Roberto Matta, l'avanguardia sospettata di kitsch


Recensione della mostra “Roberto Matta 1911-2002”, a cura di Norman Rosenthal, Dawn Ades ed Elisabetta Barisoni (Venezia, Ca’ Pesaro - Galleria Internazionale d’Arte Moderna, dal 25 ottobre 2024 al 23 marzo 2025).

Se si considera che la nascita del fumetto americano dura, grosso modo, dal 1933 al 1938, e tocca l’apice con il mito di Superman, non stupisce che l’interesse di Roberto Matta per i fumetti sia stato, per così dire, della prima ora. E d’altra parte stupisce ancora meno che Clement Greenberg, il più importante critico americano dell’epoca delle avanguardie, pubblicando proprio nel 1939 sulla rivista “Partisan Review” il saggio Avanguardia e Kitsch avesse preso il pittore cileno in antipatia proprio per certe affinità col linguaggio fumettistico che il critico vedeva come fumo negli occhi considerandolo una manifestazione pressoché totale del kitsch (e concausa della crisi sociale che favorì di fatto la crociata morale contro i fumetti dopo la fine della seconda guerra mondiale, come uno dei capri espiatori di un malessere giovanile sintomatizzato da fumetti e droga: e dato che il 90% dei giovani all’epoca leggeva comic books, sembrava una evidente causa del disagio sociale).

Matta era consapevole di questa relazione che l’arte veniva a stabilire col kitsch: era, infatti, il nuovo strumento che raccontava storie in un linguaggio bizzarro e grottesco. Il kitsch cui si interessavano gli artisti voleva essere una mossa critica verso il mondo contemporaneo. Ma l’esito era che, in una cultura di massa, se stai alle sue regole, vieni risucchiato: è quel che accadde poi con la Pop Art, ammesso e non concesso che l’intento di Rauschenberg, Lichtenstein e Warhol fosse la critica verso la società dei consumi.

Intanto, l’avanguardia di Greenberg incarnava una idea molto americana, a suo modo classica, dove l’arte guadagna la propria dignità in quanto esprime un sentimento nativo (come accade in Pollock, per esempio), ma lo stesso discorso di Greenberg potrebbe valere con Raffaello, il classico dei classici. Ed è su questa convinzione che il critico americano fonda la sua battaglia antiaccademica sostenendo, in modo forse sorprendente, che “il kitsch è accademico, e tutto ciò che è accademico è kitsch. Su questa linea egli stigmatizza appunto la rear-garde, la retroguardia. Che cosa cerca di testimoniare Greenberg? La vergogna dell’America aristocratica e di retaggio europeo che, partendo dal proprio gusto elitario, giudica i prodotti della cultura di massa, e nel caso specifico il fumetto, l’espressione di un gusto “popolare, commerciale, illustrativo, basso”. Per combattere il midcult l’avanguardia astratta diventerà agli occhi di Greenberg il momento classico che nega l’accademismo figurativo e si oppone alla cultura di massa, perché esprime la prosaicità estetica cui si espone, in effetti, ogni forma che cerca uno spazio creativo. Morale della favola, creare, nella società dei consumi, spinge verso il kitsch anche l’artista più scaltro e consapevole.

