Ninfe e Veneri nel primo Cinquecento veneto, da Giorgione a Tiziano: l'amore in tutti i suoi significati


A Venezia, nel primo Cinquecento, si diffuse un nuovo genere, che vedeva per protagoniste giovani e bellissime donne nude e distese. Inaugurato da Giorgione, fu continuato da artisti come Palma il Vecchio, Lorenzo Lotto, Tiziano. I pittori declinavano l'amore attraverso queste donne: vediamo alcuni esempi.

L’allestimento delle sale degli Uffizi dedicate al Cinquecento veneto e toscano ch’è stato inaugurato nella primavera del 2019 consente di abbracciare, con un unico colpo d’occhio, due straordinarie opere collocate in due sale diverse ma comunicanti, di due pittori che vissero negli stessi anni (anzi: erano coetanei), che lavorarono nella stessa città, ovvero Venezia, e che condivisero l’edonismo che contraddistinse la pittura veneta d’inizio Cinquecento: sono la Venere di Urbino di Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore, 1490 circa - Venezia, 1576) e La nuda di Bernardino Licinio (Venezia, 1485 circa - dopo il 1549). Opere entrambe realizzate nello stesso torno d’anni (è del 1538 la Venere di Urbino, mentre risale al 1540 circa La nuda), che risentono delle stesse atmosfere e s’inseriscono nella stessa moda, e che condividono diversi elementi, sebbene ce ne siano anche altri che le separano. Il più evidente comune denominatore di questa e di altre opere simili è però un genere molto in voga nella Venezia del tempo, di cui la Venere di Tiziano non è che l’episodio più celebre e noto: le giovani donne nude e distese che abbondano nella produzione dei pittori loro contemporanei.

Occorre tuttavia fare un passo indietro e tornare all’opera che diede origine a questo fortunato genere: la Venere dormiente, capolavoro di Giorgione (Giorgio Barbarelli?; Castelfranco Veneto, 1478 - Venezia, 1510), terminata dallo stesso Tiziano che avrebbe ridipinto il paesaggio (mentre secondo alcuni studiosi, in realtà, avrebbe ridipinto tutta l’opera). La prima menzione di questo quadro, oggi conservato alla Gemäldegalerie di Dresda, risale ad alcuni anni dopo la sua realizzazione: lo vide il letterato Marcantonio Michiel (Venezia, 1484 - 1552), nel 1525, nella casa del patrizio veneziano Girolamo Marcello, che con tutta probabilità fu il committente del dipinto. L’opera, invece, oggi è in Germania perché, se nel 1660 era ancora attestata in casa Marcello, nel 1697 finì sul mercato, e l’antiquario francese Le Roy la acquistò per Augusto di Sassonia: così, nel 1707, l’opera comparve per la prima volta negli inventarî della galleria tedesca, citata come Eine Venus mit einem Amorett von Giorgione (l’amorino accompagnava in antico la Venere prima che venisse ridipinta, come hanno dimostrato le radiografie). Nella sua Notizia d’opere di disegno, trattato pubblicato a Bassano nel 1530, Michiel descriveva l’opera come “la tela della Venere nuda che dorme in un paese cum cupidine fo de mano de Zorzo da Castelfranco, ma lo paese e la Cupidine forono da Titiano” (era stato quindi Michiel il primo a diffondere l’attendibile notizia dell’intervento del cadorino nel dipinto). Si trattava di un’opera decisamente innovativa, il cui significato è stato a lungo discusso. Per esplorarlo, si può cominciare con un’ipotesi formulata dalla storica dell’arte australiana Jaynie Anderson, tra i maggiori esperti dell’arte di Giorgione: secondo la studiosa, l’opera sarebbe stata eseguita per il matrimonio tra Girolamo Marcello e Morosina Pisani celebrato il 9 ottobre del 1507, e la Venere rappresenterebbe la bellezza che protegge la famiglia Marcello, che secondo i suoi membri avrebbe avuto origine dalla stirpe di Enea (e peraltro, com’è noto, lo stesso Enea era ritenuto figlio di Venere dalla mitologia).

