Se si pensa alle dee della bellezza che adornano le pareti degli Uffizi, la più nota è sicuramente la Venere di Botticelli, divenuta una sorta di simbolo del Rinascimento stesso, ma non meno rilevante è un altro vertice della pittura rinascimentale che figura tra le opere per cui ci si reca a visitare il museo fiorentino: la Venere di Urbino, celebre capolavoro di Tiziano (Tiziano Vecellio; Pieve di Cadore, 1490 circa – Venezia, 1576) eseguito nel 1538, tra i più noti del Cinquecento veneto, commissionato dal duca di Urbino Guidobaldo II della Rovere (Urbino, 1514 – Pesaro, 1574). Fu nel piccolo ducato che Giorgio Vasari vide l’opera, descrivendola nelle Vite come “una Venere giovanetta a giacere con fiori e certi panni sottili attorno molto belli e ben finiti”: è la prima attestazione del dipinto nella letteratura. La Venere sarebbe rimasta a Urbino fino al 1631, anno in cui morì l’ultimo duca, Francesco Maria della Rovere. Quell’anno, la ricca collezione ducale venne ereditata da Vittoria della Rovere, già promessa al granduca di Toscana Ferdinando II de’ Medici: la raccolta faceva parte della sua dote nuziale e molti dei capolavori che un tempo avevano ornato le sale del Palazzo Ducale di Urbino prendevano la via di Firenze, ragione per la quale si trovano ancora oggi nei musei del capoluogo toscano. Non sappiamo bene dove la Venere di Urbino fosse collocata al momento del suo arrivo a Firenze: forse alla Villa Medicea di Poggio Imperiale, per il fatto che non è identificabile negli inventari degli Uffizi redatti nel 1635 e nel 1638, ed è invece presente in quelli del Poggio Imperiale nel 1654-1655. L’ingresso agli Uffizi dovette dunque avvenire verso la fine del Seicento.
Risale al 1538 anche la prima attestazione del dipinto: la troviamo in una lettera scritta da Guidobaldo II a un suo agente, Girolamo Fantini, in cui il duca chiede a quest’ultimo di non partire da Venezia senza portare con sé due dipinti, e cioè un ritratto dello stesso Guidobaldo e una non meglio precisata “donna nuda”, che è sempre stata identificata dalla critica, all’unanimità, con la Venere di Urbino. Dunque, possiamo immaginare che quell’anno Tiziano avesse finito di dipingerla nel suo studio a Venezia, e che fosse stata trasportata dalla città lagunare in territorio urbinate. L’espressione “donna nuda”, nella sua apparente banalità, è in realtà molto utile per comprendere le ragioni di questo singolare soggetto iconografico che, nonostante la sua dirompente modernità, non è da considerare un’idea di Tiziano: piuttosto, il pittore cadorino aveva ripreso un’invenzione del suo maestro, il Giorgione (Giorgio Barbarelli?; Castelfranco Veneto, 1478 – Venezia, 1510), che anni prima aveva dipinto la famosa Venere dormiente oggi alla Gemäldegalerie di Dresda, una raffigurazione della dea della bellezza nuda, distesa, colta mentre è assopita sopra un velo di seta, sullo sfondo d’un ameno paesaggio di campagna, probabilmente le colline di Asolo, ovvero un luogo familiare al patriziato veneziano dal quale proveniva il committente di questo dipinto. Un’immagine, quella di Giorgione, che esaltava la concretezza e la sensualità della bellezza femminile, probabilmente anche sulla base del legame tra l’erotismo e la potenza generatrice del sentimento amoroso: possiamo immaginare che questo dipinto sia stato commissionato in occasione del matrimonio del nobile veneziano Girolamo Marcello, dal momento che la prima menzione del dipinto lo registra nella sua casa. Inoltre, per la prima volta dall’antichità, la Venere di Giorgione offriva a chi doveva osservarla il ritratto d’una divinità nuda e addormentata, scopertamente erotica, come nessun altro prima di lui l’aveva raffigurata. Un’esaltazione della bellezza terrena che, di fatto, stabilì una moda, diede origine a un topos iconografico e orientò un gusto: la Venere di Urbino s’inserisce appieno in questo contesto, nonostante le molte variazioni con le quali Tiziano aggiornava il motivo iconografico.
