Il sillogismo nella forma artistica: Armando Testa


Recensione della mostra “Armando Testa”, a cura di Gemma De Angelis Testa (a Venezia, Ca’ Pesaro, dal 20 aprile al 15 settembre 2024).

Gli anni Sessanta furono per noi il momento classico e accademico del Novecento che dopo la débâcle bellica ricollocò l’Italia dentro l’orizzonte del moderno rendendola partecipe di una mentalità fondata su una strategia comunicativa “totale”, una prassi che qualche secolo prima aveva risposto da parte cattolica al rigorismo e al pessimismo protestante: Controriforma e comunicazione furono il principio informatore e lo strumento retorico per vincere il “moralismo” del movimento evangelico. In modo analogo, nella “controriforma del moderno” possiamo vedere oggi il correlativo oggettivo di una nuova sfida alla depressione sociale e culturale postbellica attraverso un sogno di ricchezza produttiva ed emotiva scaturita dall’ottimismo del benessere. Estetica dell’oggetto e consumo gratificante. Non bastava soltanto crederci, il messaggio doveva essere accompagnato da una promessa concreta, che interagiva, nella realtà, con una comunicazione visiva incarnata dall’oggetto. L’arte fu il mezzo di questa “controriforma” sociale che dal Pop approderà al ludico postmoderno. L’apparenza era un culto quasi totale, per così dire, perché portava il consumatore a sperare in ciò che la pubblicità gli prometteva. Quasi un sacramento del benessere.

La consapevolezza profonda che il “medium è il messaggio” non è frutto di speculazione filosofica ma di un sapere che matura nel mero “realismo” dettato da un prontuario di concetti e opere dove, per rimanere al nostro paragone, Marshall McLuhan diventa il Paleotti della Tarda Modernità. Ciò che le avanguardie avevano seminato – si pensi all’opera di malleveria che il futurismo esercitò sulle forme della comunicazione da cui nasce la pubblicità come oggi la conosciamo – divenne conformismo del consumo fondandosi sulle strategie della comunicazione di massa nel “villaggio globale”. E fu McLuhan a elaborare il prontuario “pedagogico”, il metodo culturale – come fece il Discorso sulle immagini sacre e profane del Paleotti per la “rieducazione” di artisti e uomini di Chiesa –, necessario per mettere in atto le logiche di una futura società del Welfare, mentre la terra accelerava i suoi ritmi di movimento e d’interrelazione e ricomprendeva tutto e tutti dentro uno spazio di soggezione comunicativa, trasformando il lontano in vicino e facendo dipendere la nostra vita dal flusso delle informazioni oltre quell’attrito ancora presente nella “galassia Gutenberg”.

Gli anni Sessanta sono dunque quelli dell’immagine al potere. Ma non è l’immaginazione dello slogan divenuto “virale” nel 1968, perché l’immagine, oggi è palese, va al potere come strumento principe per il controllo della libertà; non è, anzitutto, un mezzo di liberazione. L’immagine vincola l’individuo al reale attirando e condizionandone l’immaginazione. Il boom economico testimonia che gli anni Sessanta sono il decennio dove la realtà si normalizza e si piega all’ottimismo del benessere. Ora questo circolo vizioso è irrisolvibile: tutto è economico, e si complica con l’ingresso sulla scena mediatica di fattori falsificanti. Il nuovo linguaggio oggi si codifica nella “post verità”, che non è una “non verità”, ma una diversa prospettiva di vero e falso, come indifferenza alla verità; come recita Ionesco nell’Improvviso dell’alma: “Il falso vero è il vero falso, ossia il vero vero è il falso falso”.

Sul palcoscenico planetario tutto è normalizzato, tutto è accademico, cioè foriero di norme semantiche e formali che regolano le strategie del consumo “informato” (finché entrano in scena i “consigli per gli acquisti”, sublime ipocrisia del ceto medio che suggerisce ciò che si deve apprezzare), per produrre – nelle aspettative dei centri propagatori – efficacia economica ovvero semplice condizionamento.

