risposta che prevede un’articolazione lunga, che in parte trova le sue ragioni nell’ottima mostra, dove il pubblico trova un sunto dell’opera omnia dei due bad boys della cosiddetta Young British Art. La rassegna versiliese condensa trent’anni di produzione in una selezione accuratissima, fondata in modo più che robusto sul criterio della qualità: tradotto, significa che le opere sono poche, ma ognuno dei lavori in mostra è rappresentativo delle tante fasi della produzione di Jake e Dinos Chapman, tutti i mezzi coi quali hanno lavorato vengono esplorati, e non mancano neppure le opere più recenti. Il lavoro più distante nel tempo è Two-faced Cunt, opera del 1997 in cui i corpi di due ragazzine in età prepuberale sono uniti all’altezza della testa, come fossero due gemelle siamesi, da un genitale femminile: in altri epoche, l’esposizione d’un pezzo del genere avrebbe destato scandalo, come quando nel 2014 le rampogne dell’Osservatorio sui Diritti dei Minori s’abbatterono su di una mostra del MAXXI di Roma che esibiva al pubblico un’opera simile, Piggyback. L’accusa era quella di pedopornografia, si negò a Piggyback lo status di opera d’arte, e si levò la scontatissima invocazione alla censura.

Oggi, evidentemente, l’Osservatorio ha altro di cui occuparsi, o semplicemente negli ultimi due lustri ha avuto modo d’elaborare il turbamento provocato in quell’occasione dai fratelli Chapman: sta di fatto che, ormai, l’idea che un’opera simile possa istigare a sentimenti contrarî alla pubblica decenza alberga soltanto nella mente di qualche attardato reazionario, di cui comunque il mondo è tuttora pieno: basterà pensare alle polemiche sorte attorno alla recente mostra di Miriam Cahn a Parigi, che ha pure avuto strascichi giudiziarî. Difficile però non concordare con Jake Chapman quando dice, in un’intervista rilasciata a chi scrive proprio in occasione dell’apertura della mostra di Pietrasanta, che quello che si consuma attorno all’arte come la sua è nient’altro che un grande melodramma (“Penso che l’arte funzioni come uno strumento che attira le persone in una specie di pantomima melodrammatica, alla quale partecipano. [...] Se le persone presumono che, in qualche modo, un’opera d’arte dovrebbe essere scioccante, allora credo che svolgano la loro parte nello scambio fingendo di essere scioccate. Perché, alla fine, credo che chiunque venga scioccato dall’arte probabilmente rimane scioccato anche... che so, dalle zucchine”). Ora, che nell’arte dei due fratelli non ci sia alcunché di rincuorante, che i loro lavori facciano tutto meno che confortare, è dato ormai acquisito: in genere non si va a vedere una mostra di Jake e Dinos Chapman per ottenere delle risposte, per trovare una soluzione, per avere un riscontro positivo. Chi ci spera è piuttosto ingenuo. Si potrebbe però rimanere spiazzati da questo nichilismo così sferzante, così beffardo, così mordace, così naturale. Serve allora un grado d’approfondimento in più per capire quello che i due fratelli squadernano dinnanzi allo sguardo dell’osservatore sempre meno attonito.

Allestimenti della mostra The blind leading the dead, personale dei fratelli Chapman
Allestimenti della mostra The blind leading the dead, personale dei fratelli Chapman
Allestimenti della mostra The blind leading the dead, personale dei fratelli Chapman
Allestimenti della mostra The blind leading the dead, personale dei fratelli Chapman
Allestimenti della mostra The blind leading the dead, personale dei fratelli Chapman
Allestimenti della mostra The blind leading the dead, personale dei fratelli Chapman
Allestimenti della mostra The blind leading the dead, personale dei fratelli Chapman
Allestimenti della mostra The blind leading the dead, personale dei fratelli Chapman
Allestimenti della mostra The blind leading the dead, personale dei fratelli Chapman
Allestimenti della mostra The blind leading the dead, personale dei fratelli Chapman
Allestimenti della mostra The blind leading the dead, personale dei fratelli Chapman
Allestimenti della mostra The blind leading the dead, personale dei fratelli Chapman