La prima differenza rispetto all’antecedente giorgionesco è l’opposto atteggiamento della Venere: la dea di Tiziano, al contrario di quella di Giorgione, è sveglia e rivolge lo sguardo a chi la osserva, tanto che, secondo John Shearman, il dipinto era stato realizzato immaginando un preciso spettatore, e quello spettatore altri non poteva essere che lo stesso Guidobaldo II. La scena si colloca poi in un interno domestico, espediente al quale Tiziano dovette ricorrere probabilmente per ricreare un’ambientazione familiare al suo committente, oltre che, come ha suggerito lo storico dell’arte Daniel Arasse, per trasformare la dea mitologica di Giorgione in una donna reale, distesa dentro una camera simile a quelle della nobiltà del tempo. Venere è adagiata su di un letto, completamente nuda. I capelli biondi le ricadono sulle spalle esaltando il candore della sua pelle. Con la mano destra Venere stringe un mazzetto di rose, con l’altra si copre il pube, e lo sguardo, reso ancor più seducente e ammaliante dall’atteggiamento della dea che gira lievemente la testa sfiorandosi la spalla, è puntato dritto negli occhi di chi la guarda. Sul lenzuolo bianco, sfatto, dorme un cagnolino, mentre più indietro, nella stanza, due ancelle stanno rovistando in un cassone: s’è pensato che Tiziano si sia ispirato al rito del “toccamano”, tipico della Venezia del tempo: era un’usanza in voga tra le giovani donne alle quali il fidanzato rivolgeva la proposta di matrimonio, e se la ragazza gli avesse toccato la mano, allora avrebbe espresso il suo consenso. Il rito prevedeva che la giovane venisse adeguatamente vestita: notiamo, dunque, che una delle due domestiche tiene sulle spalle l’abito nuziale azzurro e dorato.
È probabile, come è stato da molti ipotizzato, che l’opera avesse in qualche modo a che fare con il matrimonio di Guidobaldo II, che tuttavia si era celebrato quattro anni prima (il duca aveva sposato nel 1534 la nobile Giulia da Varano). L’opera è infatti colma di elementi che potrebbero alludere al matrimonio: le rose (fiore sacro a Venere, e simbolo della costanza in amore, esattamente come la pianta di mirto che osserviamo in un vaso posto sul davanzale del loggiato che s’apre su di un cielo al tramonto), l’orecchino di perla indossato dalla dea (simbolo di purezza), il cane (fedeltà), il cassone (un pezzo d’arredamento tipico delle camere matrimoniali). Si potrebbe dunque intendere la Venere di Urbino come una sorta di allegoria dell’amore coniugale, che nella mitologia antica era presieduto proprio dalla dea Venere: l’erotismo tutt’altro che velato, con la dea che pare quasi invitare lo spettatore a godere delle gioie dell’amore carnale, trova comunque una propria dimensione nell’ambito dell’amore matrimoniale, ed è funzionale a sottolineare l’importanza dell’unione fisica tra il marito e la moglie. Il dipinto potrebbe dunque intendersi come un quadro matrimoniale che Guidobaldo commissionò a Tiziano appena Giulia da Varano raggiunse l’età legale per la consumazione: era diventata sua moglie quando aveva soltanto undici anni (Guidobaldo ne aveva venti, e al pari di Giulia era stato costretto a sposarsi: il matrimonio era stato combinato dalle rispettive famiglie), e a quattro anni di distanza evidentemente era stata ritenuta pronta per accogliere il significato del dipinto, per ricevere l’invito al connubio che l’opera di Tiziano le rivolgeva, ispirandosi a un modello elevato e congruo al suo status. Il gesto della mano sinistra di Venere, che sfiora delicatamente i genitali, potrebbe essere del resto interpretato come un elemento legato alla necessità di giungere alla consumazione del matrimonio, ma non solo: la studiosa Rona Goffen lo ha interpretato come un gesto legato al massaggio clitorideo, che i medici del tempo prescrivevano come mezzo per favorire la procreazione.