Allestimenti della mostra Armando Testa
Allestimenti della mostra Armando Testa
Allestimenti della mostra Armando Testa
Allestimenti della mostra Armando Testa
Allestimenti della mostra Armando Testa
Allestimenti della mostra Armando Testa
Allestimenti della mostra Armando Testa
Allestimenti della mostra Armando Testa
Allestimenti della mostra Armando Testa
Allestimenti della mostra Armando Testa

Che fare? Riportare l’immagine al suo iniziale valore “iconico” (di una propaganda che si realizza nella critica del suo stesso oggetto). L’iconocrazia è una condizione attuale e al tempo stesso un ideale utopico se si pretende libero dai poteri che governano il mondo. Il vocabolario visivo durante il decennio del boom economico è sostanzialmente pubblicitario in virtù della volontà performativa che agisce su ogni sfera creativa (a cominciare dalla Pop Art, a cui Armando Testa offrirà quasi subito una “narrazione” rispetto alla semplice idolatria dell’oggetto o del messaggio, ma icastica, ovvero in senso lato fondata su parametri astratti). Difficile pensare di poter rinunciare ad agire fuori dagli schemi che regolano i poteri mediatici. Armando Testa, già dagli anni Quaranta, verso la fine della guerra, opera come uno dei più incisivi “ricostruttori” di un linguaggio grafico e pubblicitario che già negli anni del regime ebbe comunque alcuni geniali comunicatori e designer. Non si deve dimenticare che Testa fin da giovane voleva essere un artista; e che il suo talento inventivo germogliava da una visione ancora autarchica dell’oggetto artistico (in certo modo, gli corrispondeva il genio di Bruno Munari, tanto per l’ironia ludica, ma anche nella progettazione legata alla cultura industriale in fieri); infine, mentre elaborava linguaggi e forme espressive Testa esercitava la sua predilezione originaria per l’arte astratta. Aveva cominciato con l’ars tipographica per poi mettere in pratica certi schemi della Bauhaus, in una logica anticlassica che determinava sulla pagina vere e proprie architetture (si era formato a Torino seguendo la rivista “Graphius”, cui a Milano corrispose negli anni Trenta “Campo grafico” dove lavorò anche il tandem Modiano-Persico, artefici di una visione parallela fra pagina e architettura: “Casabella” fu il manifesto di una nuova grafica con intenti di comunicazione aumentata, ma la costruzione dello spazio divenne architettura con gli allestimenti di Persico e Nizzoli per la Sala delle Medaglie d’oro e la Costruzione metallica pubblicitaria per il plebiscito, due opere-capolavoro legate alle istituzioni del Regime, ma anche il Negozio Parker, un capolavoro di arredamento come il Bar Craja di Luciano Baldessari).

L’astrazione e la comunicazione Testa le aveva sperimentate su alcune coppie dialettiche dell’arte: Marinetti-Mondrian, ma anche Caravaggio-Michelangelo e poi il minimalismo apparentemente calvinista di Mies van del Rohe, dove “il meno è il più”, ma che per l’architetto tedesco scaturiva dalla meditazione sul realismo oggettivo di Tommaso d’Aquino, quello dell’adequatio rei et intellectus.

Facendo di pittura, scultura e tipografia una triade all’origine della sua visione pubblicitaria, Testa entra col suo talento prepotente sulla scena italiana, producendo dapprima cartelloni pubblicitari (suo quello delle Olimpiadi 1960), ma poi facendo seguire – dopo aver fondato lo Studio Testa – una serie di invenzioni brillantissime che parlano proprio ai nuovi italiani che aspirano a partecipare con le loro scelte alla travolgente ascesa del Paese: Caballero e Carmencita, Papalla, Punt e mes, Pippo l’ippopotamo, fino al sovraironico re Carpano, una sorta di fool sempre sorridente che brinda con una smorfia amena assieme ai personaggi della storia; e ancora la bellissima figura dell’uomo che pubblicizza il digestivo Antonetto, il quale si massaggia l’apparato gastrico esprimendo un senso di benessere fisico, la cui silhouette in nero e rosso si staglia su fondo bianco: proprio quella base neutra, come l’imprimitura che prepara una tela per il pittore – osserva Tim Marlow nel catalogo (Silvana) –, fu una scelta “radicale” per quei tempi. Testa fin da questi capolavori iconici si pone come un grande alfabetizzatore degli italiani: certo, bisognerebbe chiedersi se lo slogan per il caffè Paulista “Carmencita sei già mia, chiudi il gas e vieni via” sia ancora gradito al mondo femminile per il sottile e ironico maschilismo del caballero, spiritoso ma risoluto, che rapisce la sua innamorata con uno slancio che soggioga il genere. Tematiche che rispuntano latenti anche in altre pubblicità testiane, da quella del Carosello Peroni a quello dell’Olio Sasso.

