Dopo più di un decennio trascorso in qualità di curatrice al Mart di Rovereto, nel 2015 Elisabetta Barisoni ha trovato casa al Muve - Fondazione Musei Civici di Venezia, diventando già dall’anno successivo responsabile della gestione organizzativa della Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro, del Vega.stock e, dal febbraio scorso, del Museo Fortuny e delle sedi mestrine gestite dallo stesso Muve, e cioè il Centro Culturale Candiani, l’Emeroteca dell’Arte, il Forte Marghera e il futuro Palaplip. Focalizzando l’attenzione su Ca’ Pesaro, le prossime mostre importanti saranno Giulio Aristide Sartorio. Poema della vita umana da maggio a settembre, mentre da ottobre a febbraio 2026 andrà in scena Gastone Novelli, con contestuale ingresso nella collezione permanente di alcuni dipinti donati al museo veneziano. Si aggiungono la valorizzazione delle opere di Raoul Schultz (già in corso, fino all’8 giugno), la monografica di Antonello Viola (giugno-settembre) e quella di Terry Atkinson (da novembre), uno dei più significativi artisti inglesi degli ultimi decenni e tra i fondatori del gruppo Art & Language.
MS. Cominciamo dalla Galleria Internazionale d’Arte Moderna: ci racconta quali sono stati i suoi primi obiettivi e quali i passi avanti compiuti nel ruolo di responsabile tra il 2016 e oggi?
EB. Quando sono arrivata a Ca’ Pesaro come curatrice dell’arte moderna e contemporanea, ho dovuto studiare molto, poiché il museo ha un forte ruolo identitario per Venezia. In questi dieci anni, insieme a tutto il management, abbiamo attraversato alcune notevoli difficoltà come la pandemia da Covid che, se è vero che ha colpito tutti, per noi è stata preceduta da un’altra catastrofe, l’“Acqua Granda” del 2019: Ca’ Pesaro e il Museo Fortuny sono state le due sedi forse più pregiudicate da quell’episodio di acqua alta. Ciò nonostante siamo riusciti a dare continuità alla programmazione espositiva: il pubblico ora sa che tutti gli anni, in concomitanza con le Biennali, troverà due grandi mostre, una in primavera e una in autunno.
Perché è importante una programmazione così cadenzata?
Al netto dei visitatori che arrivano dall’estero, ci sono tanti appassionati italiani, veneti e veneziani che guardano con grande attenzione il calendario delle nostre mostre. Si tratta di un pubblico che va fidelizzato con una programmazione regolare, come del resto era già nelle intenzioni di Gabriella Belli. Negli anni di Biennale Arte ci focalizziamo quindi su un grande protagonista del secondo Novecento, spesso scelto tra gli artisti già presenti in collezione (ad esempio David Hockney, Afro, Gorky, e più di recente Armando Testa e Roberto Matta, artista che peraltro era uscito dai radar della critica e del pubblico). Negli anni di Biennale Architettura facciamo invece mostre più curiose, ad esempio Epoca Fiorucci del 2018, e quest’anno apriremo un’esposizione su un lavoro molto architettonico di Sartorio. Ovviamente, quando capita, celebriamo anche gli anniversari.
Cosa, in particolare, la rende più orgogliosa del suo primo decennio a Ca’ Pesaro?
Il principio ispiratore del mio lavoro è sempre stato tenere insieme la grande storia – penso agli a fondo su Gino Rossi e su Umberto Moggioli – con il contemporaneo: credo di esserci riuscita e questo investimento ci ha anche consentito di vincere due Italian Council e il bando Pac del Ministero della Cultura. La sede è stata inoltre premiata a livello internazionale: è il caso del progetto di Raqib Shaw il quale, dopo aver esposto da noi, ha trovato spazio a New York e a Los Angeles, raggiungendo una platea internazionale. Del resto non va dimenticato che spingersi fino al contemporaneo è sempre stata la natura originaria di Ca’ Pesaro fin dalla direzione di Nino Barbantini, che nel 1910 esponeva Boccioni – giovane ed esordiente – e allo stesso tempo acquistava Rodin, che non era né giovane né esordiente. Vogliamo insomma lavorare su una “memoria viva”, che non sia mai ripetitiva e che strizzi l’occhio anche alle avanguardie.
Come rispondono i visitatori?