Eppure, nonostante la lettura matrimoniale appaia calzante, è impossibile non provare un qualche moto di perplessità dinnanzi a questo dipinto, che conserva un’ambiguità difficile da scalfire, ragione per la quale la lettura del significato non ha trovato accoglienza unanime presso gli studiosi. S’è detto di come Shearman abbia pensato a Guidobaldo come spettatore del dipinto, come il soggetto al quale Venere rivolge il suo sguardo. Come si può conciliare questa opinione con l’idea di un quadro destinato alla moglie del duca? La Venere di Tiziano è indubbiamente una dea procace e provocante: come si può ritenere che un atteggiamento così scopertamente sensuale sia rivolto a una sposa poco più che bambina, che doveva ancora essere iniziata ai piaceri dell’amore carnale? Esistono dunque dei nodi irrisolti, e che mai probabilmente saranno sciolti: tuttavia, si potrebbe proporre una lettura alternativa partendo dal motivo della nudità della dea. Prima di giungere a elaborare questo suo dipinto ormai assurto al rango di icona della storia dell’arte, Tiziano aveva dovuto ragionare a lungo sul suo modello, sulla Venere di Giorgione: troviamo alcune variazioni sul tema della dea distesa nel Baccanale degli andrii del 1522-1524 e, poco più tardi, tra il 1525 e il 1530, nella Venere del Pardo, dipinto della sua scuola oggi al Louvre. La nudità della donna era divenuta, nella pittura veneta del primo Cinquecento, una sorta di topos nato nel solco della letteratura, dove per prime si diffusero le immagini di donne completamente disvelate: si va dall’Orlando furioso di Ludovico Ariosto all’Hypnerotomachia Polyphili passando per l’Arcadia di Iacopo Sannazaro in una trama di continui rimandi, spesso bidirezionali, tra arti e lettere. Si potrebbe immaginare la nudità della Venere come un semplice espediente per accendere il desiderio del duca: dipinti di divinità senza veli abbondavano nelle case dei nobili del tempo e possiamo ritenere che spesso il loro unico fine fosse quello ‘contemplativo’, come ci lascia supporre una lettera che Pietro Aretino, nel 1527, scrive al duca di Mantova, Federico Gonzaga, a proposito di un’opera in corso di realizzazione: “Credo che M. Iacopo Sansovino rarissimo vi ornarà la camera d’una Venere sì vera e sì viva che empie di libidine il pensiero di ciascuno che la mira”. Considerazioni simili riguardarono anche Tiziano: in una lettera scritta nel 1544 al cardinale Alessandro Farnese, monsignor Giovanni della Casa, il celebre autore del Galateo, paragonava una Danae di Tiziano all’epoca non finita (è quella oggi conservata al Museo Nazionale di Capodimonte, commissionata con tutta probabilità dallo stesso cardinale), e che aveva visto nella bottega del maestro, alla stessa Venere di Urbino, e diceva al cardinale che quest’ultima, a confronto con la Danae, pareva una suora teatina, e che la nuova opera “faria venir il diavolo addosso al cardinale San Silvestro” (ovvero al domenicano Tommaso Badiani che era noto per il suo rigore e la sua inflessibilità). Peraltro la Danae nacque probabilmente dopo che il committente vide la Venere di Urbino e chiese a Tiziano di dipingergli qualcosa di simile: le radiografie condotte sull’opera napoletana hanno rivelato una composizione iniziale vicinissima al quadro degli Uffizi. Il pubblico colto del Cinquecento era dunque pienamente consapevole del potenziale erotico delle opere d’arte. Alcuni dipinti, come la Nuda di Bernardino Licinio, contemporanea della Venere di Urbino, lascerebbero supporre che certi committenti ordinassero immagini di nudi femminili per il puro gusto d’ammirare un corpo muliebre senza veli: la Nuda di Licinio non ha neppure orpelli mitologici che devono fornire ulteriori giustificazioni. Immagine rara, questa di Licinio, dal momento che il più delle volte gli artisti attingevano dal repertorio mitologico, ma comunque non unica. La Venere di Urbino si distingue però da queste immagini per i suoi indiscutibili simboli nuziali, che tuttavia possono essere interpretati diversamente guardando al contesto, e pensando a un certo concetto di bellezza proprio della filosofia neoplatonica che non doveva essere estranea a Tiziano, in parte perché diffusa nei circoli culturali della Venezia cinquecentesca, e in parte perché l’artista era amico di Pietro Bembo, poeta e scrittore che conosceva il pensiero neoplatonico fiorentino.