Intanto, il fatto che la società occidentale odierna cerchi d’industriarsi in ogni modo per celare il dolore non significa che il dolore non esista più. Semplicemente, viene come accantonato, e quando si presenta in tutta la sua brutale ferocia il potere fa di tutto per arginarlo, per mitigarlo, per allontanarlo (lo s’è visto bene durante la pandemia). Jake e Dinos Chapman scelgono invece l’opposto: l’ostentazione del dolore in un lucido teatro fatto di ossa e di sangue, in una rumorosa orgia grandguignolesca che prosegue ininterrotta sin dagli anni Novanta, frastornante sino alla noia, ogni volta arricchita d’una nuova scena. L’ultima in ordine di tempo, per esempio, è Monument to immortality (2021), sarcastica serie di monumenti in bronzo che celebrano la mancata immortalità dei terroristi che, volendo farsi esplodere, speravano di raggiungerla, ma non ci sono riusciti perché il loro dispositivo non è entrato in funzione, non è esploso. Il tentativo di dimostrare che l’immortalità è una mera illusione trova sfogo poi nella serie One day you will no longer be loved, veri dipinti d’epoca vittoriana sui quali i fratelli Chapman intervengono con un’idea identica a quella che Asger Jorn metteva in pratica, negli anni Cinquanta, sui dipinti ottocenteschi da pochi soldi scovati tra le cianfrusaglie dei mercatini delle pulci: ovvero, modificano il contenuto del dipinto. Jorn, nella sua esuberanza situazionista, dava vita alle sue peintures détournées per avviare un dialogo col passato “finalizzato all’avvaloramento e all’attualizzazione” di quelle stesse manifestazioni artistiche ormai superate, oltre che “al rinnovamento culturale in generale” (così Daniele Panucci), mentre i fratelli Chapman producono una serie di vanitas per ricordare che quell’aspirazione all’immortalità è destinata a marcire. Diverse le intenzioni, identici i risultati: mostri bizzarri e grotteschi là dove prima c’erano tranquille vedute bucoliche (Jorn) o innocui ritratti vittoriani (Chapman). Utile l’inserimento in mostra della serie anche per ricordare come, in passato, i due fratelli inglesi abbiano fatto lo stesso anche su di una preziosa serie completa (pagata dagli artisti venticinquemila sterline nei primi anni Duemila) dei Desastres de la guerra di Goya (forse l’artista che più ammirano), e persino su alcuni acquerelli di Hitler.

Di poco precedente rispetto al monumento all’immortalità, è Monument to homeless representation, un’installazione che ruota attorno a un manichino abbigliato con la cappa bianca del Ku Klux Klan (e appuntata al petto la smiley face della cultura rave), sandali Birkenstock e rainbow socks dei figli dei fiori: una specie di ibrido confuso delle più antitetiche ideologie del Novecento colto mentre ha appena finito d’intervenire su di un quadro settecentesco, una copia di bassa qualità d’un’opera di Rubens custodita al Museum of Fine Arts di Boston (la Regina Tomiri con la testa di Ciro). Il visitatore deciderà di trovare l’interpretazione che più gli è congeniale (tentativo di redenzione? Il crollo delle ideologie che carica di nuovi e oscuri significati anche il passato? Un semplice scherzo?), così come si farà la propria idea osservando il minuziosissimo Un-happy Feet, uno dei tipici diorami dei fratelli Chapman popolati di minuscoli personaggi che si dedicano ad attività solitamente brutali e violente. In questo caso l’opera, del 2010, è una parodia del film per bambini Happy Feet: al posto dei tranquilli, rassicuranti, deliziosi e coccolosi pinguini del film originale, l’osservatore assiste a un’orda di uccellacci famelici che dilaniano senza pietà orsi bianchi, foche, balene e cetacei assortiti che hanno avuto la pessima idea di avvicinarsi alla riva abitata dagli orrorifici pinguini. Le interpretazioni, di nuovo, si sprecano: la rappresentazione simbolica di un genocidio, l’allegoria della natura che si rivolta contro l’essere umano, una metafora del cambiamento climatico. Nel percorso, poi, non poteva mancare un diorama coi cumuli di cadaveri che richiama il celeberrimo Hell, l’inferno di torture tra nazisti eseguito tra il 1996 e il 2000, andato distrutto nell’incendio del magazzino Momart di Leyton, e poi ricreato col titolo di Fucking Hell: in questo caso, le pile di morti ammazzati male formano le due torri di Nein! Eleven (2012-2013), allusione simbolica all’attentato delle Torri Gemelle del 2001 (coi morti che, a ben guardare, sono nazisti: come a dire probabilmente che gli orrori della storia si ripetono), che il pubblico italiano ha visto di recente alla spettacolare mostra Inferno di Jean Clair alle Scuderie del Quirinale. Il lotto si completa con Death, scultura fatta con due gonfiabili, uno maschile e uno femminile, impegnati in un 69 (sono stati esposti per la prima volta al Turner Prize del 2003, dove i fratelli erano finalisti: alla fine vinse Grayson Perry), con un paio di sculture dedicate all’onnipresente junk food di McDonald’s, con una serie d’incisioni e con la straziante e burlesca I wanted to punish myself, protagonista un pollo che si tortura da solo azionando un macchinario che gli conficca un chiodo in un occhio, ottimo manifesto dello humour infantile e nero dei fratelli Chapman, e parte di una serie di macchine dove il pennuto ne subisce di tutti i colori.