Matta, fresco di laurea in architettura, a ventitré va a Parigi dove incontra personaggi come Rafael Alberti e Federico García Lorca, entra nello studio di Le Corbusier, per poi aderire al Surrealismo dove elabora il proprio coefficiente estetico attraverso il concetto di “morfologia psicologica”. Il mondo si prepara a esplodere in una nuova guerra e Matta intanto viaggia in Europa conoscendo altri grandi protagonisti, da Moore a Dalí e Magritte, a De Chirico. Poco prima che inizi la guerra, Matta decide di recarsi negli Stati Uniti. Essere moderni sembra voler dire sposare un linguaggio che rifiuta di aderire all’imitazione del reale come si predica nelle accademie; oppure, che oltrepassa l’idea classica di realtà, spostando i propri riferimenti nello spazio psichico, secondo i nuovi parametri psicoanalitici. Si moltiplicano manifesti e pensieri che considerano accademico ogni linguaggio che si appoggia alla figurazione. L’America è il cuore, al di là dell’Oceano, dove si predica il nuovo verbo. Dopo aver inciso sull’Armory Show, la prima mostra-fiera americana di arte indipendente, dopo aver invocato per l’arte nuova una estetica da furieri, che ha la sua icona sacra in un pisciatoio da bagno pubblico, dopo aver montato il caso di Uccello nello spazio, una scultura di Brancusi fermata alla dogana d’Oltreoceano per essere tassata come un comune manufatto e non come una sublime opera d’arte; ecco che Duchamp è diventato il santone dell’intellighenzia americana che a cavallo delle due guerre mondiali imporrà il nuovo mito: arte astratta e minimale.

Allestimenti della mostra Roberto Matta 1911-2002. Foto: Irene Fanizza
Allestimenti della mostra Roberto Matta 1911-2002. Foto: Irene Fanizza
Allestimenti della mostra Roberto Matta 1911-2002. Foto: Irene Fanizza
Allestimenti della mostra Roberto Matta 1911-2002. Foto: Irene Fanizza
Allestimenti della mostra Roberto Matta 1911-2002. Foto: Irene Fanizza
Allestimenti della mostra Roberto Matta 1911-2002. Foto: Irene Fanizza
Allestimenti della mostra Roberto Matta 1911-2002. Foto: Irene Fanizza
Allestimenti della mostra Roberto Matta 1911-2002. Foto: Irene Fanizza

Anche l’espressionismo astratto americano sarà fin dall’inizio e per sempre una mistica dell’arte, con momenti di vera spiritualità e altri di immanenza bruta. Ma il kitsch è tutt’altra cosa: oggi, per esempio, non è più uno stile, non è una estetica dell’oggetto, è, potremmo dire, una cultura che non agisce più in una prospettiva di bene e di male (il cattivo gusto che corrompe), ma celebra il presente come indifferenza all’essere, perché la cultura stessa non è altro ormai che comunicazione al di là dei vincoli morali. Il modello che gli si avvicina più di tutti è il Trickster, il genio maligno che nelle società primitive e mitiche distrugge o scredita per affermare il suo principio di fondo: la cultura è un continuo rivolgimento che demolisce per ricostruire; minare ogni presunzione di futuro e, viceversa, costringere l’angelo della Storia ad andare avanti con lo sguardo rivolto verso il passato per non cadere nel buco nero.

Ma questo non è il kitsch che intende Greenberg, ancora troppo condizionato culturalmente da una idea oppositiva di passato e futuro. Egli riprende il pensiero di Dwight Macdonald, il sociologo autore del celebre Masscult and Midcult. Il kitsch – per i due critici americani – è il midcult che domina un certo tipo di letteratura popolare, le illustrazioni, la pubblicità, le copertine delle riviste (come quelle di Norman Rockwell, che vennero considerate “realismo romantico”), Hollywood e, quindi, i fumetti. Dove sta il punto critico? Nella difficoltà a liberarsi del kitsch perché “ha la capacità di narrare una storia, di proporre un significato evidente e immediato, che non richiede nessuno sforzo da parte dello spettatore”. Possiamo dire, oggi, che la pittura di Roberto Matta renda lo spettatore così passivo?

