Trasformare i Musei Capitolini in un grande museo della storia di Roma che riunisca le collezioni dei vari istituti che oggi conservano le antichità romane della capitale (Museo Nazionale Romano, Museo di Roma, Museo della Civiltà Romana, Centrale Montemartini), in modo che i visitatori abbiano tutta l’epopea di Roma a disposizione in un’unica piazza, e liberare posto con lo sgombero di Palazzo Senatorio (il Municipio troverà altra sede) e di parte del Palazzo dei Conservatori (con lo spostamento della Pinacoteca Capitolina a Palazzo Barberini), e sperando che lo Stato metta a disposizione Palazzo Rivaldi. Quest’idea reca la firma di Carlo Calenda, candidato sindaco a Roma, che l’ha spiegata in un video pubblicato sui suoi canali social, illustrandola ulteriormente in alcune slide pubblicate sul suo sito.
Le motivazioni? Secondo le parole dello stesso Calenda, i Capitolini sono “un museo di concezione vecchia, per tante ragioni. La prima: mette insieme tante cose differenti, non le spiega, e dunque tu hai due collezioni, chiamiamole così, la Pinacoteca dove ci sono quadri strepitosi, dove ci sono Caravaggio, Van Dyck, Guido Reni e tantissime altre cose, e poi hai la collezione sostanzialmente di marmi romani tra cui alcune cose epiche”. E poi, la seconda ragione: gli allestimenti, secondo l’ex ministro, non consentirebbero al visitatore di comprendere appieno la storia di Roma. “Non si capisce nulla perché sono sale affastellate di statue, non si comprende niente della cultura romana, per esempio che in epoca repubblicana Roma ha fondato quelle che oggi sono le nostre istituzioni, ha fatto un lavoro per mettere insieme i diversi strati sociali... tutto questo non si comprende. Qual era il valore del Senato? Cosa si faceva nel Senato? Non sappiamo qual era il cursus honorum, cosa faceva un pretore, cosa faceva un console, cosa faceva un proconsole, come mai Augusto è riuscito a fare l’imperatore facendo finta di non essere re, perché la parola re era odiata dai romani. Tutto questo, che è la bellezza di Roma, non si comprende qui, e non si comprende anche in parte perché le collezioni sono frammentate: sono un po’ a Palazzo Massimo, un po’ qua, un po’ a Palazzo Altemps”. C’è poi un’ulteriore ragione: “Roma”, afferma Calenda, “non ha un grande museo pubblico rappresentativo della Città. Parigi, Londra, Stoccolma, Amsterdam hanno saputo creare grandi strutture dedicate alla loro storia, mettendo a sistema le opere più rilevanti e garantendo continuità e solennità alla narrazione”.
Naturalmente l’idea di Calenda, che vorrebbe spostare a piacimento le collezioni di mezza Roma da un museo all’altro, è del tutto irrealizzabile, per diverse ragioni: storiche, filosofiche, culturali, logistiche, legali, di opportunità.
Carlo Calenda nel video |
1. I Musei Capitolini hanno una storia che non si può snaturare né tanto meno cancellare. Stiamo parlando del museo più antico del mondo, la cui fondazione vien fatta risalire al 1471, anno in cui papa Sisto IV donò solennemente al popolo romano i grandi bronzi lateranensi (la Lupa, lo Spinario, il Camillo, la testa colossale di Costantino) che costituiscono il nucleo originario del museo, e che furono sistemati davanti alla facciata del Palazzo dei Conservatori. Già alla metà del Cinquecento, inoltre, la collezione si era notevolmente arricchita, al punto che nel 1654 si rese necessaria la costruzione del Palazzo Nuovo sul lato opposto della piazza rispetto al Palazzo dei Conservatori per dare spazio alle opere che l’edificio più antico non era più in grado di contenere (fu poi aperto al pubblico nel 1734). Si chiamano inoltre “Musei Capitolini”, al plurale, perché la Pinacoteca che Calenda vorrebbe spostare non è un inutile orpello, ma è parte integrante del complesso: fu fondata da Benedetto XIV, anch’essa sul Campidoglio, tra il 1748 e il 1750, in seguito all’acquisto di diverse decine di dipinti dei Sacchetti e dei Pio. Una raccolta che poi andò ad ampliarsi nei secoli successivi, ma che fin dalla sua fondazione è sempre stata legata al Campidoglio. Quella dei Musei Capitolini è insomma una storia plurisecolare che dev’essere rispettata: pensare di spostare i quadri della Pinacoteca solo per agevolare i turisti equivale a pensare di smontare il Colosseo e ricostruirlo da un’altra parte perché dove si trova adesso intralcia il traffico.
