L’11 giugno del 1445, l’antica compagnia di Santa Maria della Misericordia di Borgo San Sepolcro commissiona a Piero della Francesca (Borgo San Sepolcro, 1412 circa – 1492) una tavola da collocare nella chiesa della confraternita, obbligando l’artista a utilizzare la carpenteria in legno che era già stata affidata anni prima, nel 1428, a un falegname del posto, Bartolomeo di Giovannino d’Angelo: è questa la data da cui comincia la storia del Polittico della Misericordia, la prima opera documentata di Piero della Francesca che ci sia giunta. Il contratto era particolarmente dettagliato: la compagnia, il cui monogramma vediamo nelle due tavole agli angoli del polittico, nel registro inferiore, imponeva a Piero di eseguire le dorature in “oro fino” e di colorare le figure con colori pregiati, “soprattutto azzurro ultramarino”. L’artista s’impegnava inoltre a consegnare l’opera nello spazio di tre anni. Alla fine, la compagnia dovette attenderne addirittura una ventina per veder l’opera completata: nel mezzo, anche un richiamo ufficiale all’artista, nel 1454, dopo nove anni dall’incarico e un’attesa fin troppo paziente da parte della confraternita. I confratelli si accontentarono anche di un’opera realizzata con qualche ricorso ai collaboratori della bottega, sebbene nel contratto fosse specificato che ogni parte doveva essere realizzata dalla mano del maestro. E così, nel 1467, a ventidue anni di distanza dall’incarico, arrivò infine il saldo all’artista, che aveva impiegato così tanto tempo a completare il lavoro a causa delle tante commissioni e dei tanti impegni che lo avevano impegnato in tutti quegli anni (e, ovviamente, anche perché era un po’ venuto meno l’interesse per il Polittico della Misericordia, che si può forse considerare l’opera più tradizionale di Piero della Francesca, per quanto non le manchino interessanti elementi innovativi in grado di rendere questo lavoro un’opera di rilevante modernità). L’insieme era tuttavia atteso da ancor più tempo, perché correva ancora il 1422 quando Urbano di Meo Pichi, membro di una delle famiglie più illustri e facoltose di Borgo San Sepolcro, lasciava alla compagnia 60 fiorini d’oro per pagare una tavola da destinare all’altare maggiore della chiesa della confraternita. Nel 1430 era pronta la carpenteria, ed era già pronto anche il nome dell’artista che avrebbe dovuto dipingere le tavole, l’umbro Ottaviano Nelli, che però non portò mai a termine in lavoro, non sappiamo perché. Sta di fatto che, qualche anno dopo, la confraternita stabilì di rivolgersi a Piero della Francesca, che probabilmente si era già fatto notare nell’ambito dell’impresa del Polittico di San Giovanni in val d’Afra, e dunque era stato evidentemente individuato come l’artista adatto per il lavoro. Era giovane, era del posto, era promettente: tutti elementi che forse orientarono la decisione della confraternita.
Oggi abbiamo perduto la cornice originale del polittico, dunque non possiamo più vederlo così come lo vedevano i contemporanei di Piero (anche se possiamo farci un’idea: al Museo Civico di Sansepolcro, dove oggi il polittico è custodito, lo vediamo esposto secondo la più probabile ricostruzione): l’insieme è stato smembrato nel Seicento, e la carpenteria non è sopravvissuta. I fondi oro che caratterizzano tutte le tavole dell’insieme, fatta eccezione, ovviamente, per gli scomparti della predella (qui infatti era ammesso dipingere il fondo con paesaggi), dimostrano che la committenza di Piero non doveva essere particolarmente desiderosa di aggiornarsi sulle novità di quello che oggi chiamiamo “Rinascimento”: a Firenze, proprio in quegli anni, diversi artisti stavano sperimentando soluzioni innovative per le pale d’altare, che prevedevano l’abbandono della rigida ripartizione in scomparti tipica dell’arte medievale, oltre all’abbandono dei fondi oro. A Borgo San Sepolcro, l’eco di queste novità probabilmente non era ancora arrivata, oppure non aveva suscitato entusiasmo. Situazione comune a gran parte dell’Italia del tempo, del resto: non c’è da dimenticare che Firenze, al tempo, rappresentava l’avanguardia, se è concesso usare questo termine. Il lavoro di Piero della Francesca doveva dunque avere un assetto tradizionale. Nello scomparto centrale, l’artista dipinse la Madonna della Misericordia che sotto il suo manto protegge i membri della confraternita, mentre negli scomparti laterali ecco nell’ordine san Sebastiano, san Giovanni Battista, san Giovanni evangelista e san Bernardino da Siena. Nella cimasa, una Crocifissione, con ai lati le tavolette raffiguranti san Benedetto, l’Angelo annunciante, la Vergine annunciata e san Francesco. Nei pilastri laterali, tre santi a sinistra (Girolamo, Antonio e Arcano) e tre a destra (Agostino, Domenico ed Egidio), con sotto lo stemma della compagnia della Misericordia. Infine, nella predella, l’Orazione nell’orto, la Flagellazione, la Deposizione nel sepolcro, le Marie al sepolcro e il Noli me tangere.