Quando Macdonald accusava l’Unione Sovietica di formare le masse a un realismo socialista il cui portavoce sarebbe Il’ja Repin, “un esponente di spicco del kitsch accademico russo nella pittura”, in realtà aveva aperto quello scontro ideologico fra culture che prenderà una forma nella Guerra Fredda dove ci si misura sull’abilità nello screditare il nemico. Secondo Macdonald (e Greenberg), no, i russi di quel tempo non ce la raccontano: se le masse si accalcano nella Galleria Tret’jakov (il museo di arte russa di Mosca – dove, per esempio, è esposta la Trinità di Andrej Rubl’ëv, il quadro che nel Concilio russo del 1551 venne nominato “l’icona delle icone”), è perché gli avevano fatto il lavaggio del cervello affinché evitassero il “formalismo” astratto per ammirare il “realismo socialista”. Vecchia storia: la Cia implementa il pensiero critico verso i sovietici appoggiando gli espressionisti astratti della Scuola di New York, gli irascibili, così che contrastassero il sopravvento dei pittori del sovietismo. New Yok si appresta a diventare la capitale planetaria dell’arte contemporanea grazie alla macchina propositiva messa in campo dal paese leader tra i vincitori della guerra. La Scuola di New York ha come madrina Peggy Guggenheim che tiene a battesimo nella galleria aperta nel 1942. I nomi sono noti: l’olandese De Kooning, il russo Mark Rothko, l’armeno Arshile Gorky… Pollock, Motherwell, Clyfford Still, Baziotes, David Smith, Barnett Newman ecc. Sono gli anni dove il gruppo diventa noto a livello internazionale, e Matta, che ha rapporti con loro, ha giocato la sua influenza sullo stesso Pollock e su Gorky. Motherwell dirà che, senza Matta, il gruppo non sarebbe mai esistito.

Il compito di cui si sentono investiti critici come Greenberg è svegliare le masse: Macdonald si augura la sovversione dell’uomo comune. Ma se il kitsch, all’epoca, si manifesta, secondo il critico americano, come prodotto tipico degli stati totalitari, non è soltanto per le menzogne che essi propinano al popolo, ma perché il kitsch ha già preso possesso della cultura di massa nei vari paesi. Sta trasformandosi in una sorta di esoscheletro concettuale della prossima rivoluzione tecnologica. Affermazione iperbolica, smentita all’epoca del saggio di Greenberg proprio dal dibattito sulle arti negli anni Trenta e Quaranta in Italia, forse proprio perché non era ancora avvenuto quel “livellamento culturale” che i regimi si prefiggono e che verrà invece realizzato dalla democrazie postbelliche. Ma, in realtà, è intuizione notevole che lo stesso Macdonald delinea già negli anni Cinquanta che quanto afferma si sta compiendo giusto a casa propria, nel Capitalismo che si spaccia al mondo come campione della democrazia e sistema per risolvere tutti i conflitti, perché quel che accade è che “i progressi della cultura, della scienza e dell’industria corrodono la stessa società che li ha resi possibili”. Si può dire senza sbagliare che sia quanto è accaduto nell’ultimo mezzo secolo in tutto il mondo avanzato, democratico e non. Il capitalismo ha fatto del kitsch il suo volto comunicativo, il suo idioma, la macchina dei sogni più efficace per manipolare le masse: le norme che regolano la relazione indissolubile fra produzione, consumo, democrazia e linguaggio sociale portano alla sublimazione del kitsch in un “prodotto superiore”: una condizione mentale che annuncia un altro mondo dove il tragico e il ludico si equivalgono perché tutto diventa virtuale (come sta accadendo con ChatGPT) e la non-verità ha lo stesso peso della verità, senza che si arrivi più a un chiaro discernimento.

Prima però c’è lo stadio dell’immanenza pura, che potrebbe anche fare a meno del giudizio critico. Greenberg enumerò i suoi campioni della partita contro il kitsch: Picasso, Braque, Mondrian, Kandinskij, Brancusi, ovvero Klee, Matisse e Cézanne. L’originalità della loro produzione artistica, sostiene il critico, non sta nelle storie che narra, ma nell’organizzazione degli spazi, delle superfici, delle forme e dei colori. È l’immanenza allo stato puro. L’arte perde la propria oggettualità man mano che l’alfabetizzazione rende meno necessario l’uso di abilità manuali e pratiche (è quel che poi è successo nel lavoro, mettendo in crisi un sistema dove lavorare non era soltanto una necessità per la sopravvivenza ma aveva un valore psicologico, quello, forse surrogato ma reale, della creatività, quindi motivazionale e fondativo del tipo di società che lo esprimeva). Le masse inurbate, allontanandosi dal contesto rurale, hanno perso il gusto per la cultura folk, e hanno creato un nuovo mercato per il consumo di massa di prodotti culturali, commerciali e mercificati, il cui linguaggio manipola il pensiero del consumatore: il kitsch non è più nelle cose, una espressione estetica, ma è dentro ciascuno di noi. La nostra attuale condizione, annunciata ottant’anni prima.