Jake e Dinos Chapman, Two Faced Cunt (1997; fibra di vetro, resina, vernice, parrucche, scarpe da ginnastica, 103 x 56 x 32 cm)
Jake e Dinos Chapman, Two Faced Cunt (1997; fibra di vetro, resina, vernice, parrucche, scarpe da ginnastica, 103 x 56 x 32 cm)
Jake e Dinos Chapman, Monument to Immortality II (2021; bronzo dipinto)
Jake e Dinos Chapman, Monument to Immortality II (2021; bronzo dipinto)
Jake e Dinos Chapman, Monument to Immortality VII (2021; bronzo dipinto)
Jake e Dinos Chapman, Monument to Immortality VII (2021; bronzo dipinto)
Jake e Dinos Chapman, opera dalla serie One day you will no longer be loved (2008; olio su tela)
Jake e Dinos Chapman, opera dalla serie One day you will no longer be loved (2008; olio su tela)
Jake e Dinos Chapman, Monument to Homeless Representation (2019; tecnica mista)
Jake e Dinos Chapman, Monument to Homeless Representation (2019; tecnica mista)
Jake e Dinos Chapman, Monument to Homeless Representation, dettaglio del dipinto
Jake e Dinos Chapman, Monument to Homeless Representation, dettaglio del dipinto
Jake e Dinos Chapman, Unhappy feet (2010; tecnica mista)
Jake e Dinos Chapman, Unhappy feet (2010; tecnica mista)
Jake e Dinos Chapman, Unhappy feet, dettaglio
Jake e Dinos Chapman, Unhappy feet, dettaglio
Jake e Dinos Chapman, Nein! Eleven (2013; tecnica mista)
Jake e Dinos Chapman, Nein! Eleven (2013; tecnica mista)
Jake e Dinos Chapman, Nein! Eleven, dettaglio
Jake e Dinos Chapman, Nein! Eleven, dettaglio
Jake e Dinos Chapman, Death II (2003; bronzo dipinto)
Jake e Dinos Chapman, Death II (2003; bronzo dipinto)
Jake e Dinos Chapman, I wanted to punish myself (2008; bronzo dipinto)
Jake e Dinos Chapman, I wanted to punish myself (2008; bronzo dipinto)
Jake e Dinos Chapman, I wanted to punish myself, dettaglio
Jake e Dinos Chapman, I wanted to punish myself, dettaglio