2. Tutte le collezioni di antichità romane dentro ai Musei Capitolini non ci stanno. Quando Calenda dice che le collezioni di antichità romane sono troppo frammentate tra i diversi musei della capitale e suggerisce di riunirle sul Campidoglio come ha detto in una recente intervista, sbaglia due volte: per ragioni logistiche e per ragioni storiche. Primo, tutte le antichità di Roma al Campidoglio non ci stanno, anche solo considerando le collezioni di Palazzo Massimo e di Palazzo Altemps (10.000 metri quadri in tutto di superficie espositiva) che andrebbero ad aggiungersi a quelle dei Musei Capitolini (circa 13.000 metri quadri, pochi di più se si libera il Palazzo Senatorio). Calenda suggerisce allora di chiedere allo Stato la disponibilità di Palazzo Rivaldi: ma allora che senso ha spostare tutto se poi comunque le collezioni, per ragioni puramente logistiche, devono per forza stare su più sedi? Evitare al turista di fare una camminata di un quarto d’ora a piedi per andare a Palazzo Massimo? Senza contare che ne sortirebbe un museo enorme solo di antichità classiche, che stroncherebbe la resistenza anche dell’appassionato più accanito (il Louvre, al contrario, ha collezioni che vanno dai tempi antichi fino al XIX secolo). Secondo, perché se le collezioni sono divise non è perché non siamo stati capaci di fare “come il Louvre” (il modello che Calenda aveva in mente nell’intervista di cui sopra: peraltro il Louvre è grande sei volte i capitolini, 73.000 metri quadri di esposizione contro poco meno di 13.000: diventerebbero più di 43.000 come auspicato da Calenda solo aggiungendo altre sedi, ma i 73.000 del Louvre sono su di un’unica sede, quindi il confronto è già sbagliato in partenza), ma perché sono nate in epoche e contesti diversi. A Palazzo Altemps, per esempio, c’è quanto resta della collezione che il cardinale Marco Sittico Altemps radunò nel Cinquecento, oltre ad altri importanti nuclei collezionistici di illustri famiglie romane. Palazzo Massimo, di più recente costituzione, è l’erede del Museo delle Terme, e casomai, se uno spostamento va fatto, avrebbe più senso spostare la collezione di Palazzo Massimo alle Terme di Diocleziano, dove è stata dal 1889, anno della creazione del museo nazionale, fino ai primi anni Ottanta (se n’era anche discusso qualche anno fa, poco dopo la riforma Franceschini, ma non se n’è fatto poi niente per ragioni di adeguatezza degli spazi). I Musei Capitolini sono invece i musei del Comune di Roma, nascono con questo senso, ed è per tal ragione che sono legati alla sede del Municipio, che è giusto stia lì per ragioni storiche (il Palazzo Senatorio è sede del municipio romano da secoli) e per ragioni simboliche, ovvero (una su tutte) per mostrare, anche al turista, che a Roma esiste una piena identificazione tra la comunità e il suo patrimonio.
3. Esiste già un museo sulla civiltà romana. Si trova all’Eur e si chiama, appunto, “Museo della Civiltà Romana”, e ricopre proprio quella funzione didattica auspicata da Calenda. E se Roma ha una priorità in campo museale, allora questa priorità è quella di riaprire finalmente questo museo, che è chiuso dal 2014 per lavori di riqualificazione che dovevano durare due anni. Un ritardo inaccettabile, e il Museo della Civiltà Romana è per di più un museo di competenza comunale, quindi la sua riapertura dovrebbe essere la prima priorità in campo museale di qualunque candidato sindaco. E allora è inutile fantasticare di un Louvre delle antichità romane, con valenza didattica, se il museo che dovrebbe assolvere alla funzione didattica è vergognosamente serrato da sette anni per ritardi, imprevisti, mancanze di fondi. Si lavori semmai per migliorare l’esistente: non soltanto il Museo della Civiltà Romana, ma anche, ad esempio, il Museo di Roma a Palazzo Braschi, altro museo sulla storia di Roma (e non solo) che non ha ancora trovato una linea ben definita.
