La notizia dei Corridori di Ercolano disposti a fare da tappezzeria a una sfilata di moda, del Bacco di Caravaggio esposto a una mostra mercato del vino, o del Salvator mundi del Bernini messo all’imbarco di un aeroporto, impone, di volta in volta, un immediato controllo del calendario, per assicurarsi che non si tratti di un pesce d’aprile. Verificato che non è così, viene subito in mente un vecchio ricordo di scuola: la cena di Trimalcione narrata nelle pagine del Satyricon di Petronio. Come dovrebbe sapere ogni studente di liceo, è il racconto di un copioso banchetto offerto un paio di millenni fa, nella Roma dell’imperatore Nerone, da un liberto fattosi enormemente ricco, che lo scrittore latino seppe trasfigurare in immortale emblema del cattivo gusto. I bizzarri decori dell’opulenta dimora, la pacchiana esibizione del personale di casa, la successione delle mirabolanti portate e i modi rozzi ed eccessivi dell’ospite si risolvono infatti in un grossolano sfoggio del lusso fine a sé stesso, privo di qualsiasi eleganza o raffinatezza. Dunque per le indiscrete esibizioni dei bronzi da Ercolano, di Caravaggio e Bernini, ben prima che alle questioni di conservazione, il pensiero va al Satyricon: certe esaltazioni del kitsch, infatti, non avrebbero fortuna, e né modo di esistere, se non vi fossero novelli Trimalcioni.
D’altronde il mondo latino non ci porta fuori tema, dato che il fenomeno delle riproduzioni di opere d’arte, come ben noto, era quanto mai diffuso nella Roma imperiale, attraverso repliche da originali sculture greche, sovente di altissima qualità e di notevole valore commerciale. Un esempio per tutti: l’Ercole Farnese del Museo Archeologico Nazionale di Napoli è una riproduzione in marmo, firmata dall’ateniese Glicone, di un perduto bronzo di Lisippo, del quale si conoscono ulteriori repliche antiche. A sua volta l’Ercole Farnese, rinvenuto alle Terme di Caracalla verso il 1546, godette di immediata fama, proseguita fino ai giorni nostri, dando vita anch’esso, nel corso dei secoli, a infinite riproduzioni, nei materiali più eterogenei e nelle dimensioni più diverse. Ciò basti a ricordare banalmente quanto la ripetizione seriale sia profondamente, e da sempre, connessa con il successo di un prodotto artistico: è consueto che un capolavoro sia replicato, e tra le sue copie possono esserci a sua volta capolavori, si pensi al gruppo del Laocoonte di Baccio Bandinelli agli Uffizi.
Con l’epoca della riproducibilità tecnica, come ha insegnato Walter Benjamin, l’opera d’arte ha perso tuttavia la sua “aura”, e così pure le repliche d’autore, sostituite da riproduzioni estremamente fedeli, ma assai spesso prive di cuore e di carattere. È nell’evidente obiettivo di recuperare l’“aura” dell’opera d’arte, che in tempi recentissimi la tecnologia ha saputo elaborare lo strumento degli NFT, con risultati eccezionali per il mercato reale e soprattutto digitale. Si deve riconoscere a Palazzo Strozzi il merito di avere proposto a un pubblico più tradizionale, e assai meno familiare con tali esiti, la mostra Let’s digital (2022), dedicata agli NFT e alle nuove e sorprendenti realtà dell’arte digitale, mentre gli Uffizi avevano da poco messo in vendita il Tondo Doni in versione NFT, confermando che il fenomeno della riproduzione delle opere d’arte antica trova un significativo spazio anche nell’ambito della criptoarte.
In verità la tecnologia non mette a disposizione nulla di così nuovo, se si pensa che, intorno agli inizi del Novecento, non era infrequente che le mostre d’arte antica, per favorire la comprensione del pubblico e le riflessioni dei connoisseur, presentassero diligenti calchi accademici di sculture inamovibili o fotografie di opere di confronto. Più che il grado di precisione della riproduzione, la questione riguarda dunque l’“aura”, e di conseguenza il livello di consapevolezza dello spettatore e di chi decide di esporre un originale o una replica in un particolare contesto.
Il pubblico che si affolla al Louvre davanti alla Gioconda di Leonardo, o in San Pietro di fronte alla Pietà di Michelangelo, per catturarne le immagini magari in un selfie, è sedotto esclusivamente dall’“aura” di quei capolavori. La distanza e le protezioni, infatti, rendono impossibile una contemplazione attenta e misurata, e se gli spettatori, senza saperlo, mirassero delle repliche fedelissime, invece degli originali, la loro esperienza di devoti della sacralità dell’“aura” ovviamente non subirebbe alcun trauma.
In una mostra intelligente, invece, gli originali si devono potere esaminare nei loro aspetti formali e materiali con cura, e, al di là dell’“aura”, le repliche possono anche starci, soprattutto per la loro funzione didattica: un calco ben fatto di un marmo impossibile da trasportare può essere utile a un confronto, così come una fotografia può evocare un capolavoro perduto, aiutare la ricostruzione di un complesso smembrato o sostituire un disegno tornato a casa per ragioni di conservazione. La responsabilità della selezione spetta tuttavia al curatore. È lui che di volta in volta deve valutare con giudizio ed equilibrio, affinché la riproduzione sia sempre ben riconoscibile e non si conquisti l’attenzione più di un originale, rischiando di creare equivoci ai visitatori e mettendo in ombra i veri protagonisti. In tal senso le repliche quanto mai puntuali offerte dalla tecnologia dei nostri giorni possono essere più pericolose che convenienti. E la guida migliore, per evitare le imbarazzanti gaffe di Trimalcione, deve essere sempre il buon gusto, fondato nel nostro caso sulla conoscenza vera e appassionata del patrimonio e del suo valore culturale.
Quel buon gusto venuto decisamente a mancare nella scelta di portare Caravaggio in fiera e Bernini al check-in, col solo scopo di esibirne l’“aura” per fini di vana e futile ostentazione, e che tende a finire quotidianamente strangolato dal business connesso con i miti contemporanei della comunicazione, del marketing e delle imprese culturali. Evidentemente Oscar Wilde era troppo ottimista, quando annunciava un futuro in cui il potere sarebbe stato nelle mani dei più raffinati (“it is the exquisites who are going to rule”; A Woman of No Importance, 1893). Anzi, era davvero un cattivo profeta.
Questo contributo è stato pubblicato originariamente sul n. 18 della nostra rivista cartacea Finestre sull’Arte on paper. Clicca qui per abbonarti.