La novità di Giorgione è interessante sia dal punto di vista iconografico, sia da quello iconologico. Prima della Venere di Dresda, nessun pittore aveva dipinto una divinità in questi termini: nuda, addormentata, distesa su di un lenzuolo posato sul un prato, sensuale fino a sfociare nell’erotismo (con anche una mano che accarezza i genitali: di questo gesto diremo meglio più avanti). L’invenzione è stata fatta risalire (ne parlò per primo Fritz Saxl nel 1935) a una xilografia, attribuita a Benedetto Bordone, che illustra l’Hypnerotomachia Poliphili, il celeberrimo romanzo allegorico stampato proprio a Venezia, nella tipografia di Aldo Manuzio, nel dicembre del 1499: qui, troviamo un soggetto classico, una Ninfa scoperta da un satiro, che sarebbe stato poi ripreso, in tutta la sua carnalità (ovviamente attenuata da Giorgione, che vi s’ispira per mere ragioni iconografiche), da numerosi artisti dal Cinquecento in poi. Questa peculiarità, che rende la Venere di Giorgione così fisica e seducente, è stata oggetto di diverse letture. La sensualità sarebbe stata voluta da Giorgione: per spiegarla, Maurizio Calvesi ha citato un passo dei Dialoghi d’amore, un trattato, pubblicato sempre da Manuzio, nel 1535, del filosofo portoghese Judá Abravanel (Lisbona, 1460 circa - Napoli, 1530 circa), noto in Italia come Leone Ebreo. Nel trattato si legge che i pittori “dipingono nuda” la dea Venere “perché l’amore non si può coprire, e ancora perché ella è carnale, e perché gli amanti si debbono trovare nudi”. La Venere di Giorgione è dunque perfettamente e compiutamente calata in una dimensione terrena e sensoriale (ed è per questa ragione, secondo Calvesi, che con la mano si tocca il pube). La novità stava perciò nella scoperta, da parte del pittore, della bellezza fisica della donna: in uno studio del 1988, lo storico dell’arte Davide Banzato, nel concordare con quanti avevano riconosciuto a Giorgione “l’invenzione unica di una sessualità delle immagini”, citava un passaggio di uno studio su Giorgione di Eugenio Battisti e Mary Lou Krumrine, secondo i quali “il naturalismo è uno strumento altamente fantastico per cui [...] l’apprezzamento estetico della bellezza femminile può e forse deve portare alla fruizione fisica di essa, con capacità ad un tempo di stimolo e liberatorie”. La sensualità in rapporto alla potenzialità generatrice dell’amore spiega anche perché il dipinto sia da collocare in un contesto matrimoniale.

La Venere dormiente di Giorgione e la Nuda di Bernardino Licinio nelle sale degli Uffizi
La Venere dormiente di Giorgione e la Nuda di Bernardino Licinio nelle sale degli Uffizi


Giorgione (finito da Tiziano), Venere dormiente (1507-1510; olio su tela, 108,5 x 175 cm; Dresda, Gemäldegalerie)
Giorgione (finito da Tiziano), Venere dormiente (1507-1510; olio su tela, 108,5 x 175 cm; Dresda, Gemäldegalerie)


Benedetto Bordone (attribuito), Scena con ninfa e satiro, dalla Hypnerotomachia Poliphili (1499, pubblicato da Aldo Manuzio in Venezia; incisione, foglio 29,5 x 22 cm)
Benedetto Bordone (attribuito), Scena con ninfa e satiro, dalla Hypnerotomachia Poliphili (1499, pubblicato da Aldo Manuzio in Venezia; incisione, foglio 29,5 x 22 cm)

