Museo Unico di Calenda, l'aspetto di cui nessuno parla: il modello gestionale che ha in mente


Sulla proposta di Carlo Calenda per un Museo Unico che accorpi tutte le collezioni d'arte romana antica di Roma, nessuno si è soffermato sul modello gestionale proposto: una fondazione partecipata. Che è forse l'aspetto più inquietante della sua proposta: ecco perché.

Quando Carlo Calenda ha pubblicato, il 20 agosto, un video di 4 minuti sui suoi social in cui spiegava la sua idea di “Museo Unico” per Roma, sgomberando il Campidoglio e portando lì tutte le collezioni dei principali musei che raccontano la Roma antica nella Capitale, in molti avevano pensato che fosse un’idea destinata a morire in fretta: destrutturare e spostare collezioni con anche molti secoli di storia, smontare musei con altrettanta storia, o veri gioielli della museologia contemporanea come la Centrale Montemartini, per creare un museo di arte antica, solo romana, grande “49 mila metri quadri” (quasi come il Louvre, ma con molta meno varietà nelle collezioni), poteva sembrare una proposta nata da una poca conoscenza dei musei romani e delle tendenze della museologia contemporanea, utile tuttalpiù a creare un dibattito su un tema finora ai margini della campagna elettorale (cosa che effettivamente è accaduta).

Invece non è andata così. Non solo Calenda ha continuato ossessivamente, nei giorni a seguire, a parlare dell’idea del “Museo Unico” nelle sue pagine social, arrivando ad annunciare di voler organizzare un dibattito online sul tema. Ma, soprattutto, seppur in netta minoranza, alcuni giornali e figure di spicco hanno scritto di appoggiare l’idea di “mettere insieme” i musei romani. A ben vedere, però, la sostengono solo in teoria. Vittorio Sgarbi, in particolare, nel suo intervento dice di approvare l’idea di Calenda, ma di fatto sostiene altro, dicendo che vada “interpretata e emendata”. Sgarbi non sostiene alcun Museo Unico (che invece è, esplicitamente, la proposta di Carlo Calenda), ma “un solo biglietto” che deve “offrire le chiavi di Roma, deve dar diritto, in una settimana, ad aprire ogni porta”. Francesco Bonami, l’unico che al momento sembra appoggiare l’idea di accorpare fisicamente le collezioni, ritiene “razionale” il fatto di “mettere sotto un solo capello, al Campidoglio, un gruppo di collezioni della città adesso dislocate in varie sedi” perché “un amministratore e un sindaco in particolare deve tutelare il patrimonio culturale della città che andrà a governare, ma anche deve tutelare la qualità del tempo dei propri clienti, cittadini e visitatori temporanei”.

Carlo Calenda al Campidoglio
Carlo Calenda al Campidoglio

Sono posizioni isolate, e che stupiscono: la proposta di Calenda non solo creerebbe un museo in grado di stancare anche il più audace dei visitatori, smontando collezioni uniche, ma ignora completamente l’esistenza del polo museale dell’EUR, che riceverebbe un grosso danno dalla scissione dei musei del centro, uniti in un unico istituto, e della periferia. E ignora il fatto che per un turismo lento, che spinga i visitatori a stare più tempo possibile a Roma, serve l’esatto contrario di un “megapolo”. E per avere una bigliettazione unitaria non servono rivoluzioni: basta spingere i vari istituti a crearla. Va ribadito che le posizioni aperte alla proposta di Calenda sono molto isolate, però sono nette, seppur mal argomentate. Perché sostenere una proposta a prescindere da tutto? Perché tanto interesse per l’unificazione musei del centro, e tanto disinteresse per tutti gli altri musei di Roma? La risposta forse può essere individuata in una parola: fondazione.

Benché infatti nel video di lancio Calenda sia ben poco concentrato sul tema della gestione del nuovo museo (“le collezioni siano dello Stato, non c’è una lotta su di chi siano le collezioni, è un modo stupido di pensare...”, dice), nella proposta pubblicata nel sito in realtà la cosa è dichiarata esplicitamente: “La nostra proposta è quella di creare una fondazione partecipata dal Comune e dal MiC, alla quale affidare la gestione del nuovo percorso culturale”. Altro che “dello Stato”: una gestione demandata a terzi, a una fondazione di diritto privato. Sarebbe d’altronde l’unico modo, con la legislazione vigente, di avere una gestione unica di collezioni statali e civiche, un modello già sperimentato ad esempio ad Aquileia o a Cabras (caso in cui la nascita della fondazione innescò un duro scontro istituzionale).