Se anche nella pittura di Roberto Matta insiste un sospetto di kitsch programmato, la retrospettiva veneziana allestita fino al 23 marzo a Ca’ Pesaro e introdotta da Norman Rosenthal, non lascia dubbi sul fatto che la sua pittura appartenga al versante d’avanguardia caro a Greenberg, il quale però lo ha fin da subito guardato con sospetto proprio per la dichiarata attrazione che Matta non ha mai nascosto verso i fumetti: un interesse scoperto appunto durante il soggiorno negli States che dal 1939 si protrasse fino al 1948, come ricorda nel catalogo della mostra Gavin Parkinson (Silvana editoriale).

Robert Matta, Alba sulla Terra (1952; olio su tela, 95,5 × 122 cm; Venezia, Ca’ Pesaro- Galleria Internazionale d’Arte Moderna,  acquisto alla mostra personale presso il Museo Correr, 1953, inv. 2001) © Roberto Matta, by SIAE 2024
Robert Matta, Alba sulla Terra (1952; olio su tela, 95,5 × 122 cm; Venezia, Ca’ Pesaro- Galleria Internazionale d’Arte Moderna,  acquisto alla mostra personale presso il Museo Correr, 1953, inv. 2001) © Roberto Matta, by SIAE 2024
Roberto Matta, Les Juges partent en guerre (1967; olio su tela, 200 × 300 cm; Collezione Alisée Matta) © Roberto Matta, by SIAE 2024
Roberto Matta, Les Juges partent en guerre (1967; olio su tela, 200 × 300 cm; Collezione Alisée Matta) © Roberto Matta, by SIAE 2024
Roberto Matta, Coïgitum (1972; olio su tela, 400 × 1000 cm; Collezione Alisée Matta) © Roberto Matta, by SIAE 2024
Roberto Matta, Coïgitum (1972; olio su tela, 400 × 1000 cm; Collezione Alisée Matta) © Roberto Matta, by SIAE 2024
Roberto Matta, El Burundu Burunda ha muerto (1975; olio su tela, 210 × 443 cm cm; Collezione Alisée Matta) © Roberto Matta, by SIAE 2024
Roberto Matta, El Burundu Burunda ha muerto (1975; olio su tela, 210 × 443 cm cm; Collezione Alisée Matta) © Roberto Matta, by SIAE 2024