Era dunque precisa intenzione di Giorgione, come del resto già aveva rilevato Pietro Zampetti negli anni Cinquanta, dipingere un nudo da contemplare, immerso in un idilliaco paesaggio, familiare al committente, che vi poteva agevolmente riconoscere le campagne attorno ad Asolo, luogo di abituali soggiorni di piacere del patriziato veneziano. Dopo Giorgione, questo genere conobbe una vasta e durevole fortuna: il più celebre degli artisti che ne raccolsero il testimone fu proprio Tiziano, con la sua Venere d’Urbino dipinta circa trent’anni dopo la Venere dormiente. E rispetto al suo mentore, Tiziano introdusse altri elementi che accentuarono alcuni caratteri della rivoluzione giorgionesca. Anche in questo caso, si tratta di un lavoro che fu probabilmente dipinto nel contesto dell’unione di una coppia: sappiamo infatti che l’opera fu eseguita nel 1538 per conto di Guidobaldo II della Rovere (Urbino, 1514 - Pesaro, 1574), duca di Urbino, che nel 1534 aveva sposato Giulia da Varano, e che nel marzo del 1538 aveva scritto a un suo agente a Venezia, Girolamo Fantini, di non partire dalla città lagunare senza due dipinti, ovvero un ritratto del duca e una “donna nuda”, unanimemente identificata come la Venere di Urbino, che dunque quell’anno stava per essere finita e trasportata nella città marchigiana (che avrebbe poi lasciato nel 1631, in direzione Firenze, assieme a gran parte delle collezioni urbinati: erano la dote di Vittoria della Rovere, che aveva sposato Ferdinando II de’ Medici, granduca di Toscana). Il primo a descriverla fu Giorgio Vasari, che nell’edizione del 1568 delle Vite la illustrò come “una Venere giovanetta a giacere, con fiori e certi panni sottili attorno, molto belli e ben finiti”.

La Venere si palesa ben sveglia agli occhi del riguardante (John Shearman, nel suo celebre saggio Arte e spettatore nel Rinascimento italiano, scrive chiaramente che Tiziano aveva previsto uno spettatore nella struttura dell’opera, e quello spettatore altri non sarebbe stato che lo stesso Guidobaldo della Rovere), al contrario della Venere dormiente del Giorgione, e si presenta con alcuni attributi che rimandano chiaramente all’amore nuziale: le rose che la dea stringe nella mano destra (simbolo della costanza dell’amore, oltre che fiore sacro a Venere: assieme al vaso di mirto sul davanzale sono l’unico attributo che, nel dipinto, permette d’identificare la dea, dal momento che Tiziano ha rimosso ulteriori riferimenti alla mitologia), il cagnolino (simbolo di fedeltà), l’orecchino di perla (simbolo di purezza). E poi, il cassone nel quale stanno rovistando le due domestiche rimanda anch’esso a una camera matrimoniale (dal momento che, nel Rinascimento, era un mobile tipico della camera da letto), mentre l’ambientazione (un sontuoso interno con tende di velluto, con una bifora sullo sfondo, con i preziosi arazzi) richiama un’abitazione della nobiltà del tempo. È un’altra importante differenza rispetto alla Venere dormiente, che era invece immersa in un contesto bucolico: è probabile che il cambio d’ambientazione fosse dovuto alla necessità di continuare a garantire una facilità d’identificazione per il committente (la corte d’Urbino non andava in villeggiatura nella campagna veneta, e forse per questo Tiziano ha optato per un interno). Tutti questi elementi portano dunque a pensare che il senso non sia così diverso rispetto a quello della Venere dormiente, e che la Venere di Urbino non rappresenti, come da alcuni è stato ipotizzato, la celebrazione di un amore erotico, ma semmai di un amore coniugale, e la sensualità è da intendere come quella della moglie che si concede solo al marito. È comunque vero, come si può facilmente notare, che Tiziano accentua l’erotismo della Venere dormiente, che là era suggerito e qua è invece consapevole, dal momento che la dea di Tiziano invita scopertamente l’osservatore: è qui utile riprendere Shearman, secondo il quale la parte di chi guarda il dipinto è cambiata rispetto al quadro di Giorgione. La Venere di Urbino, è un “ritratto di una figura nuda in orizzontale che dirige lo sguardo al proprio amante”, invenzione iconografica di Tiziano che rivolge un invito esplicito all’osservatore: la dea di Venere ha dunque una consapevolezza che quella del Giorgione non ha, e di conseguenza il ruolo dell’osservatore si trasforma. “Mentre la Venere di Giorgione è offerta passivamente alla nostra contemplazione”, ha scritto lo storico dell’arte Daniel Arasse, “si offre ‘consapevolmente’ ad una contemplazione che essa stessa accetta”. Ma non solo: “Giorgione”, continua Arasse, “aveva collocato il corpo nudo in un paesaggio e vi aveva costruito echi mediati, sottili effetti di rima tra le curve del corpo e quelle della natura. Per contro, la Venere di Tiziano è vista in un interno di palazzo, dal quale il mondo della natura è appena intravisto attraverso la finestra. Con un semplice cambiamento di luogo, Tiziano fa del suo modello una donna che può essere reale, mentre la donna di Giorgione non poteva venire percepita che come un personaggio mitico”.