I Chapman Brothers hanno da poco festeggiato i trent’anni di carriera, e la loro arte non è cambiata d’una virgola rispetto a quando hanno cominciato a sorprendere i visitatori delle loro mostre. Aspetto che è perfettamente in linea col loro modo d’intendere l’arte: se non c’è niente di nuovo da dire, ripetere il già detto è fondamentale. L’originalità non è mai stata, in tutta la storia dell’arte prima del Romanticismo, il metro di valutazione della bontà di un’opera d’arte. Così ancor oggi, consegnati al ricordo gli anni Novanta, i loro lavori si muovono tra gli anelli della lunga catena del postmoderno, del quale i fratelli d’origine greca rappresentano indiscutibilmente l’anima più cupa e disincantata. La loro intera produzione è una sequenza di racconti sull’irrazionalità, sulla furia distruttiva, sulla malvagità dell’essere umano, e la mostra, col suo allestimento volutamente confuso e ordinato, avvolge il visitatore con le scene di questa tragedia estrema fino al parossismo. È però cambiato il mondo attorno alle loro opere: in un presente in cui sono sufficienti pochi passaggi col proprio cellulare per accedere a immagini di violenza spesso ben più cruda di quella esibita nelle messinscene dei fratelli Chapman, e infinitamente più inquietante e disturbante poiché reale, si presume che si sia drasticamente ridotta la percentuale di pubblico che rimane interdetta, impressionata, sconvolta, turbata dinnanzi alle loro opere. Oggi, notava già qualche anno fa Adrian Searle, il critico d’arte del Guardian, tra le poche firme a produrre ancora una critica d’arte degna di tal nome, l’arte dei fratelli Chapman “è divertente, più che scioccante: alla fine, ci si concentra sul loro mestiere, sul disegno, sul valore della produzione. I fratelli Chapman sono molto bravi a fare quello che fanno, anche quando fanno le cose male di proposito”. Quello che si consuma abitualmente attorno alle loro opere è melodramma, è circo. Il vero shock, suggerisce Searle, sta altrove, e i fratelli Chapman lo sanno bene. L’apparente paradosso sta nel fatto che il divertimento che le loro opere suscitano è più incline ad assecondare il retroterra filosofico sul quale germogliano i lavori dei due fratelli.

Nel catalogo della personale di Jake e Dinos Chapman alla Tate di Liverpool nel 2006, si possono scorrere le pagine d’un saggio di Tanya Barson che s’intitola Powers of laughter, i poteri della risata, dove si legge che le risate suscitate dalle opere dei fratelli Chapman riportano a Nietzsche e a Bataille. La risata è la reazione che, nella parabola del folle di Nietzsche, l’annuncio della morte di Dio suscita sulle bocche dei non credenti. E secondo Bataille, scrive Barson, “Dio è il nulla a misura d’uomo, così da dare un’immagine o una maschera alla trascendenza: la risata ci riporta all’immanenza, all’esistenza qui e adesso, sebbene più consapevoli dei limiti dell’essere, e capaci di ridere più fragorosamente per aver raggiunto il limite”. L’arte dei fratelli Chapman è la risata di fronte al limite, è la loro posizione dinnanzi alla nevrosi collettiva, è il loro modo per sottolineare il reale, e in questo senso la loro produzione è una sorta di reiterazione di un’opera che già esiste. È come se ti guardassero e ti dicessero respice finem col sorriso sulle labbra. Se l’arte oggi è diventata un anestetico, loro ci ridono sopra. È con una risata che s’afferra la complessità semplice del loro lavoro. Le loro opere vanno osservate come una sorta di registrazione, come il racconto, anno per anno, della direzione che abbiamo imboccato. E questa direzione, per loro, è l’estinzione. Ma è una direzione che seguiamo fin dalla preistoria: è semmai la velocità a variare (in base agli avanzamenti della tecnologia, ritengono i fratelli Chapman). La loro idea è semplice e, direbbero in tanti, disarmante: l’estinzione d’una specie sta nell’ordine naturale delle cose, ed è difficile accettare quest’idea se si presuppone che la nostra esistenza abbia uno scopo superiore (sarà così più chiaro anche il titolo scelto per la mostra). La creazione artistica, di conseguenza, si configura come presa di consapevolezza. C’è la possibilità di ricavare qualcosa di positivo, c’è la possibilità d’una redenzione? Non è un problema di Jake e Dinos Chapman: per loro, quando un’opera esce dal suo studio diventa un problema del pubblico. E allora, discutendo sulla prospettiva che la produzione dei due fratelli pone al cospetto dello spettatore, gli ottimisti replicheranno col più ovvio dei “grazie al cazzo”, evidenzieranno che la scadenza è a lungo termine e opporranno la loro sacrosanta visione del mondo, i pessimisti constateranno che tanto moriremo tutti e ricorderanno con Bataille che la pratica della gioia di fronte alla morte è la cosa più importante, i più onoreranno le loro opere inscrivendo il tutto nelle categorie del “wow che figo” oppure dell’“oddio che oscenità” e al massimo si confronteranno sull’opportunità di mostrare o meno le scene di tortura che popolano il loro repertorio. Ordinaria amministrazione nella società palliativa dove tutti cercano la felicità a qualunque costo.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).




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