I riferimenti principali di Matta erano due dei nomi più celebri dell’arte d’avanguardia novecentesca: Duchamp e Picasso. Nessuno dei due può essere accusato di accademismo, tuttavia si sente nella filigrana della loro poetica la permanenza di un pensiero classico e al contempo una seduzione verso il kitsch; una metafisica dell’essere e del non essere, sepolta sotto quella che tra fine Trenta e inizio anni Quaranta Matta chiamò, come ho già ricordato all’inizio, “morfologia psicologica”. Molti altri sono i riferimenti, anche letterari, che legano Matta ai mondi surreali, per esempio i sogni ipnotici di Robert Desnos, così come al fantastico dei mondi sotterranei o nelle cloache infernali, o viceversa alle anabasi verso la notte cosmica; mondi che richiamano Edgar Allan Poe e la fantascienza, il surrealismo e la curiosità per le cose scientifiche. Questo può spiegare l’attrazione di Matta per il Locus solus di Rymond Roussel, inizio anni Quaranta, dove quasi decade nelle sue opere ogni distinzione fra disegno e pittura: il colore c’è ma come un fantasma cromatico che ricorda le nebulose cosmiche, ma anche qualcosa di più letterario, per esempio l’universo ludico e i viaggi di Jonathan Swift o quelli fantascientifici di Verne. Gli ectoplasmi mattiani vengono alla luce che da un frottage graffiato direttamente sulla psiche, come tracce di un passato arcaico. Ed essendosi Matta formato nell’architettura ecco che a segnare lo sviluppo della sua pittura, la morfologia-struttura del segno che genera mondi abitabili nella mente, ovvero i paesaggi inesplorati di un corpo celeste ancora da raggiungere, hanno la ruvida porosità delle immagini degli astronauti quando scendono sul suolo extraterrestre. Vedi il grande Black virtue del 1943. Poi si manifesta una spazio-temporalità diversa, perché altro è il dato di partenza: tutti si chiedono fino a che punto in questi “mondi” si riveli una sorta di critica della civiltà. Il fatto è che quegli omuncoli che prendono forma come spermatozoi in una placenta che non è la loro, come insetti prigionieri in un liquido amniotico o immobili dentro una resina simile all’ambra, ma più mutevole di luci e colori interni per poter reggere meglio la finzione di un mondo alternativo e sconosciuto. Ecco, fino a che punto Matta vuole costruire mondi in cui far viaggiare la mente dello spettatore, o semplicemente vuole portare alla luce il malessere di uomini che hanno perduto la loro realtà e sono ridotti a graffiti e forme da comic books? Questo accade più spesso alla fine degli anni Sessanta e lungo tutti i Settanta – Los Enguelleran (1975) e El Burundu Burunda ha muerto (1975) – che sembrano anticipare, a ben vedere, la svolta del graffitismo newyorkese degli anni Ottanta, ancor più chiara in Les Yeux de Baccus (1981) e Simposio e Composio (1982): il kitsch qui diventa uno dei sintomi del malessere sociale dal cui disagio la pittura rinasce senza più sogni, ma soltanto piena di ribellione. Se il graffitismo newyorkese è un prodotto del disagio sociale underground (che non è analogo al mancato benessere economico, perché dovremmo sempre ricordare quella frase dove Freud scrive che “la civiltà è uno strumento che abbiamo creato per proteggerci dall’infelicità, eppure è la nostra più grande fonte di infelicità”... e quando Freud scrive questo, 1929, l’umanità sta annegando nell’infelicità), la pittura di Matta sonda invece una dimensione che non è tanto quella del disagio materiale, quanto quella del malessere interiore rispetto al quale il pensiero del pittore, nel dipinto del 1992 Comme Elle est Vierge ma forêt, raggiunge quasi una consapevolezza pacificata e definitiva del ritorno al caos primordiale.

Un’ultima considerazione sulla serie di sculture-oggetti-arredi degli anni Novanta che accompagnano la mostra. Fra arcaico mesoamericano e design postmoderno, sono a mio parere altra cosa dalla pittura di Matta, che ha aperto un discorso mai fino in fondo sviluppato, quello delle proprie origini nella memoria arcaica cilena. Intenzione che si coglie fin dalle prime opere, come lo stupendo Grande Fiction del 1936, con le sue enclave simboliche che rimandano all’arcaico preistorico e alla scoperta delle origini dell’uomo incise nella nostra psiche.


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Maurizio Cecchetti

L'autore di questo articolo: Maurizio Cecchetti

Maurizio Cecchetti è nato a Cesena il 13 ottobre 1960. Critico d'arte, scrittore ed editore. Per molti anni è stato critico d'arte del quotidiano "Avvenire". Ora collabora con "Tuttolibri" della "Stampa". Tra i suoi libri si ricordano: Edgar Degas. La vita e l'opera (1998), Le valigie di Ingres (2003), I cerchi delle betulle (2007). Tra i suoi libri recenti: Pedinamenti. Esercizi di critica d'arte (2018), Fuori servizio. Note per la manutenzione di Marcel Duchamp (2019) e Gli anni di Fancello. Una meteora nell'arte italiana tra le due guerre (2023).




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