Per quanto riguarda la Nuda di Bernardino Licinio, c’è intanto da specificare che dobbiamo l’odierno titolo allo storico dell’arte Detlev von Hadeln, che la pubblicò nel 1923 attribuendola per la prima volta al pittore veneto, ma non abbiamo attestazioni antiche: si può ipotizzare d’identificarla con una “nuda” che Michiel aveva visto nella camera da letto del mercante lombardo Andrea Odoni, ma non ci sono certezze al riguardo. È altamente probabile che Licinio abbia voluto raffigurare un’allegoria dell’amore come avevano fatto Giorgione e Tiziano (le due colombe che compaiono vicino alla donna nuda potrebbero essere un richiamo alla dea Venere, dato che sono animali sacri alla dea), ma è stato anche rilevato come ciò che differenzia Licinio dai due precedenti sia il tentativo di eliminare ogni aura mitologica dal soggetto. Una donna, dunque, dalla fisicità piena, terrena e invitante: non è neppure da escludersi che la donna raffigurata sia addirittura una cortigiana. Ipotesi che peraltro alcuni hanno formulato anche per la Venere di Urbino, anche se si tratta di una lettura che pare poco attendibile, dati gli evidenti richiami coniugali: più probabile, semmai, che la cortigiana sia quella dipinta da Licinio, e che quindi incarni un amore meno romantico rispetto a quello della dea tizianesca. Un’ulteriore declinazione dell’amore nella Venezia del Cinquecento.

Tiziano, Venere di Urbino (1538; olio su tela, 119 x 165 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi)
Tiziano, Venere di Urbino (1538; olio su tela, 119 x 165 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi)


Bernardino Licinio, La Nuda (1540 circa; olio su tela, 80,5 x 154 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi)
Bernardino Licinio, La Nuda (1540 circa; olio su tela, 80,5 x 154 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi)

L’eco dell’invenzione giorgionesca sarebbe durata a lungo nell’arte veneziana. Ci fu, intanto, chi la riprese per inserirla in composizioni di più ampio respiro. È il caso di Giovanni Bellini, che pochi anni dopo l’esecuzione della Venere dormiente (Venezia, 1433 circa - 1516) s’ispirò al più giovane collega dell’entroterra (i due erano separati da circa cinquant’anni d’età) per inserire una donna seminuda, sdraiata come la Venere dormiente, nel suo Festino degli dèi, opera del 1514 conservata alla National Gallery di Washington: è una ninfa (probabilmente Lotide) che viene insidiata dal dio Priapo, che s’avvicina furtivo mentre lei dorme. C’è però da dire che i due personaggi ricalcano fedelmente anche l’incisione dell’Hypnerotomachia Poliphili, opera che sicuramente Bellini conosceva, ed è pertanto difficile capire quale fosse la sua fonte e quanto esteso possa essere il ricorso a Giorgione, o in che modo il Giorgone possa aver orientato i suoi propositi. Lo stesso si può dire per Dosso Dossi (Giovanni Francesco di Niccolò Luteri; San Giovanni del Dosso?, 1489 circa - Ferrara, 1542), che adottò lo stesso schema nel suo Pan e la ninfa del 1524 circa, allegoria mitologica custodita oggi al Getty Museum di Los Angeles: anche qui troviamo una ninfa addormentata, attorniata da due figure femminili, mentre Pan sopraggiunge alle loro spalle. Com’è tipico del pittore ferrarese d’adozione, è estremamente difficile ricostruire la trama del dipinto: possiamo però dire che Dosso, dal momento che ben conosceva le opere di Giorgione, potrebbe aver tratto dal pittore di Castelfranco il motivo della donna nuda sdraiata nel paesaggio (paesaggio che, in Dosso, è peraltro spiccatamente giorgionesco).

