C’è un primato che si deve riconoscere alla Pala di Santa Lucia dei Magnoli, meglio nota, più semplicemente, come la “Pala dei Magnoli”, il capolavoro di Domenico Veneziano (Venezia, 1410 circa – Firenze, 1461) conservato agli Uffizi. Occorre però una premessa: l’opera dell’artista veneto si colloca in uno dei momenti più rivoluzionari della storia dell’arte, il periodo in cui viene radicalmente riformato il concetto di “pala d’altare”, con il progressivo allontanamento dal polittico e l’adozione di nuove soluzioni che prediligono il nuovo motivo iconografico della sacra conversazione, in cui tutti i santi condividono uno spazio unitario, che viene articolato in modo credibile, scorciato prospetticamente in profondità. In altre parole, le nuove pale d’altare tendono a definire i loro luoghi, imponendo in maniera sempre più diffusa l’utilizzo di architetture dipinte. Ad accrescere la finzione, ha scritto il grande storico dell’arte André Chastel, “sono soprattutto le pavimentazioni marmoree, ideale scacchiera delle prospettivizzazioni, che ‘stirano’ il suolo come un continuum matematico fino all’orizzonte, tanto che il rapporto dei personaggi con questo perfetto supporto pare simile a quello che lega la pavimentazione della chiesa al gioco ineluttabile degli assi, all’improvviso divenuto palese”. Chastel riconosceva alla Pala dei Magnoli il merito d’esser stata la prima opera ad aver introdotto questo “effetto sottile e seducente”, inaugurato proprio da Domenico Veneziano.
La Pala dei Magnoli è una delle rare opere che sopravvivono di questo fondamentale maestro del Quattrocento. Fu dipinta tra il 1445 e il 1447 per la chiesa di Santa Lucia dei Magnoli a Firenze, dove rimase fino al 1862, anno in cui fu trasferita agli Uffizi, ma non conosciamo con precisione la data in cui fu eseguita. Anche in questo caso siamo in presenza di una sacra conversazione: la Vergine è assisa in trono con il Bambino, raffigurato in piedi sul suo ginocchio destro, mentre si regge con le braccia al collo della madre, e lei lo sostiene con la mano destra, mentre con la sinistra gli accarezza i piedini. Di fianco a lei stanno in piedi quattro santi, due per lato, disposti a semicerchio: san Francesco e san Giovanni Battista a sinistra, san Zanobi e santa Lucia a destra. Francesco è colto nell’atto di leggere, mentre Giovanni Battista ha il compito di presentare la Vergine al fedele: il gesto eloquente del santo vestito con la tunica di peli di cammello indica in maniera inequivocabile quale sia la figura più importante, un espediente con cui vengono resi manifesti i rapporti gerarchici tra i personaggi, non potendo più gli artisti avvalersi del tradizionale sistema medievale per cui le figure più importanti avevano dimensioni maggiori. Con la riforma della pala d’altare, le figure acquistano proporzioni tra loro naturali, e occorrono dunque nuovi meccanismi per indicare le loro relazioni. Zanobi, vestito coi paramenti vescovili, è colto invece nell’atto di benedire, e santa Lucia si avvicina alla scena tenendo nella mano sinistra il suo tipico attributo iconografico, il piattino con gli occhi, e nella destra la palma del martirio, impugnata come fosse una penna d’oca. Giovanni Battista e Zanobi sono presenti in quanto santi protettori di Firenze, mentre Lucia è la titolare della chiesa che in antico ospitava la pala, e Francesco è un’altra figura legata a questo luogo di culto, dal momento che qui, nel 1211, il santo di Assisi si trattenne per qualche tempo in occasione della sua prima visita a Firenze (la chiesa è una delle più antiche della città).
La pala in antico aveva anche una predella composta da tre tavole, oggi smembrata: quella centrale con l’Annunciazione, oggi al Fitzwilliam Museum di Cambridge, e le due laterali divise in modo che ci fossero quattro storie, una per ogni santo. La tavola di sinistra presenta le Stimmate di san Francesco e il San Giovanni Battista nel deserto ed è conservata alla National Gallery di Washington, mentre quella di destra è stata ulteriormente divisa: la parte sinistra con il Miracolo di san Zanobi al Fitzwilliam Museum di Cambridge e la destra con il Martirio di santa Lucia oggi ai Musei Statali di Berlino. L’insieme era racchiuso in una cornice andata perduta. La pala fu temporaneamente riunita alla sua predella nel 1992, in occasione di una mostra sulla formazione e sui maestri di Piero della Francesca (che, come si vedrà alla fine, non poté non tenere in considerazione i risultati di Domenico Veneziano), curata da Luciano Bellosi e allestita nelle sale degli Uffizi.