Lo sguardo è inevitabilmente attirato dall’ampia figura della Vergine che abbraccia col suo manto i confratelli, quasi a creare una grande cupola per proteggerli. La Madonna è fissa, solenne, ieratica, bizantineggiante, le proporzioni seguono ancora il canone gerarchico dell’arte medievale: ovvero, più importante è la figura, più grande è la sua scala. E questo malgrado Piero sia pittore e scienziato allo stesso tempo, un teorico della prospettiva che tuttavia accetta una violazione delle proporzioni naturali. E poi, quella forma scultorea è “segno di tempi nuovi”, osservava Lionello Venturi, i suoi volumi che risolvono in maniera innovativa il problema dell’inserimento della figura nello spazio parlano inevitabilmente il linguaggio dell’arte rinascimentale, col risultato che lo scomparto centrale del Polittico della Misericordia oggi ci appare come una mirabile sintesi tra passato e futuro, tra antico e moderno. “Apre essa il gran manto azzurro, svelandone così il grande rovescio scarlatto e formandone, ad un tempo, un padiglione amplissimo a contenere i devoti, a proteggerli”, scriveva Roberto Longhi commentando l’opera. “S’inginocchiano costoro intorno al fusto vermiglio, disposti in libero emiciclo, tranquilli sotto la torre che li sovrasta di una tale gigantessa africana, sicuri anzi sotto il colonnato di pieghe. Nella grande struttura di questa Vergine è il segno di una nuova e impassibile umanità, ma anche di una nuova architettura, ché nel vano di questo mantello già si respira l’aria di un nicchione bramantesco e della Scuola di Atene. Chi consideri un istante il senso di una simile struttura conferita alla Vergine di Misericordia verrà a concludere che entro questa categoria della misura cristallina Piero fosse pago ed intento ad includere così l’umanità che la divinità. [...] Non v’è dubbio, intendiamo, che, per ossequio al sentimento suprematico della divinità, Piero abbia lasciato luogo e dimensioni principali della Vergine secondo il concetto del trecento, e che, dopo la libera simmetria del Battesimo, si sia volutamente assoggettato alla simmetria centrale e ritmica, facile ad assumer valore di simbolo. L’oro imposto dalla devozione dei confratelli veniva ad accentuare ancora quel significato e, insomma, tutta l’opera ne risulta di una severità arcanamente iconica e, addirittura, idolatrica che par servirsi di quel senso di non diroccabile stabilità che gli egizî scelsero come simbolo dell’eterna durata”.
Piero tratta lo spazio in modo unitario. C’è l’oro sul fondo, sì, ma diventa una pura convenzione: per l’artista quel fondo dev’essere uno spazio credibile, ed è per questa ragione che dal fondo sparisce qualunque decorazione, e l’oro diventa pura luce. Le figure sono quindi tutte illuminate da una luce naturale che proviene da destra, non ci sono punzonature né altre concessioni a qualunque decorativismo che avrebbe reso meno moderno il risultato finale, e addirittura, la pelliccia sul bordo del manto della Vergine risplende realisticamente della luce dorata che la illumina. Non stiamo ancora parlando d’un Piero della Francesca nella sua piena maturità, o almeno non per tutte le scene (si ricorderà che l’artista impiegò una ventina d’anni per portare a termine il lavoro): già nel 1922, Adolfo Venturi notava che la “costruzione sfaccettata della forma, alquanto rude e lignea”, ricordava le opere di Andrea del Castagno. Questo vale anzitutto per i santi di sinistra, quelli che presumibilmente Piero dipinse per primi, i più masacceschi dell’insieme: ma poiché il suo destino, come ebbe a scrivere Antonio Paolucci, non era quello del “Masaccio rinato”, Piero, nel giro di qualche anno, dalle figure più spigolose di sinistra passò a quelle più distese degli scomparti di destra fino ad arrivare alla tavola centrale, dipinta forse quando l’opera era in dirittura d’arrivo. C’è dunque nel Polittico della Misericordia tanto il Piero masaccesco degl’inizî (c’è pure possibilità di confronto diretto: si metta a paragone la Crocifissione della cimasa con quella che Masaccio dipinse per il polittico del Carmine), quanto l’evidenza concreta di quel mondo nuovo che sarebbe poi entrato nella sua arte con le opere della piena maturità, un mondo che qui si rivela soprattutto nella concezione monumentale, geometrica della figura della Vergine che appare come una sorta di grande cupola che protegge i fedeli in basso. Piero rinnova così un soggetto iconografico che aveva una storia lunga e che contava diversi esempî vicini a Borgo San Sepolcro: per esempio, la Madonna della Misericordia che Domenico di Bartolo aveva dipinto per l’ospedale di Santa Maria della Scala a Siena, oppure quella di Niccolò di Segna dipinta per la chiesa di San Bartolomeo a Vertine, vicino a Gaiole in Chianti, e oggi alla Pinacoteca Nazionale di Siena, e poi ancora la Madonna della Misericordia di Parri di Spinello al Santuario di Santa Maria delle Grazie di Arezzo (lo stesso artista aveva praticato in precedenza lo stesso soggetto in una tavola oggi al Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna di Arezzo). Rispetto a precursori e contemporanei, Piero si distingue anche per aver ridotto il numero di fedeli che trovano accoglienza sotto il manto della Vergine, e data anche la loro spiccata caratterizzazione individuale (pur nello slancio idealistico-geometrico che contraddistingue l’arte del pittore biturgense fin dai suoi esordî), non è da escludere che si possano rintracciare in quei volti i ritratti di precisi membri della confraternita, impossibili tuttavia da identificare. Andrà peraltro detto che nell’uomo alla sinistra del personaggio incappucciato è stato spesso riconosciuto un autoritratto dell’artista.
Piero della Francesca è riuscito a fondere tradizione e innovazione in un’opera destinata non soltanto alla confraternita della Misericordia, ma a tutta la comunità di Borgo San Sepolcro, e che doveva pertanto essere quasi una sorta di totem per la popolazione della piccola cittadina della Valtiberina: san Giovanni Evangelista è il patrono della città, san Giovanni Battista, raffigurato alla destra della Vergine, è invece il patrono di Firenze dalla quale Borgo San Sepolcro all’epoca dipendeva, sui pilastri si trovano le raffigurazioni dei santi Arcano ed Egidio che, secondo la leggenda, avrebbero fondato la città portando alla Terra Santa diverse reliquie tra cui una pietra del Santo Sepolcro (da cui il nome), e le tre scene della predella (quella centrale e le due di destra, che seguono le due di sinistra) ruotano attorno alle vicende occorse al sepolcro di Cristo dopo la Passione (la deposizione nel sepolcro, l’episodio del Noli me tangere e quello delle Marie e dell’angelo che annuncia loro la resurrezione). E poiché una comunità si prendeva cura dei bisognosi, il polittico di Piero della Francesca non manca d’elementi iconografici legati alla sua destinazione, la chiesa dell’ospedale gestito dalla confraternita della Misericordia: San Sebastiano, per esempio, era il santo che proteggeva dalla peste e dalle malattie, mentre san Bernardino era colui che, nel Quattrocento, aveva contribuito a diffondere il culto della Madonna della Misericordia (si potrebbe dunque affermare che di fatto lavorò per dare conforto agli ammalati). La spilla e la corona della Vergine, così come il velo, la identificano come Regina del Cielo che, in questo caso, intercede presso la confraternita offrendo riparo ai suoi membri e, di conseguenza, a quanti venivano curati nell’ospedale da loro gestito. Claudia Cieri Via ha dato una particolare lettura all’immagine della Vergine: la sua monumentalità, d’ascendenza bizantina secondo la studiosa, denota il suo “valore di tabernacolo-tempio cui si lega il significato simbolico di Ecclesia”, e la Vergine diventa “mediatrice e protettrice nei confronti del genere umano”, anche sulla base di alcuni elementi che troverebbero riscontri teologici (per esempio, la postura ferma della Madonna trova riferimenti in Alberto Magno, che parla d’una Maria “rigida come una colonna” perché “mai fu inclinata dal peccato, ma fu sempre eretta”, o la sua collocazione tra Giovanni Battista, precursore di Cristo, e Giovanni Evangelista, l’autore dell’Apocalisse dove la Vergine è Ecclesia). E poi, le scene della predella con episodî legati ai limiti degli uomini nel riconoscere la divinità di Cristo, legate al tema dell’incarnazione. Non solo dunque “una finalità puramente devozionale, ma anche dottrinale, sensibile tanto alla presenza della tradizione e della chiesa orientale quanto al progressivo passaggio dalla mariologia alla cristologia”.
