In Italia è esistita una sorta di golden age delle mostre, ricca d’eventi di portata internazionale e frutto di prestigiose collaborazioni e corpose campagne di prestiti, che oggi è inesorabilmente finita, complice un’autarchia nella quale i nostri musei sono piombati e dalla quale devono risollevarsi tornando a progettare mostre necessarie. Questa, grosso modo, è la tesi di Vincenzo Trione, che dalle colonne del Corriere lancia oggi una reprimenda (Il ruolo culturale (che c’è poco) nei musei), intrisa di nostalgia per certi presunti bei tempi che furono, al nostro sistema museale, incapace, a suo dire, d’esercitare ancora un ruolo culturale di primo piano. “Formidabili quegli anni”, dice Trione, quando c’erano palinsesti “ricchi di mostre destinate a rimanere”: il critico non dice quali siano stati gli anni formidabili, né quali siano state le mostre destinate a rimanere, quindi l’accusa rimane molto vaga, e toccherà pertanto andare un poco a tentoni nel formulare una risposta. L’accusato sembra però essere delineato con una certa precisione, dal momento che Trione, attuale Presidente, dal 2020, della Fondazione Scuola Beni Attività Culturali del Ministero della Cultura, nel suo articolo cita Capodimonte, Brera, Uffizi e GNAM, ovvero quattro musei statali. È vero allora che i musei statali non sono più in grado di organizzare mostre importanti?
La risposta breve, ovviamente, non può che essere negativa: i nostri musei statali sono ancora in grado d’organizzare mostre di qualità, necessarie, di respiro internazionale, dense di prestiti da musei stranieri, attrattive per pubblico e studiosi, colme di novità scientifiche, risultato di studî lunghi e approfonditi. Giusto per citarne tre al volo organizzate dai musei statali nell’ultimo anno, vengono alla mente quella su Urbano VIII a Palazzo Barberini, quella sul Perugino alla Galleria Nazionale dell’Umbria e quella su Eleonora di Toledo a Palazzo Pitti. Non staremo qui a ribadire perché son state tre mostre di qualità e di alto livello (chi vorrà approfondire, troverà su queste pagine le relative, dettagliate recensioni, riccamente illustrate): ci limiteremo a sottolineare che queste tre rassegne sono sufficienti per dimostrare che un pubblico interessato alle grandi mostre di rilievo, e magari anche a vedere capisaldi della storia dell’arte che dall’estero vengono prestati all’Italia (lo Sposalizio del Perugino, o la Morte di Germanico di Poussin, per esempio), trova ancora occasione di recarsi nei nostri musei statali. L’intemerata di Vincenzo Trione dev’essere però meglio contestualizzata, anche se non sappiamo a quale età dell’oro il critico faccia riferimento, né quali grandi mostre abbia in mente.
Naturalmente non serve andar troppo lontani nel tempo, anche se uno dei rari esempi, relativi all’arte antica, che Trione adduceva nel suo Contro le mostre, era la rassegna su Caravaggio a Palazzo Reale del 1951: ovvio che se i riferimenti son questi il panorama attuale non può che sembrare desolante, ma stiamo introducendo un paragone con le stagioni pionieristiche della storia dell’arte, e rimpiangere mostre su Caravaggio come quella di Longhi equivale a lamentarsi perché non si organizzano più spedizioni esplorative delle coste australiane (sebbene, ovviamente, ancora oggi siano molti i territorî inesplorati della storia dell’arte). Al massimo, pensando al cinema, si potrebbero introdurre dei remake aggiornati, come era accaduto qualche anno fa a Palazzo Reale con la mostra Arte lombarda dai Visconti agli Sforza, che replicava un’omonima rassegna del 1958 tenuto conto delle evoluzioni della materia nei sessant’anni successivi. E dal punto di vista del metodo ovviamente dagli anni Cinquanta a oggi abbiamo fatto qualche progresso, quindi rifarsi a quei modelli è proposito non più attuale, a meno che non si parli, genericamente, di progetti frutto di accurati lavori scientifici come risultato di studî lunghi e accurati. E, in questo caso, oggi gli esempi buoni non mancano. Si può allora partire da uno spartiacque, ovvero la riforma Franceschini, che ha concesso ai musei anche l’autonomia “culturale”, per così dire, rendendo i direttori liberi di decidere che linea tenere per i proprî istituti. Si prenda Brera, per esempio: l’ultima “grande mostra” (ammesso che “grande” vada inteso anche nel senso della quantità, e a Brera, per problemi di spazio, non ci sono mai state, almeno in tempi recenti, mostre con decine di prestiti) può essere considerata quella su Giovanni Bellini del 2014 (una trentina di opere in tutto, anche se tutti lavori di prim’ordine). Poi, il primo direttore autonomo, James Bradburne, con una scelta politica più che legittima, ha deciso di concentrarsi soprattutto sulle collezioni, rinunciando alle “grandi mostre” per allestire piccoli focus mirati. Diverso il caso degli Uffizi, che al contrario non hanno mai rinunciato alle mostre di ampio respiro e, forti della propria autonomia, hanno addirittura intensificato il calendario rispetto al periodo pre-riforma e si sono anche ulteriormente aperti al territorio con un’operazione encomiabile come gli Uffizi Diffusi. A Palazzo Barberini la situazione è addirittura migliorata dacché col recupero delle sale al pian terreno dell’Ala Sud è stato aperto, solo tre anni fa, il nuovo “Spazio Mostre” che ha già ospitato rassegne di grande rilievo, come quella sulla Giuditta o quella sulle arti al tempo di Galileo, e la già citata mostra su Urbano VIII.