Tornando alla tavola principale, si tratta di una delle prime pale quattrocentesche in cui le figure sono distribuite nello spazio in modo credibile. Non si tratta di una novità assoluta: in questo senso, Domenico Veneziano era stato preceduto da altri artisti, a partire dal Beato Angelico e dalla sua fondamentale Pala di Annalena, che è di circa dieci anni precedente e che può essere considerata la prima pala d’altare moderna, per proseguire poi con la Pala Barbadori di Filippo Lippi, che accoglieva l’idea del Beato Angelico di sistemare le figure entro uno spazio unitario ma riusciva anche a spingersi oltre, eliminando le quinte architettoniche che, nella Pala di Annalena, suggerivano il ricordo della ripartizione dei polittici medievali. Domenico Veneziano partecipa alla nuova temperie con un’altra opera innovativa, che dispone le figure entro uno spazio uniformato sia per quanto riguarda lo studio prospettico, sia per ciò che concerne l’illuminazione. L’artista veneziano immagina dunque una struttura architettonica simile a un loggiato: sottili colonne bianche, sormontate da capitelli ionici dorati, sorreggono eleganti arcate ogivali, al di là delle quali vediamo una raffinata esedra con nicchie decorate con conchiglie. Di fronte a quella centrale prende posto il trono della Vergine, che non vediamo perché lei occupa con tutto il corpo (vediamo solo i braccioli, nascosti da una coperta di seta, ma ne percepiamo la forma). Oltre l’esedra ecco apparire un aranceto colmo di frutti, a ricordare il tema medievale dell’hortus conclusus, che è anche simbolo della verginità di Maria, dacché riprende un’immagine del Cantico dei Cantici (hortus conclusus soror mea, sponsa, hortus conclusus, fons signatus, “un giardino chiuso tu sei, sorella mia, sposa, un giardino chiuso, una fontana sigillata”). I toni delle architetture sono tenui, impostati sugli accordi tra i toni del rosa (che riprendono il colore dell’abito della Vergine, stretto in vita da una sobria cintura e coperto dal tipico mantello blu) e del verde, e resi ancor più delicati dalla sapiente illuminazione diffusa che proviene dall’angolo in alto a destra, una luce reale, mattutina, con una fonte ben definibile, come si può notare dalle ombre dei santi sul pavimento e ancor più da quelle delle architetture: tutta la parte sinistra è infatti in luce mentre quella destra è nella penombra, e notiamo bene la marcatura dell’ombra dietro la figura della Vergine.
Per tutte queste ragioni le ricerche di Domenico Veneziano, ha scritto Carlo Bertelli, “risultano assolutamente coerenti con le tendenze moderne contemporanee, riconoscibili nella solenne monumentalità, nell’attenta ricerca espressiva e gestuale, nel disporsi nello spazio unitario in scansione prospettica”, nella capacità delle figure di essere, “al pari dell’architettura, elementi portanti della composizione”. La luminosità con cui l’artista investe lo spazio che “fa vibrare le tinte chiare e terse delle architetture definendo figure e volumi” e la razionalità del suo impianto prospettico, “che nulla lascia al caso”, sono le novita più interessanti della Pala dei Magnoli: e proprio la rigorosa applicazione della prospettiva, evidente soprattutto nelle minuziose tarsie marmoree del pavimento che a loro volta riuscirono a compiere una piccola rivoluzione, com’ebbe a scrivere Chastel, lascia supporre che Domenico Veneziano abbia studiato non nella natia Venezia, ma a Firenze, dove già da alcuni anni gli artisti s’impegnavano per applicare la nuova scienza alle loro opere. L’arista, peraltro, ha lasciato la sua firma sull’opera: la notiamo sul primo gradino del trono (“Opus Dominici de Venetiis Hoc / Mater Dei Miserere Mei / Datum Est”, “Quest’opera è di Domenico Veneziano / Madre di Dio abbi pietà di me”).