Chi apprezzò particolarmente l’idea di Giorgione fu Palma il Vecchio (Jacopo Negretti; Serina, 1480 circa - Venezia, 1528): la sua Ninfa in un paesaggio, anch’essa conservata alla Gemäldegalerie di Dresda, non è che l’esempio forse più famoso di un gruppo di opere similari, come la Venere in un paesaggio della Courtauld Gallery di Londra, che si differenzia da quella di Dresda perché, contrariamente a quest’ultima, si copre il pube, o come la Venere e Cupido in un paesaggio del Norton Simon Museum di Pasadena, copia di quella londinese con la semplice aggiunta del piccolo dio dell’amore, o ancora come la Venere e cupido del Fitzwilliam Museum, dove la sensualissima dea riceve una freccia dal figlio (anche se non sappiamo chi la stia passando a chi: è probabile però che Palma il Vecchio abbia qui voluto illustrare l’antefatto della storia di Venere e Adone, con la dea che, per errore, si colpisce con una freccia di Cupido e s’innamora del bellissimo giovane). La Ninfa, tuttavia, è concettualmente più simile all’opera di Licinio (benché precedente: è databile al 1518-1520 circa) che a quella di Giorgione: nonostante, rispetto alle donne di Giorgione e Licinio, quella di Palma sia desta e fissa l’osservatore negli occhi, qui cade ogni riferimento alla dea dell’amore (certo, anche in Giorgione i legami erano labili: la posa, che richiamava quella della Venus pudica che si copriva il pube, e il legame con le origini della famiglia), e la mano è lontana dei genitali, segno che questa ninfa, dato anche il suo atteggiamento, parrebbe non aspettare altro che di concedersi. Lo studioso Mauro Zanchi si è a lungo soffermato sulla Ninfa, motivandola su basi letterarie, in particolare chiamando in causa gli Asolani di Pietro Bembo (Venezia, 1470 - Roma, 1547), dove, scrive Zanchi, “le donne sono considerate come le ninfe dei boschi, in grado di incantare gli uomini con un solo sguardo e di attrarre con la bellezza del loro corpo nudo, a volte diventando un ostacolo sulla via tortuosa che conduce al raggiungimento dell’elevazione morale”. Si potrebbe leggere così la Ninfa, ma lo stesso storico dell’arte avvisa che, nella stessa produzione di Palma il Vecchio, si possono cogliere anche messaggi opposti, come nel caso delle Veneri, che diventano “sintesi di un ideale di bellezza virginale”, tanto più che il pittore parrebbe quasi introdurre una doppia identificazione, che somma a Venere alcune caratteristiche della dea Artemide, notoriamente vergine (si può considerare “il gesto della mano sinistra a V capovolta un attributo di Diana”, e si può pensare “che il dio dell’amore stia consegnando una freccia che potrebbe essere anche tolta dalla faretra della dea lunare”: il gesto delle dita a forbice compare spesso nelle ninfe di Palma). Diana è peraltro protagonista assieme ad altre ninfe in un dipinto conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna: opere come quelle appena passate in rassegna, per Zanchi potrebbero anche contenere dei “messaggi ‘protofemministi’” in quanto le composizioni sono affollate di donne “emancipate” (una lettura probabilmente troppo spinta: anche perché, se è vero che nel primo Cinquecento la donna godette di una condizione migliore rispetto a quella di cui aveva potuto beneficiare in epoche precedenti, questo era vero solo per alcune città e, ovviamente, per i ceti più alti della società).

Allo stesso clima appartengono altre opere, come la cosiddetta Venere in un paesaggio di Giovanni Cariani (Fuipiano al Brembo, 1485 circa - Venezia, 1547), chiamata “Venere” pur senza che ci sia evidenza di dettagli che possano identificarla con certezza come la dea dell’amore, o la splendida Venere e Cupido di Lorenzo Lotto (Venezia, 1480 - Loreto, 1556/1557), conservata al Metropolitan Museum di New York e quasi sicuramente eseguita, anche in questo caso, in occasione d’un matrimonio (forse quello tra due nobili bergamaschi, Girolamo Brembati e Caterina Suardi: all’epoca, Bergamo faceva parte della Repubblica di Venezia). Dei dipinti visti sin qui, quello di Lorenzo Lotto è il più ricco di rimandi simbolici: le rose, gli orecchini di perla, la cornucopia (simbolo di fecondità e di prosperità), il mirto (allusione all’amore), il diadema (che era tipico delle spose), il braciere (altro rimando al matrimonio, dal momento che si trattava di un oggetto che arredava le camere matrimoniali del tempo). È incredibilmente curioso lo scanzonato e goliardico atteggiamento di Cupido, impegnato a esibirsi in un’acrobatica minzione attraverso la ghirlanda: questo gesto è stato letto come un simbolo di fertilità, dal momento che la mimica richiama la penetrazione e la conseguente eiaculazione. C’è infine da aggiungere un’ultima opera, che apporta ulteriori motivi di discussione: è la Venere di Giulio Campagnola (Padova, 1482 - dopo il 1515), quella che cronologicamente è più vicina alla Venere di Giorgione, essendo stata realizzata attorno al 1510.