Per molti musei autonomi poi (quasi tutti), la nuova situazione ha fornito l’occasione per estesi e irrimandabili riallestimenti che hanno interessato tutti i musei nel loro complesso: naturale, dunque, che un museo concentrato nel rendersi moderno e presentabile possa aver rivisto, giustamente, le sue priorità e possa aver dunque rimandato a data da destinarsi i grandi appuntamenti (che comunque ci sono stati e ci sono tuttora). E probabilmente, se i musei avessero concentrato il loro impegno sulle mostre e non sulle loro collezioni, contro di loro oggi sarebbero piovute accuse di diverso tenore. Occorre poi ricordare che siamo in un momento di sostanziale ripensamento delle politiche museali: il caso di Brera è sempre meno isolato, la pratica del prestito oneroso è sempre più diffusa e spesso mette in difficoltà le realtà più piccole, l’impegno dei musei è indirizzato verso attività più sostenibili e più urgenti, e in questo quadro anche l’eventuale rinuncia alla “grande mostra”, all’enorme e irripetibile rassegna con centinaia di opere, non necessariamente significa l’abbandono, da parte del museo, del proprio ruolo culturale. Significa semplicemente che la sua azione si sta spostando. Sulle pagine del nostro cartaceo, Suhanya Raffel, direttrice del Museum for Visual Culture di Hong Kong, intervenendo sul tema dei musei alla sfida della sostenibilità, spiegava che “possiamo, come istituzioni”, estendere “i periodi di esposizione” e cercare “una condivisione più locale e regionale delle mostre basate sulle collezioni”. Un museo che volge lo sguardo alle proprie collezioni, magari con appuntamenti ripetuti, concentrandosi sul territorio e pensando alla sostenibilità (ambientale, finanziaria), è un museo che non solo sta invitando il pubblico locale (ovvero quello che dovrebbe essere il proprio pubblico, il pubblico che dovrebbe frequentare abitualmente il museo, senza aspettare la grande mostra) a compiere ripetuti ritorni, ma sta anche assumendo una posizione culturale ben definita e significativa. Perché questo dovrebbe essere un ridimensionamento del ruolo culturale di un museo?
È vero poi che negli anni recenti ci sono state tante scelte discutibili: mostre non esattamente indimenticabili, blockbuster banali che offuscano le mostre di ricerca, musei che hanno deciso di diventare soggetti esportatori (come Capodimonte). Ma i nostri musei hanno ancora capacità, forze e risorse finanziarie per organizzare mostre importanti, al pari di quelle internazionali, con in più la caratteristica che in Italia anche il pubblico delle periferie ha l’occasione di visitare rassegne importanti. Occorre però anche domandarsi, senza sospirare pensando al passato, se il paradigma della “grande mostra” può dirsi ancora in grado di rispondere alle sfide che i musei devono fronteggiare negli anni presenti. I numeri dei visitatori dei musei, in crescita pressoché ovunque, dimostrano che anche la domanda è in crescita. Ma che cosa chiedono i visitatori? Il sistema delle mostre era già in vistosa trasformazione negli anni che hanno preceduto il Covid, e la pandemia ha semmai reso evidente la necessità di un cambiamento verso mostre più mirate, più verticali, di valore. E credo che diversi musei statali abbiano ormai compreso che la trasformazione è in atto e abbiano già cominciato ad attrezzarsi allo scopo.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).