Nei secoli, il Polittico della Misericordia ha avuto una storia piuttosto travagliata. Nel 1634 fu spostato all’interno di un nuovo altare ligneo, realizzazione dei fratelli Binoni, e venne collocato al centro della chiesa. Poi, quando la chiesa venne trasformata in una nuova corsia dell’ospedale, nel 1789, il complesso di Piero della Francesca venne smembrato, e le tavole sistemate in ordine sparso. La tavola con la Madonna, peraltro, non era neppure esposta ai fedeli, ma veniva esibita solo in occasione di particolari ostensioni. Una prima ricomposizione si ebbe nel 1892, eseguita dal restauratore Giuseppe Parrini, dopodiché, nel 1901, il polittico venne ceduto al Museo Civico di Sansepolcro, dove l’opera è tuttora conservata. Di recente, tra il 2007 e il 2010, il polittico è stato restaurato (senza che venisse spostato dal museo: l’intervento è stato eseguito in loco) dalla Soprintendenza di Arezzo, con esecuzione materiale di Rossella Cavigli e Fedele Fusco per la pellicola pittorica e Andrea Gori per il supporto ligneo, e sotto la direzione di Paola Refice. Proprio a seguito della campagna di studî condotta in occasione di questo restauro, finalizzato a sistemare alcuni problemi conservativi che erano emersi a seguito di analisi, è stato possibile comprendere l’assetto originario del Polittico della Misericordia, e sono stati riconosciuti con dovizia alcuni importanti elementi che ci fanno comprendere la modernità di Piero della Francesca. Anzitutto, l’uso del disegno preparatorio che, hanno scritto Roberto Bellucci e Cecilia Frosinini, “aveva molte funzioni di tipo progettuale, che lo definiscono quindi sempre più come afferente alla sfera intellettuale che a quella meramente pratica”: tra le funzioni, “quella relativa alla determinazione del rapporto tra fondo dorato e figure dipinte, quella della determinazione delle misure delle figure rispetto allo spazio ed in misura relazionale reciproca, quella necessaria a fornire indicazioni relative alle stesure pittoriche (quali spartizioni di luce e ombre, creazioni di volumi preliminari, ecc.)”. E poi, lo studio dei panneggi che Piero ha messo a punto attraverso l’utilizzo di manichini, attestato anche da Giorgio Vasari (“Usò assai Piero di far modelli di terra, et a quelli metter sopra panni molli con infinità di pieghe per ritarli e servirsene”): come molti altri artisti del tempo, anche Piero della Francesca era solito vestire manichini con panni bagnati per studiare le pieghe. Tuttavia, scrivono Bellucci e Frosinini, “risulta […] particolarmente interessante la forte attestazione che se ne trova nella scuola di Piero, tanto da poter pensare ad una tecnica sua distintiva che viene ripresa dagli allievi”.
La campagna ha consentito anche di riconoscere l’alta perizia con cui venne condotto il lavoro fin dalle prime fasi: non sono stati rilevati segni d’incisioni, che servivano per distinguere le zone da dipingere rispetto a quelle da lasciare con la doratura in vista. Ma è stato anche rilevato che non ci sono sovrapposizioni tra pittura e foglia d’oro: per risparmiare, infatti, l’oro non veniva steso ovunque, ma solo laddove si vedeva. La particolarità, qui, è che in assenza d’incisioni non ci sono però neppure sbavature, ovvero non ci sono aree dove la pittura, anche se in piccola parte, va a coprire l’oro. Segno che il doratore, ovvero l’artigiano che assisteva il pittore nella stesura della foglia d’oro, dovette fare un lavoro impeccabile seguendo un disegno molto dettagliato, ma è stato anche ipotizzato che fu lo stesso Piero a occuparsi della doratura, senza dunque aiuti esterni, proprio in ragione del fatto che sul gesso della preparazione mancano segni netti della progettazione.
E forse è proprio in questa commistione di alto e basso che giace il fascino del Polittico della Misericordia. Borgo San Sepolcro era un paese di pochi abitanti, poco avvezzo a vedere opere d’arte importanti, e le poche che c’erano venivano da fuori. Non ci fu mai, come nelle città più importanti, una corporazione degli artisti: la città era semplicemente troppo piccola per dare lavoro stabile ad artisti e artigiani dell’indotto, come ha osservato Christa Gardner von Teuffel. E poi, il genere della Madonna della Misericordia era tra quelli più legati al culto popolare. I contadini della Valtiberina si riconoscevano nell’immagine della Madonna. Erano convinti di trovare riparo sotto il suo manto, erano convinti che la Vergine facesse da mediatrice tra loro e il cielo. Piero della Francesca lo sa. Conosce benissimo la storia di questo soggetto iconografico e l’attaccamento che i paesani provano nei suoi confronti. E sa che deve seguire uno schema tradizionale, anche perché lavora per una piccola confraternita che probabilmente non prenderebbe bene un lavoro troppo spinto, troppo innovativo. Questo non basta però a frenarlo, non è sufficiente a farlo desistere dall’idea d’intervenire su di uno schema iconografico ormai assodato, e trasformarlo in un’immagine solenne e al contempo moderna, un’opera quasi scientifica, monumentale, geometrica, quasi astratta. In uno spartiacque tra epoche diverse che convivono in una sola immagine. Ma se il terreno è quello del passato, lo sguardo è rivolto al futuro.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERGli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
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