Ca’ Pesaro nel 2024 ha registrato oltre 90mila ingressi, un dato in costante crescita. Negli ultimi anni non vedo più una gran differenza tra il flusso dei visitatori di Biennale Arte e Architettura i quali ovviamente si concentrano nella settimana inaugurale e poi tra settembre e novembre, che sono dei mesi d’oro anche per i musei. Nei momenti meno frequentati possiamo comunque contare sulle visite d’istruzione delle scuole, sugli studenti universitari e dell’Accademia e sul pubblico veneto, che è invece difficile da intercettare in luglio e in agosto. Per questo abbiamo deciso di assecondare in qualche modo l’andamento del nostro target di visitatori, aprendo una mostra tra marzo e aprile, al massimo a inizio maggio, così che copra tutto il periodo estivo, e un’altra tra ottobre e novembre, che si spinga fino alla fine del Carnevale. Siamo tuttavia consapevoli che il turista che viene per la prima volta a Venezia frequenta prima di tutto gli highlights dell’arte antica, dall’area marciana alle Gallerie dell’Accademia; i più interessati al contemporaneo hanno inoltre a disposizione la Collezione Peggy Guggenheim e Punta della Dogana/Palazzo Grassi quando ci sono le mostre, quindi sappiamo di doverci confrontare con molti e importanti competitor in città.
Ca’ Pesaro è indiscutibilmente uno dei musei più significativi in Italia per l’arte del Novecento: la fama del museo secondo lei corrisponde al suo valore intrinseco? In caso contrario, come pensa che potrebbe essere valorizzato meglio?
Il fatto che non tutti coloro che vengono a Venezia visitano Ca’ Pesaro non rappresenta necessariamente un problema perché ci sono altri gioielli in città che non sono così noti al grande pubblico, però il fine del nostro compito di operatori culturali è prima di tutto far sapere che il museo esiste. Penso che Ca’ Pesaro abbia scontato gli anni di chiusura per restauri e che poi non abbia avuto un rilancio immediato come sede di riferimento per la proposta moderna e contemporanea. Forse anche in quest’ottica la fondazione ha deciso di investire su di me: quando sono arrivata a Venezia avevo 38 anni, venivo dal Mart di Rovereto, quindi da una realtà molto concentrata sull’arte moderna e contemporanea. Nel contesto della fondazione, comunque, non ho mai sentito parlare di Ca’ Pesaro come un museo meno importante degli altri e, anzi, sono stati fatti investimenti in termini di mezzi tecnologici, ad esempio esplodendo la nostra presenza sui social. Inoltre abbiamo istituito il biglietto integrato per Ca’ Pesaro e Museo Fortuny, sedi che intercettano lo stesso target anche se hanno due diverse identità: entrambi però rappresentano il grande sogno del mito di Venezia a cavallo tra Ottocento e Novecento e sono stati donati alla città da due donne, la duchessa Bevilacqua La Masa ed Henriette Fortuny.
A proposito del Fortuny, come è cambiata la percezione del museo dopo il suo riallestimento terminato nel 2022?
Allora, a livello di numeri siamo soddisfatti anche se, come per Ca’ Pesaro, sulla parte moderna e contemporanea a Venezia si può sempre fare di più. Quel museo è il sogno di un grande artefice, di un grande Leonardo da Vinci del Novecento, Mariano Fortuny. Dopo la sua morte il museo ha sviluppato una storia che è eccezionale, e mi riferisco al centro di documentazione degli anni Settanta e alla presentazione delle avanguardie del secondo dopoguerra, dalla videoarte al cinema. Nel palazzo si incrocia la creatività poliedrica di Mariano e di Henriette che, con la loro artigianalità tipicamente veneziana, vestivano le donne di tutto il mondo in un momento in cui la città non era scintillante come oggi, ma era una realtà in grave crisi identitaria. L’allestimento attuale è stato pensato proprio per esprimere la straordinaria vitalità delle collezioni di Mariano ed Henriette, dalla fotografia ai tessuti, dai progetti per il teatro e per l’illuminotecnica fino ai ragionamenti sulle tempere: tutti fattori che ci consentono di agganciare anche chi ama la moda, il design, l’orientalismo, la fotografia o la tecnica. Ora a mio avviso si può recuperare anche lo spirito del Fortuny come luogo in cui negli anni Ottanta del Novecento si vedevano delle cose nuove, si facevano le grandi mostre di fotografia, delle nuove tecnologie e dei nuovi media: stiamo già lavorando molto per attirare varie generazioni, ad esempio i giovani creativi e gli studenti, e anche la nostra Presidente, Mariacristina Gribaudi, ha molto a cuore il successo del luogo, così da ricollocarlo nel posto che merita.
Trasferiamoci quindi in Terraferma: ci racconta dell’approdo del Muve a Mestre, che come si sa ricade sotto il Comune di Venezia?
È stato un lungo lavoro i cui inizi risalgono al 2016, quando il sindaco Brugnaro ci ha chiesto di “uscire dal centro storico”. Abbiamo così organizzato la prima mostra al Centro Culturale Candiani, trasferendo da Ca’ Pesaro la Giuditta di Klimt: il dipinto ha attraversato il ponte della Libertà, e potrebbe sembrare un piccolo spostamento, ma le rivoluzioni si fanno a partire da piccoli passi. Simbolicamente stato un gesto molto forte che ha testimoniato come le collezioni civiche d’arte moderna siano di tutto il Comune di Venezia e di tutti i cittadini, proprio perché sono civiche. Quell’iniziativa ha aperto la strada per il nostro approdo in Terraferma, dove per la verità avevamo già il deposito Vega.Stock, ma si tratta appunto di un deposito, di un luogo di lavoro con delle misure di sicurezza evidentemente peculiari.
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Che ruolo hanno oggi le sedi mestrine?
La sfida è stata di non essere elitari e lanciare il messaggio che lavorare sul territorio – un territorio vastissimo, che arriva fino a Portogruaro – dà grandissime soddisfazioni: siamo andati a presentare le mostre in tutte le biblioteche e la risposta è stata altissima, come altissimi sono stati i riscontri delle mostre. Abbiamo infatti contato 33 mila visitatori per Matisse e la luce del Mediterraneo, con l’8% di stranieri, la cui presenza a Mestre ha contribuito alla rigenerazione della città. Inoltre non va dimenticata la facilità con cui si raggiungono le sedi in Terraferma, fattore che ci dà la possibilità di organizzare eventi per anziani, per persone con disabilità motorie, per i malati di Alzheimer, per i ciechi. Facciamo questi laboratori anche a Venezia, ma in centro storico la struttura urbanistica non aiuta.
Recentissima è l’inaugurazione dell’Emeroteca dell’Arte che, sempre a Mestre, sta avendo un ottimo riscontro sia come caffetteria sia come luogo di incontri culturali. Sulla base di quali esigenze avete creato questo spazio?
Le mostre al Centro Candiani hanno gettato le fondamenta, essendo per definizione temporanee, per un presidio in via permanente a Mestre: infatti era molto difficile strutturare un programma di lungo periodo senza essere presenti con uno staff e uffici dedicati. L’Emeroteca dell’Arte è anche un caffè letterario, un luogo di incontri ed è aperto a tutti.
Infine, c’è un filo rosso che attraversa la laguna e che collega l’Emeroteca a Ca’ Pesaro, ed è l’attenzione per i giovani artisti. Ci parla delle residenze in corso?
In questo momento ci sono 15 artisti che stanno lavorando nei 13 atelier predisposti dal Muve presso l’Emeroteca dell’Arte: sono giovani talenti a cui diamo la possibilità di lavorare e fare ricerca, oltre che di sviluppare i loro primi progetti autonomi. Ad esempio il Collettivo Zeroscena ha già esposto la sua ricerca nell’ex ospedale psichiatrico di San Servolo, mentre Nina Baietta, sound artist, si è esibita durante il recente finissage della mostra su Marina Apollonio alla Guggenheim. Inoltre questi giovani hanno l’opportunità di incontrare, durante gli studio visit, artisti affermati, curatori, giornalisti. Il tutto sotto la “protezione” della Fondazione Musei Civici di Venezia e con l’aiuto dei colleghi e degli uffici strutturati, in dialogo con la Fondazione Bevilacqua La Masa. Mi auguro che dopo questa esperienza qualcuno di loro possa intercettare qualche residenza internazionale, così che l’arte italiana raggiunga l’estero, oppure che possano vincere delle borse di studio elargite da prestigiose istituzioni.
L'autrice di questo articolo: Marta Santacatterina
Marta Santacatterina (Schio, 1974, vive e lavora a Parma) ha conseguito nel 2007 il Dottorato di ricerca in Storia dell’Arte, con indirizzo medievale, all’Università di Parma. È iscritta all’Ordine dei giornalisti dal 2016 e attualmente collabora con diverse riviste specializzate in arte e cultura, privilegiando le epoche antica e moderna. Ha svolto e svolge ancora incarichi di coordinamento per diversi magazine e si occupa inoltre di approfondimenti e inchieste relativi alle tematiche del food e della sostenibilità.