Non è forse da escludere l’idea che Tiziano abbia voluto giustificare in senso ficiniano la sua immagine, racchiudendo in una sola immagine il concetto di amore espresso da Marsilio Ficino: secondo il filosofo toscano, l’amore (Amor) è la manifestazione terrena della bellezza (Pulchritudo) che muove direttamente da Dio e termina con il piacere (la Voluptas) che serve a procurare quello stato di gioia attraverso il quale si può arrivare al ricongiungimento con la divinità, in una sorta di circuito spirituale che va da Dio al mondo e viceversa. Venere, in quanto dea che presiede l’amore, la bellezza e i piaceri dell’amore, potrebbe dunque essere intesa come immagine che somma le caratteristiche dell’amore secondo il pensiero ficiniano, e gli attributi che l’accompagnano potrebbero non essere necessariamente intesi come simboli coniugali, ma semplicemente come elementi che dettagliano le qualità dell’amore (la rosa allude alla costanza, il mirto alla gioia, la perla alla purezza del sentimento amoroso). Lo stesso cane non deve essere necessariamente letto come simbolo di fedeltà coniugale, anche perché qui, peraltro, l’animale non può vigilare, dato che è assopito: Arasse, per esempio, ha notato come la curvatura della sua schiena richiami la curva della gamba di Venere, suggerendo “una relazione assai più stretta con il corpo col quale condivide il giaciglio”, tanto che il cane, con la sua pelliccia, potrebbe addirittura condensare “la rappresentazione di un pelo troppo intimo per essere mostrato”. Tuttavia, anche senza volersi spingere in una lettura tanto spinta, si potrebbe ricordare che il cane, in antico, era associato anche alla lussuria: nell’Amor sacro e Amor profano, il capolavoro di Tiziano conservato alla Galleria Borghese, un cane che, sullo sfondo, dà una caccia alla lepre è stato talvolta interpretato come simbolo d’un istinto sessuale predatorio. E ancora, un cane compare anche nella Danae del Prado, dipinto col quale il tema della fedeltà coniugale non ha niente a che vedere. Il cane che giace addormentato e innocuo ai piedi di Venere potrebbe dunque alludere alla capacità dell’amore di sopire le pulsioni più ferine. Si potrà però notare come il cane della Venere di Urbino sia identico a quello che compare nel Ritratto di Eleonora Gonzaga, dipinto in cui Tiziano, nel 1532, raffigurò la moglie di Francesco Maria I Della Rovere, padre di Guidobaldo II. L’animale potrebbe dunque essere stato funzionale, molto più banalmente, a offrire al committente del dipinto un ulteriore elemento di familiarità nell’ambientazione, anche se non è detto che quello che osserviamo sia proprio il cane della famiglia Della Rovere: più semplicemente, gli spaniel come quello dipinto nella Venere di Urbino erano cani alla moda a quel tempo.