Giovanni Bellini, Festino degli dèi (1514; olio su tela, 170,2 x 188 cm; Washington, National Gallery of Art)
Giovanni Bellini, Festino degli dèi (1514; olio su tela, 170,2 x 188 cm; Washington, National Gallery of Art)


Dosso Dossi, Pan e la ninfa (1524 circa; olio su tela, 163,8 x 145,4 cm; Los Angeles, J. Paul Getty Museum)
Dosso Dossi, Pan e la ninfa (1524 circa; olio su tela, 163,8 x 145,4 cm; Los Angeles, J. Paul Getty Museum)


Palma il Vecchio, Ninfa in un paesaggio (1518-1520 circa; olio su tela, 113 x 186 cm; Dresda, Gemäldegalerie)
Palma il Vecchio, Ninfa in un paesaggio (1518-1520 circa; olio su tela, 113 x 186 cm; Dresda, Gemäldegalerie)


Palma il Vecchio, Venere in un paesaggio (1520 circa; olio su tela, 77,5 x 152,7 cm; Londra, Courtauld Gallery)
Palma il Vecchio, Venere in un paesaggio (1520 circa; olio su tela, 77,5 x 152,7 cm; Londra, Courtauld Gallery)


Palma il Vecchio, Venere e Cupido in un paesaggio (1515 circa; olio su tela, 88,9 x 167 cm; Pasadena, Norton Simon Museum)
Palma il Vecchio, Venere e Cupido in un paesaggio (1515 circa; olio su tela, 88,9 x 167 cm; Pasadena, Norton Simon Museum)


Palma il Vecchio, Venere e Cupido (1520 circa; olio su tela, 118,1 x 208,9 cm; Cambridge, Fitzwilliam Museum)
Palma il Vecchio, Venere e Cupido (1520 circa; olio su tela, 118,1 x 208,9 cm; Cambridge, Fitzwilliam Museum)


Palma il Vecchio, Bagno delle ninfe (1519-1520; olio su tela applicata su tavola, 77,5 x 124 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum)
Palma il Vecchio, Bagno delle ninfe (1519-1520; olio su tela applicata su tavola, 77,5 x 124 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum)


Lorenzo Lotto, Venere e Cupido (1525 circa; olio su tela, 92,4 x 111,4 cm; New York, The Metropolitan Museum)
Lorenzo Lotto, Venere e Cupido (1525 circa; olio su tela, 92,4 x 111,4 cm; New York, The Metropolitan Museum)


Giovanni Cariani, Venere in un paesaggio (1530-1535 circa; olio su tela, 80,5 x 138,5 cm; Windsor, Royal Collection)
Giovanni Cariani, Venere in un paesaggio (1530-1535 circa; olio su tela, 80,5 x 138,5 cm; Windsor, Royal Collection)


Giulio Campagnola, Venere in un paesaggio (1510-1515; incisione, 121 x 182 mm; Londra, British Museum)
Giulio Campagnola, Venere in un paesaggio (1510-1515; incisione, 121 x 182 mm; Londra, British Museum)

L’incisione di Campagnola è interessante perché, al contrario di ciò che accade per tutte le Veneri e di tutte le ninfe viste sin qui, la protagonista dà le spalle al riguardante, ma ciò non le impedisce di tenere una mano tra le gambe. Questo gesto è stato letto dalla storica dell’arte Maria Ruvoldt come un’allusione a una masturbazione. C’è da dire che la studiosa interpretava anche il gesto della Venere di Giorgione allo stesso modo, e almeno per Campagnola non ci sarebbero grossi margini di dubbio, secondo lei: il fatto è che le gambe della dea non sono incrociate, ma sono anzi leggermente divaricate, segno che probabilmente la Venere dell’artista padovano sta introducendo una mano per procurarsi piacere. Non sappiamo se sta riposando o se ha gli occhi chiusi perché sta godendo pienamente il momento che si è concessa per sé: ad ogni modo, ancor più interessante è cercare di comprendere per quale ragione dia le spalle all’osservatore. Probabilmente è come se Campagnola abbia voluto instaurare una sorta di barriera tra la donna e chi la guarda: la sua incisione non è una celebrazione dell’amore coniugale, ma è semmai un ulteriore inno alla sensualità, e questa distanza dall’uomo che la desidera (e che potrebbe rimandare a Petrarca) la rende seducente ma lontana. È in questa ambiguità che probabilmente risiede il senso della raffigurazione. Scrive Ruvoldt che “stimolando il desiderio del riguardante e forzandone però il suo annullamento, la donna sembra spingere l’osservatore al di là del tangibile, al di là degli aspetti fisici del desiderio, così da raggiungere quella trascendenza spirituale che rende possibile l’amore”.

La masturbazione, si diceva, è stata chiamata in causa anche per la Venere dormiente (oltre che, si potrebbe aggiungere, per la Venere di Urbino): il gesto delle dee, in effetti, lascia spazî aperti a queste possibilità d’interpretazione. Le due poetesse Katharine Harris Bradley ed Edith Emma Cooper, che a fine Ottocento scrissero sotto lo pseudonimo maschile Michael Field, dedicarono alla Venere di Giorgione una poesia, intitolata The Sleeping Venus, dove si parla in maniera palese di piacere autoprovocato: “Her hand the thigh’s tense surface leaves, / Falling inward. Not even sleep / Dare invalidate the deep, / Universal pleasure sex / Must unto itself annex / Even the stillest sleep; at peace, / More profound with rest’s increase, / She enjoys the good / Of delicious womanhood”. È risaputo che i trattati medici dell’antichità (da Galeno in poi), per continuare con quelli medievali, associassero l’orgasmo della donna alla fertilità, e di conseguenza la masturbazione femminile era accettata e consigliata dai medici in quanto ritenuta funzionale alla procreazione. In sostanza, un ulteriore modo di vedere l’amore: non sappiamo se poi questa lettura possa effettivamente trovare una corrispondenza con la realtà, ma c’è anche da dire che l’alta società veneziana del primo Cinquecento era molto aperta e tollerante, e che simili rimandi non sono poi così strani in un dipinto prodotto da quel contesto così colto e sensibile.

Bibliografia di riferimento

  • Loren Partridge, Art of Renaissance Venice, 1400–1600, University of California Press, 2015
  • Antonio Paolucci, Lionello Puppi, Enrico Maria Dal Pozzolo, Giorgione. Dipinti e misteri di un genio, catalogo della mostra (Castelfranco Veneto, Museo Casa Giorgione, dal 12 dicembre 2009 all’11 aprile 2010), Skira, 2009
  • Sergio Momesso, Bernardino Licinio, L’Eco di Bergamo - Museo Bernareggi, 2009
  • Filippo Pedrocco, Tiziano, Rizzoli, 2000
  • Philip Rylands, Palma il Vecchio, Cambridge University Press, 1992
  • Davide Banzato, Giorgione. Tutta la pittura, Nardini, 1988
  • Daniel Arasse, Tiziano: Venere d’Urbino, Arsenale, 1986
  • Fiorenza Scalia, Beatrice Paolozzi Strozzi, L’Opera ritrovata. Omaggio a Rodolfo Siviero, Cantini, 1984
  • Jaynie Anderson, Giorgione, Titian and the Sleeping in AA.VV., Tiziano e Venezia, atti del convegno (Venezia, Università degli Studi, dal 27 settembre al 1° ottobre 1976), Neri Pozza, 1980
  • Pietro Zampetti (a cura di), Giorgione e i giorgioneschi, catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Ducale, dall’11 giugno al 23 ottobre 1955), Casa editrice Arte Veneta, 1955


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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