4. E comunque non è vero che dai Musei Capitolini si esce senza saperne niente di storia romana. Si pensi per esempio alla parte di Palazzo dei Conservatori dove il visitatore ha modo di percorrere l’Area del Tempio di Giove Capitolino e, subito attaccata, l’esedra di Marco Aurelio. Arrivarci dopo aver percorso i corridoi delle Sale Castellani equivale a viaggiare nella parte più antica della storia di Roma, muoversi attraverso le origini della civiltà romana. Si può poi discutere di come questo percorso venga presentato e spiegato, ma considerata l’entità della raccolta dei Capitolini, un museo moderno dovrebbe porsi semmai l’idea di come costruire non un itinerario preconfezionato e uguale per tutti (come forse Calenda ha in mente), bensì percorsi diversi a seconda del tipo di pubblico, con materiale da mettere a disposizione in loco e online sulla base degli interessi dei singoli (sono queste le linee più aggiornate in fatto di museologia). È vero che ci sono tanti aspetti da migliorare, ma non quelli sottolineati da Calenda: per esempio il fatto che la Sala di Pietro da Cortona sia ridotta a una sala conferenze che disturba la corretta visione delle opere (per avere una corretta visione del Ratto delle Sabine di Pietro da Cortona bisogna farsi largo tra le sedie e per vedere i capolavori di Giovanni Maria Bottalla, peraltro rari, tocca addirittura salire sul palchetto dei relatori).
5. I Musei Capitolini non sono “di concezione vecchia”, ma anzi sono una sorta di miracolo museologico. E questo semplicemente perché, a Palazzo Nuovo, le raccolte sono ancor oggi sistemate secondo gli allestimenti settecenteschi. A Roma quindi non solo esiste il museo più antico del mondo, ma questo museo si presenta in parte al visitatore di oggi così come si presentava al visitatore del Settecento. In qualunque altro paese al mondo, un candidato sindaco probabilmente penserebbe a come valorizzare questo patrimonio: un allestimento settecentesco ha lo stesso valore delle opere che conserva.
6. Solitamente sulle collezioni antiche pendono vincoli pertinenziali. Sono quei vincoli che legano una collezione al loro contenitore e impediscono esattamente ciò che Calenda vorrebbe fare, ovvero spostamenti massivi con alterazioni deliberate dei legami storici tra contenitore e contenuto. E vengono adottati non perché le soprintendenze hanno concezioni passatiste dei musei o dei palazzi storici, ma per rispetto della storia di luoghi che andrebbero conservati come ci sono arrivati. Le collezioni dei musei non sono come le tessere del Tetris che si possono incastrare a piacimento per trovare lo schema più quadrato: sono il risultato di secoli di storia che non possono esser cancellati tutti in una volta con un colpo di spugna. Spostare dunque i quadri della Pinacoteca Capitolina a Palazzo Barberini (dove peraltro non c’è neanche spazio sufficiente per accogliere una raccolta così grande) perché così almeno le opere di Caravaggio stanno tutte in un unico posto sarebbe una violenza storica e culturale. Se il criterio è quello di riunire opere per genere, allora, già che ci siamo, visto che vogliamo recidere i legami storici tra collezioni ed edifici, perché non portarci anche i quadri di Caravaggio che stanno alla Galleria Borghese o quelli della Cappella Contarelli? Oppure fare a Palazzo Barberini il museo dei pittori super-star, e spostare quelli poco noti dalle altre parti? Sì, sarebbe una mostruosità, ma sarebbe un’idea non così lontana dal Louvre delle antichità romane.
7. Anche se si potesse farlo, mischiare collezioni appartenenti a enti diversi è problematico. Significa lungaggini burocratiche per trovare la giusta quadra (e se non la si trova il visitatore può esser costretto, per esempio, a pagare due biglietti per vedere due piani dello stesso edificio), significa competenze diverse, significa creare situazioni potenzialmente incresciose se un istituto è in salute e l’altro invece, per esempio, ha lacune nell’organico. Meglio lasciar perdere.
8. I musei non dovrebbero essere fatti a uso e consumo del turista. L’idea che i Musei Capitolini debbano essere stravolti perché il pensionato di Pittsburgh o il ragioniere di Dortmund devono sapere cosa facesse un proconsole è semplicemente aberrante. Nessun esperto di museologia si sognerebbe mai di costruire un museo attorno alle esigenze del turista, semplicemente per il fatto che non è questo lo scopo per cui nascono i musei (per Calenda potrebbe dunque essere utile partire dalle basi: leggere la definizione che l’ICOM dà del termine “museo”). A Roma ci sono “cinque musei” di antichità romane non perché ci piace far tribolare il turista, ma perché si tratta di istituti che si sono formati in epoche diverse, in contesti diversi, raccogliendo nuclei collezionistici che si sono originati nella maniera più disparata (dalle donazioni papali alle collezioni delle famiglie illustri, dai musei nati dopo l’Unità d’Italia ai progetti del dopoguerra), e questo perché la storia di Roma è estremamente complessa. E forse, anzi, per il turista è molto più utile e interessante conoscere questa straordinaria stratificazione, che non esiste in nessun’altra città del mondo, rispetto alle nozioni sulla storia romana, che può apprendere anche da un libro, se è proprio necessario che debba sapere la successione delle tappe del cursus honorum.
9. Nessun esperto della materia appoggerebbe un tale progetto. Nessuno storico dell’arte, archeologo, museologo, professionista della cultura serio avallerebbe un’idea come quella di Calenda, per tutte le ragioni sopra elencate. Vale il ragionamento che si fa in questi mesi per altre emergenze: della materia dovrebbero occuparsi gli esperti. E Calenda dovrebbe ascoltarli e farsi consigliare. Se invece quest’idea nasce dopo aver consultato un esperto, è bene si sappia che è come aver consultato un medico che suggerisce di curare la bronchite con l’imposizione delle mani.
10. Roma non ha un grande museo rappresentativo perché la sua storia non è quella di Parigi, di Amsterdam o di Stoccolma. La maggior parte delle città europee è legata a un periodo storico preciso che ha modellato le sue principali emergenze: Amsterdam al Seicento, Stoccolma al Settecento, Parigi all’Ottocento. Roma non ha un periodo che prevalga sugli altri, e questa stratificazione, oltre a essere ben leggibile nel centro storico, è il motivo per cui la capitale d’Italia non ha eguali nel resto del mondo, ed è anche uno dei motivi per cui i turisti la visitano. Quella che per Calenda è una frammentazione in realtà è una ricchezza, che rispecchia questa caratteristica di Roma. E l’idea di creare una “grande struttura dedicata alla storia” di Roma dove le opere vengano “messe a sistema” (fraseggio che va bene forse per una rete di startup, meno per i singoli pezzi del patrimonio culturale della città più bella del mondo) avendo a mente Parigi, Amsterdam e Stoccolma è nient’altro che un’idea di omologazione, che andrebbe semmai scongiurata. Il patrimonio museale di Roma non è poco attrattivo per il turista perché non esiste un mega-museo delle antichità, ma perché non esiste un sistema di mobilità simile a quello delle altre capitali europee, perché il traffico spesso è imbarazzante, perché ci sono tante aree del centro storico non adeguatamente valorizzate (l’idea di Calenda va invece in senso opposto e favorirebbe anzi le logiche dell’overtourism), perché il verde e gli arredi urbani non sono curati, per il degrado e la sporcizia, tutto efficacemente riassunto dal Guardian in un articolo del 2019, e tutti problemi che Roma si trascina da tempo e che l’attuale amministrazione non è stata in grado di risolvere. È da qui, semmai, che occorre partire per interrogarsi sul futuro della città e dei suoi musei.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).