Rimarrebbe in questo caso da spiegare la presenza delle due ancelle che rovistano nel cassone. Interessante, e allo stesso tempo ardita, è in tal senso la lettura dello studioso giapponese Hidehiro Ikegami che, proponendo d’individuare nella ragazza che sbircia nel cassone una giovanissima e inesperta ancella (il bianco del suo vestito sarebbe simbolo della sua innocenza) e, in quella a fianco, una più matura e consapevole domestica, ritiene di leggere le tre donne che compaiono nel dipinto come un’allegoria delle tre età in relazione al tema dell’amore: la ragazzina che s’affaccia curiosa alle prime esperienze amorose (di qui l’idea di infilare la testa nel cassone), Venere che invece rappresenta la maturità e la consapevolezza di questo sentimento, e infine la domestica più anziana che allude all’età tarda, e il fatto di volgersi indietro a guardare nel cassone potrebbe essere, secondo Ikegami, segno che la donna sta contemplando il tempo trascorso.
Si può comunque pensare che il significato del dipinto stia nel mezzo, per così dire: né un quadro educativo rivolto alla giovane sposa, né un dipinto erotico camuffato da celebrazione dell’amore platonico. C’è per esempio chi, come la studiosa Andrea Beyer, ha suggerito l’idea che la Venere di Urbino sia piuttosto un dipinto in cui la dea viene convocata per svolgere il ruolo di pronuba onde esaltare un matrimonio combinato che nessuno dei due sposi voleva: si conserva una straziante lettera che Guidobaldo invia a suo padre, Francesco Maria Della Rovere, per chiedergli il permesso di sposare la donna di cui era innamorato (ricambiato), la sua coetanea Clarice Orsini, nipote di papa Giulio II. Il giovane ricevette in risposta un diniego brutale: un matrimonio con quella famiglia non era considerato degno per l’erede di un ducato, né la madre di Clarice, ovvero Felice della Rovere, figlia illegittima di Giulio II, aveva dimostrato interesse per un possibile matrimonio. Guidobaldo doveva dunque rassegnarsi a sposare la giovane figlia dei signori di Camerino. La stessa studiosa ha comunque invitato a considerare che sarebbe sbagliato attribuire a dipinti come la Venere di Urbino significati esclusivamente “innocenti o domestici”: l’opera ha una innegabile carica erotica che tuttavia potrebbe anche non orientare la lettura del dipinto verso un significato al posto d’un altro. Più semplicemente, dobbiamo immaginare che Tiziano abbia scelto di diffondere deliberatamente attorno al suo capolavoro quell’aura d’ambiguità di cui s’è detto. S’è a lungo speculato, per esempio, sull’identità della Venere: una donna realmente esistita? Una modella occasionale? Una cortigiana? Un tipo ideale? Non c’è una risposta più valida rispetto a un’altra.
Ad ogni modo, ampia è la varietà di letture che le donne di Tiziano possono garantire, ed è sempre l’ambiguità di questo straordinario artista a rendere possibile tale varietà. “Possiamo affermare”, ha scritto Sylvia Ferino-Pagden, “che Tiziano creò donne e tipi femminili, disegnandole ed ‘equipaggiandole’ secondo interessi diversificati ma esattamente calcolabili: le variabili da mettere in campo erano fondamentalmente bellezza ed erotismo implicito, magari arricchito da un abile gioco tra distacco e disponibilità, e dalla continua tensione tra promessa e astinenza, concessione e negazione, casto rifiuto e accenni di promiscuità. L’artista era in grado di dare corpo all’intera gamma dei discorsi poetici sull’amore. L’ambiguità era un elemento in grado di accrescere particolarmente il fascino erotico, e Tiziano ne faceva largo uso in questo tipo di opere”. È per questo motivo che è difficile trovare un significato che s’attaglia al dipinto meglio d’un altro: è invece più probabile che i livelli di lettura siano molteplici, che i significati vadano a intersecarsi, che un’ipotesi non ne escluda un’altra. E forse è proprio in questa sofisticata ambiguità che si cela la più parte del fascino che la Venere di Urbino emana da secoli.
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo