I visitatori che percorrono le sale del Museo Civico di Sansepolcro, dopo aver ammirato i capolavori di Piero della Francesca qui conservati (il Polittico della Misericordia, il San Giuliano, il San Ludovico di Tolosa e la splendida Resurrezione, il dipinto murale eseguito proprio per il Palazzo del Governo della città, oggi sede del museo), s’imbatteranno in una presenza un poco straniante: un polittico di Matteo di Giovanni (Borgo Sansepolcro, 1428 circa - Siena, 1495), privo... dello scomparto centrale. È il Polittico di San Giovanni in val d’Afra, una tra le opere più importanti che si trovino in quest’angolo di Toscana, la Valtiberina: porta questo appellativo perché anticamente era conservato nella chiesa di San Giovanni Battista in val d’Afra (oggi sconsacrata e sede del Museo della Vetrata), che a dispetto del nome si trova nel pieno centro di Sansepolcro, nella parte più vicina al torrente Afra che scorre ai margini della città.
La storia del polittico è particolarmente complessa, dal momento che oltre a Matteo di Giovanni parteciparono alla sua relizzazione altri due artisti, ovvero lo stesso Piero della Francesca (Borgo Sansepolcro, 1412 circa - 1492) e Antonio d’Anghiari (documentato nel XV secolo), e perché alcuni aspetti sulle sue vicende rimangono ancora da chiarire. La data da cui partire è il 21 dicembre 1433: risale a quel giorno il contratto per la realizzazione della carpenteria a Benedetto d’Antonio di Matteo Cere, su disegno di Antonio d’Anghiari, all’epoca in cui rettore della chiesa era Nicoluccio di Nicolosio Graziani. Questo tipo di incarico, ha spiegato lo storico dell’arte Andrea De Marchi, normalmente “costituiva già una sorta di prelazione per l’affidamento più impegnativo della parte pittorica”. Antonio d’Anghiari era il maestro di Piero della Francesca che, al momento del contratto di allogagione del polittico, era suo garzone, e continuò a lavorare con lui anche nel 1436. Non sappiamo poi come andarono le cose: è possibile che il maestro, a un qualche punto della storia, abbia passato l’incarico al suo promettente allievo, dal momento che da un documento del 1437 sappiamo che Piero della Francesca è già in rapporto con il committente. In seguito, tra il 1444 e il 1447, Antonio d’Anghiari si trasferì ad Arezzo e Piero ebbe campo totalmente libero nella sua città natale: “in tale contesto, nei primi anni Quaranta”, scrive ancora De Marchi, “si spiega bene che Piero abbia rilevato l’impegno per don Nicoluccio” e abbia cominciato a dipingere la tavola centrale del polittico: il Battesimo di Cristo che è oggi alla National Gallery di Londra.
Proprio quel dipinto così celebre, uno dei capolavori del Rinascimento, riprodotto su tutti i libri di storia dell’arte e oggi vanto del museo londinese, era in passato parte di una struttura complessa, nonostante oggi venga letto dai più come un’opera autonoma. Si può del resto ben comprendere il motivo: qui, l’artista, come ha scritto Carlo Bertelli, “presenta tutta la cristallina novità del suo mondo poetico, il suo sguardo ammirato verso il creato, la ricerca di un’armonia dei colori che quasi cancella le ombre e fa apparire i corpi come proiezioni immateriali”. Quello che Piero della Francesca inaugura con il suo Battesimo di Cristo è un linguaggio inedito, regolato sulla base di precise leggi prospettiche e matematiche, in accordo coi principî che lo stesso artista, nella tarda maturità, avrebbe enunciato nel trattato De quinque corporibus regularibus. Il Cristo è il centro perfetto della composizione, inscritto all’interno di figure geometriche regolari, affiancato da figure dalle volumetrie salde, rese con colori limpidi e immerse in un paesaggio sul quale brilla una luce nitida e diffusa: studiato per emanare un’atmosfera di calma, pacatezza e sacralità, il Battesimo di Cristo è stato letto da Timothy Verdon come opera in cui l’artista “esplicita anche il posto di Cristo nella Trinità e quindi il legame tra il Dio trinitario e l’uomo”, un concetto che viene reso manifesto dai rapporti che legano tra loro le varie figure.
A fianco del Cristo si staglia il fusto candido di un pioppo, sotto al quale si trovano tre angeli. Un altro albero, più indietro, copre il brano di cielo sopra alle tre presenze angeliche, che attirano l’attenzione del riguardante verso il centro della scena. Il tronco dell’albero è bilanciato, a destra, dalla figura di san Giovanni Battista, la cui mano è in asse con il capo di Cristo e con la colomba: l’acqua ricade sui capelli di Gesù, bagnandoli, ma il Battista non sfiora il suo corpo, bianco quasi come quello di una statua di marmo. Dietro, un neofita, una sorta di omaggio al Battesimo di Masaccio nella cappella Brancacci, si sta spogliando per ricevere a sua volta il Battesimo, mentre ancor più lontano compaiono le figure di alcuni farisei, uno dei quali indossa un copricapo di foggia orientale, simile a quelli che portavano i dignitari bizantini che parteciparono al concilio di Ferrara e Firenze (nella città toscana il concilio fu trasferito nel 1439) e che tanto ispirarono Piero della Francesca. Il paesaggio è con tutta probabilità quello di Sansepolcro, tanto che vediamo la stessa cittadina raffigurata in lontananza, e della valle del Tevere: secondo una modalità tipica della pittura Rinascimentale, la scena sacra viene attualizzata (a significare che l’insegnamento di Cristo ha una portata che travalica le epoche), con Sansepolcro che si ritrova a essere una nuova Gerusalemme e il biondo fiume che diventa il Giordano. È il paesaggio “semplice, nobile e grande” che affascinava Maurizio Calvesi, “il paese con l’indicazione di siepi, di cespugli, di strade”, che “come in Paolo Uccello, prende ampiezza e lontananza per i grandi alberi fronzuti dal grosso fusto che ombreggiano il primo piano”.
Quello che Piero della Francesca concludeva probabilmente già negli anni Quaranta del Quattrocento era dunque, ha scritto De Marchi, il “primo manifesto in patria” del suo linguaggio, “audace e paradigmatico”, caratterizzato dalla “novità di quel gran cielo atmosferico, con le nubi e le fronde protagoniste contro l’aria azzurra, rispecchiata nel torrente immoto”, che assumeva “tutto il senso provocatorio di una finestra albertiana nel vitale contrasto con la ricca carpenteria intagliata che incorniciava lo squarcio di paese alto-tiberino”. Il polittico di San Giovanni in Val d’Adra, peraltro, conserva in larga parte la cornice originale.
Tuttavia, Piero della Francesca non sarebbe riuscito a portare a termine l’incarico, per motivi che non conosciamo (forse, è stato ipotizzato, difficoltà di finanziamento): gli subentrò così, probabilmente verso il 1455, Matteo di Giovanni, che completò la struttura con le figure dei santi laterali (Pietro e Paolo, identificati dai rispettivi attributi iconografici, ovvero le chiavi e la spada) e dei santi nei pilastri (Stefano, Maria Maddalena, Egidio, Benedetta, Caterina d’Alessandria, Arcano). Nella predella troviamo invece le storie della vita di san Giovanni Battista con la Crocifissione al centro (troviamo a sinistra la Nascita e la Predica del Battista, e a destra invece il Battista davanti a Erode e il Banchetto di Erode), separate da nicchie con le figure dei dottori della Chiesa: sant’Agostino, san Gregorio Magno, sant’Ambrogio e san Girolamo. Completano la struttura dipinta da Matteo di Giovanni gli stemmi del committente, a dimostrazione che fu dunque lo stesso Nicoluccio Graziani a conferire l’incarico al pittore biturgense ma di formazione senese. Come si può ben vedere da ciò che rimane a Sansepolcro, Matteo di Giovanni decise di non seguire le novità di Piero della Francesca: stabilì infatti di dipingere i suoi santi su di un più tradizionale fondo oro, peraltro eseguito con grande maestria e finezza segnatamente nelle punzonature che ci riportano alla miglior scuola senese, per quanto anche le sue figure non siano insensibili alle novità rinascimentali. I due santi degli scomparti laterali rimandano alla solennità composta della statuaria del Donatello più classico, ed è stato notato come anche le architetture della predella suggeriscano richiami al grande scultore fiorentino (la scena del Banchetto di Erode, per esempio, risente del rilievo omologo eseguito da Donatello per il fonte del Battistero di Siena).
Matteo di Giovanni non era dunque un pittore attardato, tutt’altro. È semmai un’altra, precisa circostanza ad aver pesato sulla fortuna delle tavole del Polittico di San Giovanni d’Adra. “Il costante raffronto con la rivoluzionaria parte centrale di quel polittico, elemento che dovette pesare non poco anche negli sforzi di Matteo di Giovanni per il raggiungimento di fisicità quasi ipertrofiche e spazi perfettamente misurabili”, ha scritto la studiosa Michela Becchis, “ha spesso diminuito l’effettivo valore delle parti spettanti a Matteo di Giovanni che invece si mostrano come il momento di maggiore slancio interpretativo che l’allora giovane pittore offrì di tutte le complesse istanze delle ricerche artistiche rinascimentali”. Perché dunque Matteo di Giovanni decise di ricorrere a un linguaggio apparentemente in contrasto con quello di Piero della Francesca? Impossibile pensare che il più giovane artista borghigiano abbia lavorato senza tener conto di quanto Piero della Francesca avesse prodotto alcuni anni prima. Evidentemente, Matteo di Giovanni avvertiva in qualche modo la distanza che separava il suo linguaggio da quello di Piero, e di conseguenza decise di dare alla tavola di Piero il massimo risalto possibile, inserendola in una struttura dove la disposizione degli spazi è intrinsecamente coerente: i santi laterali sono inseriti entro due nicchie che dialogano con gli oculi in cui prendono posto l’Angelo annunciante e la Vergine annunciata, e in più, con il movimento del piede, che poggia sul gradino protendendosi verso l’esterno, le due figure intendono rendere evidente la profondità spaziale della composizione. In sostanza, è come se Matteo di Giovanni avesse voluto inserire il Battesimo di Piero dentro una solida architettura, giungendo a un risultato finale che, agli occhi dei suoi contemporanei, doveva sicuramente apparire meno stridente rispetto a quanto appaia agli occhi di noi contemporanei.
Il Museo Civico di Sansepolcro, nei pannelli che illustrano il Polittico di San Giovanni in Val d’Afra, stabilisce un parallelo con la Loggia della Mercanzia di Siena, dove le statue realizzate dal Vecchietta, artista presso il quale Matteo di Giovanni compì la sua formazione, sono inserite in nicchie di gusto gotico: le sculture, imponenti e a stento contenute negli spazi delle nicchie stesse, sortiscono un effetto non dissimile rispetto a quello dei santi dipinti da Matteo di Giovanni per il polittico biturgense. Una struttura, dunque, che per la mentalità dell’artista (e del suo tempo) doveva avere una solidissima coerenza.
Quale destino segnò poi le vicende dell’opera, che oggi vediamo separata dalla tavola centrale con il Battesimo di Piero della Francesca? Nel 1629 il polittico si trovava ancora nella chiesa di San Giovanni Battista, salvo poi essere trasportato, nel 1807, nella Cattedrale di Sansepolcro. Cinquant’anni dopo, nel 1858, il Capitolo della Cattedrale decise di scomporre il polittico, che si trovava in un pessimo stato di conservazione, esposto a secoli di sole e umido, e di vendere la tavola centrale di Piero. Ad aggiudicarsela, per la somma di quattrocento sterline (l’intermediario fu infatti un giovane pittore e collezionista inglese, John Charles Robinson), fu l’industriale Matteo Uzielli, e dopo la scomparsa di quest’ultimo, nel 1861, l’opera venne comperata dal pittore e scrittore Charles Eastlake, che aveva già tentato di acquistarla tre anni prima, facendosela però soffiare da Robinson. In seguito, Eastlake, quello stesso anno, vendette l’opera alla National Gallery di Londra, e da allora il dipinto è esposto presso il museo londinese. La mossa del Capitolo della Cattedrale venne ritenuta avventata e sconsiderata e fu fortemente criticata già nell’Ottocento: “Non sono molti anni”, scriveva Giovanni Felice Pichi nella sua opera La vita e le opere di Piero della Francesca del 1892, “che il Capitolo della Cattedrale per fare denari sotto lo specioso pretesto di restaurare la sua Chiesa, chiese ed ottenne l’autorizzazione di vendere parte di questo Quadro, la parte centrale la più stimata e bella [...]. Per mio conto o avrei fatto volentieri a meno di questi restauri, che in verità non riuscirono la più bella cosa, o avrei cercato di supplirvi con altri mezzi che non potevano certo mancare, piuttosto che privare il mio paese di un’opera di un mio grande concittadino. Ma così non la pensarono i reverendi canonici, né quelli che raccomandarono e sollecitarono presso il governo, che in vero si mostrò un poco restio a concedere la concessione”.
Le tavole di Matteo di Giovanni sono state recentemente smontate in un paio di occasioni: nel 2009, quando sulla macchina d’altare è stata avviata una campagna di studi riguardante la carpenteria, e nel 2014, quando sono stati intrapresi lavori di adeguamento sismico del Museo Civico del Sansepolcro, e si è deciso di programmare un intervento di restauro sull’opera, terminato nel 2019 ed eseguito dalla restauratrice Rossella Cavigli del Polo Museale della Toscana, in collaborazione con l’Opificio delle Pietre Dure per la parte tecnica, sotto la direzione della storica dell’arte Paola Refice della Soprintendenza di Arezzo, a cui è subentrata Felicia Rotundo. Il tutto si è svolto presso il Laboratorio di Restauro della Soprintendenza di Arezzo. La storia di questa meravigliosa opera d’arte non è finita: sarà difficile riunirla al Battesimo di Cristo, ma nuovi studi potrebbero fornire agli esperti e al pubblico qualche indicazione in più sulle vicende antiche che interessarono questo singolare capolavoro del Rinascimento toscano.
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
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