La Pala dei Magnoli è sempre stata lodata dalla critica, che fin dall’Ottocento l’ha ritenuta una delle opere più interessanti della sua stagione, riconoscendo anche i debiti di Domenico Veneziano, in particolare nei riguardi del Beato Angelico per l’impostazione coloristica (ma anche per la scacchiera del pavimento, preceduta di qualche anno dall’Incoronazione della Vergine dipinta per il convento di San Domenico a Fiesole e oggi conservata al Louvre), e verso Andrea del Castagno per i connotati dei suoi santi, in particolare per quelli più caratterizzati, come san Giovanni Battista e san Zanobi, che presentano volti dai tratti forti, spigolosi, scultorei come quelli dei personaggi dell’artista mugellano. Il profilo di santa Lucia risente invece delle linee gotiche di Lorenzo Ghiberti. L’approccio di Domenico Veneziano è, ad ogni modo, del tutto originale. “Qui, per la prima volta”, ebbe a scrivere lo storico dell’arte tedesco Georg Pudelko in uno dei primi studi approfonditi sull’opera, “le figure si trovano in uno spazio pieno di luce che esiste indipendentemente dalle figure umane e che acquista un proprio valore artistico completamente indipendente. I mezzi per creare la profondità non sono quelli della prospettiva, con l’ausilio della quale Uccello organizzò lo spazio pittorico negli stessi anni, ma quelli della luce e del colore. [...] Qui lo spazio ha la priorità. Rimane un fluido in movimento, intessuto di luce e colore. In totale contrasto con Paolo Uccello, che fin dall’inizio ha colto lo spazio come un fatto astratto, come una forma dell’essere, in cui i volumi del corpo quasi stereometrici sono costruiti come punti di riferimento tettonici di profondità. E in contrasto anche con la regia di Masaccio [...] in cui lo spazio è sentito come plastico”. Per Luciano Berti, la Pala dei Magnoli segna “un momento di estrema importanza nella storia del Rinascimento”, dal momento che “testimonia in una sintesi perfetta la nuova visione del Rinascimento fiorentino”. Secondo lo studioso, forse il pittore giunse “ad un risultato di tanta importanza proprio perché, non essendo fiorentino di nascita, era in grado di vedere con un certo distacco l’incalzante svolgersi delle vicende artistiche”. Berti riconosceva peraltro un ruolo di precorritrice alla Trinità di Masaccio in Santa Maria Novella, in quanto testimone delle “dimensioni universali rapidamente raggiunte dalla pittura rinascimentale fiorentina”, nei confronti della quale tuttavia Domenico Veneziano riuscì a fornire una “espressione più intima, più personale e al tempo stesso più cittadina dei valori universali del Rinascimento”: un’intimità che ritroviamo, per esempio, nelle stesse architetture, simili in tutto e per tutto a quelle che venivano progettate nella Firenze del tempo, e negli stessi volti caratterizzati e familiari dei santi, “gente che poteva incontrarsi per le strade di Firenze”, afferma Berti.
Un grande storico dell’arte come Ernst Gombrich aveva paragonato la figura di san Zanobi della Pala dei Magnoli, per via della minuta descrizione del suo abbigliamento (la dalmatica, la mitria) e degli accessori come i gioielli e il pastorale, a quella del san Donaziano che compare in un capolavoro di Jan van Eyck, ovvero la Madonna del canonico van der Paele, “opera ardua e faticosa sia sul piano artistico sia su quello dei contenuti”, come ha scritto su queste pagine uno dei massimi esperti del pittore fiammingo, Till-Holger Borchert. A una prima occhiata, la figura di san Zanobi potrebbe palesare debiti nei riguardi del san Donaziano di Van Eyck (la Madonna van der Paele è del 1436, dunque di una decina d’anni precedente la Pala dei Magnoli), dal momento che, come ha ben riassunto Liana Castelfranchi Vegas, nel santo dell’artista veneto “ogni minuta realtà assorbe quel tanto di luce capace di esaltare la forma, ossia quella che il Berenson avrebbe detto il suo valore tattile”. Tuttavia l’utilizzo della luce è profondamente diverso: in Van Eyck esalta, ha una funzione quasi narrativa. In Domenico Veneziano è invece luce oggettiva, funzionale alla definizione del dato reale. “Per i pittori fiorentini”, scriveva Gombrich, “l’incrociarsi di mobili, lampeggianti riflessi sulla superficie delle cose doveva apparire come un rumore confuso, al quale essi non prestavano attenzione nella loro ricerca della forma”. Non si tratta di una critica nei riguardi di Domenico Veneziano: semplicemente, per lui la luce, pur avendo un ruolo di primaria importanza, un ruolo fondamentale, era comunque parte di una ricerca più ampia.
La piccola antologia sulla Pala dei Magnoli potrebbe continuare con Giulio Carlo Argan, che nel riconoscere (ovviamente) a questo dipinto lo status di “opera capitale di Domenico”, ricorda come si tratti di una “complessa struttura di schermi che raccoglie e contiene la luce naturale nei chiari volumi geometrici definiti dalle tarsìe cromatiche dell’architettura”, dove la luce naturale “basta a dare alle figure un certo dominio sullo spazio, un pur moderato carattere di monumentalità che, nella figura del Battista, svela la sua origine: Andrea del Castagno”. E ancora, Mina Bacci non poteva far a meno di notare come le architetture di Domenico Veneziano ricordino la tradizionale scompartizione dei trittici medievali, anche se l’artista “l’ha risolta, rinascimentalmente, in un loggiato aperto e arioso”. Più recentemente, nel 2021, Edoardo Villata ha ribadito che nella Pala dei Magnoli “l’effetto suscitato in chi osserva è insieme di monumentalità, equilibrio e grande freschezza; qualità che riverberano senza stacchi dalle scene della predella”. Meritano dunque un cenno anche le tavole della predella che, pur distanziandosi dalla solennità, dalla monumentalità e dalla serenità della scena principale, si distinguono per la loro evidente libertà compositiva e per il vivace gusto narrativo che le anima. Si avverte un’eco della sacra conversazione nella scena dell’Annunciazione, che prende luogo sotto uno spoglio portico, anch’esso scorciato secondo una prospettiva rigorosa e illuminato da una luce cristallina, che si distingue, scrive ancora Bertelli, per il suo “nitore esemplare, senza nessun cedimento ai particolarismi grafici: la luce, attraverso le gradazioni di tono, definisce lo spazio con lo stesso rigore delle linee prospettiche, isolando i protagonisti in un’atmosfera fatta di umori al tempo stesso domestici e signorili”. Al di là della porta si osserva peraltro un giardino con rose e pergolato, a rimarcare una straordinaria attenzione per i dettagli e anche un’incursione della vita quotidiana nella scena sacra. Di tenore decisamente più aspro, ancora pregno di atmosfere gotiche, è invece la scena con San Giovanni Battista nel deserto, ambientata in un paesaggio di montagne aguzze e brulle, alle quali fa da contraltare il corpo scultoreo e nudo del Battista raffigurato mentre si toglie le vesti per coprirsi con la tunica di pelliccia che indossa nella scena principale e che è uno dei suoi tipici attributi iconografici.
Nel 2019 la Pala dei Magnoli ha subito un intervento di restauro presso l’Opificio delle Pietre Dure, terminato nel 2022, che ha consentito all’opera di ritrovare il suo delicato cromatismo. I colori risultavano offuscati per effetto di una pulitura troppo aggressiva, eseguita nel momento in cui la pala lasciò la chiesa di Santa Lucia dei Magnoli per entrare nella Galleria degli Uffizi: la pellicola pittorica ne era risultata così impoverita, e le cromie avevano perso la loro brillantezza. La pala, in sostanza, risultava decisamente più opaca rispetto a come l’aveva immaginata (e dipinta) Domenico Veneziano. L’intervento ha dunque avuto l’effetto di donare nuovamente al dipinto la sua lucentezza, al punto che in occasione della presentazione del restauro la soprintendente dell’Opificio delle Pietre Dure, Emanuela Daffra, ha potuto dire che, pur essendo un dipinto noto, studiato e amato, è come se adesso venisse visto per la prima volta.
Di questa lucentezza, di questa spazialità rigorosa, di questa razionalità dovette evidentemente ricordarsi Piero della Francesca nei momenti in cui si trovò a dipingere i suoi capolavori. Seguendo i documenti storici che lo citano tra gli aiutanti di Domenico Veneziano (che era di poco più grande di lui) mentre era impegnato a eseguire gli affreschi con le Storie della Vergine, oggi perduti, per il coro della chiesa di Sant’Egidio a Firenze, possiamo immaginarci un giovane Piero della Francesca, all’incirca ventisettenne, mentre osservava il maestro veneto al lavoro sulle sue opere. E volendo seguire le informazioni rese da Giorgio Vasari nelle sue Vite, Piero della Francesca fu probabilmente al seguito del maestro anche a Loreto, dopo aver forse lavorato con lui pure a Perugia tra il 1437 e il 1438. Vasari riferisce che Domenico Veneziano morì assassinato da Andrea del Castagno, che sarebbe stato invidioso del suo talento e avrebbe rivelato l’omicidio solo in punto di morte. Si tratta in realtà di una leggenda, dal momento che Andrea morì di peste quattro anni prima del collega: lo storiografo aretino probabilmente confuse la vittima di un fatto di sangue realmente avvenuto, un certo pittore chiamato Domenico di Matteo, aggredito e ucciso nel 1443, con Domenico Veneziano, e ricamò attorno a questo fatto la vicenda di Domenico e Andrea del Castagno nemici-amici. Quel che tuttavia è certo, è che Domenico Veneziano morì in povertà: i registri del convento di Sant’Egidio, dove si spense il pittore veneto, attestano che non lasciò nulla. Possiamo però dire che Domenico Veneziano aveva, almeno sotto il profilo artistico, lasciato moltissimo: un’eredità che sarebbe stata raccolta da Piero della Francesca, ch’è possibile considerare un artista che portò a compimento le intuizioni di Domenico Veneziano dando luogo a un Rinascimento razionale, geometrico, puro, quasi astratto, che vede nella Pala dei Magnoli il suo primo seme. Ecco dunque la vera eredità di Domenico Veneziano: con lui, l’arte fiorentina aveva conosciuto la luce.
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
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