È un modello gestionale in piena espansione, perché permette, usando le parole della Corte dei Conti in una delibera del 22 dicembre 2020, “una gestione delle risorse assegnate in maniera più agile” rispetto all’amministrazione pubblica ma, nota la CdC, “sicuramente meno regolamentata e responsabilizzata, nonostante tali entità basino la propria attività su un utilizzo totalizzante di risorse pubbliche”. Permette inoltre di nominare dirigenti e amministratori senza passare per un concorso pubblico: nonostante sia entrato molto in crisi con il lockdown, a causa del crollo degli introiti di turismo e bigliettazione, non smette di essere il modello favorito per una certa parte di classe dirigente, che preferisce avere un controllo diretto sui musei locali partecipando alla Fondazione.

Ma Roma i più grandi musei non sono gestiti da fondazioni. Diversamente da quanto accade, ad esempio, a Venezia, dove i Musei Civici sono gestiti da una Fondazione dal 2007. Ma anche a Torino o a Milano le più importanti realtà culturali cittadine (il Museo Egizio e la Triennale) sono fondazioni da un pezzo. A Roma no. Il MAXXI, la più grande fondazione museale di Roma, si attestava nel 2019 a 429 mila visitatori, meno dei Musei Capitolini. I musei più importanti sono pubblici, statali (il Colosseo), civici (i Musei Capitolini) o ecclesiastici (i Musei Vaticani). Le fondazioni esistenti sono piuttosto marginali nel panorama nazionale (il MAXXI e il Teatro dell’Opera) per fatturato.

Un “museo di Roma antica” unico, che cannibalizzi Capitolini, Civiltà Romana, Crypta Balbi, Centrale Montemartini, Palazzo Braschi, Palazzo Altemps, Palazzo Massimo sarebbe invece ben più competitivo come fatturato e possibile movimentazione di denaro, e quindi possibilità di nomine dirigenziali ben remunerate: non a caso si propone un museo di arte antica, non un museo che racconti la storia di Roma, dalla preistoria all’età contemporanea, che sarebbe molto meno “vendibile” al turista. Ancor più se a questo aggiungiamo le collezioni delle pinacoteche, appena accennate nella proposta ma che è chiaro rientrerebbero nel nuovo assetto proposto. Poco male se la Corte dei Conti, nella delibera sopracitata, spiegava che “la creazione di una fondazione (compresa quella di partecipazione) dovrebbe essere oggetto di approfondita valutazione, e ponderazione da parte dell’ente locale” poiché a differenza del conferimento di beni pubblici a una società, prevede “un conferimento ‘tendenzialmente perpetuo’ del patrimonio”, e quindi qualora le cose dovessero andare male, il recesso di Stato ed enti locali dalla fondazione non prevede la restituzione del patrimonio conferito. Esattamente il contrario del ragionamento di Calenda, che dice visto che vogliamo mettere insieme tutte le collezioni, facciamo una fondazione: non proprio una approfondita valutazione e ponderazione.

Spiegate quindi le isolate posizioni in sostegno dell’idea? Sgarbi invita i candidati del centrodestra a sostenere la proposta: ma quale? Quella, sconclusionata, di un nuovo museo unico, o quella di un nuovo soggetto privato gestore del patrimonio museale romano, o semplicemente quella di un biglietto unico per tutti i musei di Roma? Parliamo di una città in cui gli interessi sulla gestione economica del patrimonio culturale non si contano, con un bando per i servizi del Colosseo che non arriva a conclusione da 21 anni, operatori di musei statali messi a lavorare a meno di 5 euro l’ora, e i musei civici gestiti da una enorme società partecipata, Zétema, che fatturava nel 2019 54 milioni di euro annui.

La sensazione è che, nei prossimi anni, entrerà con forza anche a Roma il tema della gestione privata del patrimonio culturale, con diversi consiglieri comunali che porranno la questione. Nei giorni in cui Venezia lamenta la chiusura tre giorni a settimana dei suoi musei per volere della Fondazione che li gestisce, è bene che cittadini romani e non tengano alta l’attenzione. Se parliamo di allestimenti, parliamo di una cosa. Se parliamo di gestione, dei musei e degli introiti, parliamo di un’altra.


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Leonardo Bison

L'autore di questo articolo: Leonardo Bison

Dottore di ricerca in archeologia all'Università di Bristol (Regno Unito), collabora con Il Fatto Quotidiano ed è attivista dell'associazione Mi Riconosci.





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