Armando Testa, Caballero & Carmencita (1965; gesso e tecnica mista, 25 x 11 x 11 cm; Venezia, Ca’ Pesaro- Galleria Internazionale d’Arte Moderna, donazione Gemma De Angelis Testa). Foto: Fabio Mantegna
Armando Testa, Caballero & Carmencita (1965; gesso e tecnica mista, 25 x 11 x 11 cm; Venezia, Ca’ Pesaro- Galleria Internazionale d’Arte Moderna, donazione Gemma De Angelis Testa). Foto: Fabio Mantegna
Armando Testa, Papalla (1966; alluminio e gesso, diametro 13, altezza 14 cm; Venezia, Ca’ Pesaro- Galleria Internazionale d’Arte Moderna, donazione Gemma De Angelis Testa). Foto: Nino Chironna
Armando Testa, Papalla (1966; alluminio e gesso, diametro 13, altezza 14 cm; Venezia, Ca’ Pesaro- Galleria Internazionale d’Arte Moderna, donazione Gemma De Angelis Testa). Foto: Nino Chironna
Armando Testa, Punt e Mes Carpano (1960; stampa litografica su carta montata su tela, 198,5 x 137,2 cm; Venezia, Ca’ Pesaro- Galleria Internazionale d’Arte Moderna, donazione Gemma De Angelis Testa)
Armando Testa, Punt e Mes Carpano (1960; stampa litografica su carta montata su tela, 198,5 x 137,2 cm; Venezia, Ca’ Pesaro- Galleria Internazionale d’Arte Moderna, donazione Gemma De Angelis Testa)
Armando Testa, Digestivo Antonetto (1960; stampa litografica su carta montata su tela e telaio, 140,5 x 100,7 x 2,8 cm; Venezia, Ca’ Pesaro- Galleria Internazionale d’Arte Moderna, donazione Gemma De Angelis Testa). Foto: Nino Chironna
Armando Testa, Digestivo Antonetto (1960; stampa litografica su carta montata su tela e telaio, 140,5 x 100,7 x 2,8 cm; Venezia, Ca’ Pesaro- Galleria Internazionale d’Arte Moderna, donazione Gemma De Angelis Testa). Foto: Nino Chironna
Armando Testa, Elefante Pirelli (1954-1984; stampa litografica su carta montata su tela e telaio, 99,5 x 71 x 2,3 cm; Venezia, Ca’ Pesaro- Galleria Internazionale d’Arte Moderna, donazione Gemma De Angelis Testa). Foto: Nino Chironna
Armando Testa, Elefante Pirelli (1954-1984; stampa litografica su carta montata su tela e telaio, 99,5 x 71 x 2,3 cm; Venezia, Ca’ Pesaro- Galleria Internazionale d’Arte Moderna, donazione Gemma De Angelis Testa). Foto: Nino Chironna

Il grande pubblicitario ha camminato con l’Italia. Alla fine degli anni Settanta, per esempio, ha anticipato la svolta Eat nell’arte (con Spoerri). Ma la sua poltrona di prosciutto o la “divisione della mortadella” o ancora il popolare insaccato che fa da tovaglia a un tavolo su cui appoggia un blocchetto di emmenthal a forma di televisore, sono idee divertenti che giocano con il mainstream sociologico dell’epoca, senza tuttavia colpire in modo unico e irripetibile come aveva fatto mezzo secolo prima la Colazione in pelliccia di Meret Oppenheim. In questo caso, la pubblicità era l’oggetto, indiretto, del sacrificio a favore dell’arte stessa.

La mostra allestita in queste settimane a Ca’ Pesaro fino al 15 settembre, che segue di un anno circa l’importante donazione di arte contemporanea fatta da Gemma De Angelis Testa, è pensata per far comprendere al visitatore l’indomabile propensione artistica dell’autore, la sua vocazione pittorica e plastica – da pittore per vocazione, arriverà talvolta a usare l’imprimitura come colore strutturale dell’opera –, dove le sue abilità tecniche, pur attraverso un controllo formale molto consapevole, non hanno però sempre il medesimo scatto creativo che determina la ricerca pubblicitaria e grafica. Gemma de Angelis Testa sottolinea l’iter multidisciplinare che governava la ricerca del marito, vedendo in questa versatilità dei mezzi l’accesso a una modernità tuttora attuale. “Giocoliere dell’immagine”, vale a dire esemplare della cultura rinnovata degli anni Sessanta, Testa non rinnega una tradizione italiana degli anni fra le due guerre (prova ne sia l’edificio che disegnò negli anni Ottanta per la propria agenzia, un parallelepipedo rosso traforato di grandi finestre tutte uguali, fra metafisica e postmoderno, fra Sironi e Aldo Rossi); proprio per questo Testa ha compiuto un’impresa che lo pone come rifondatore dell’immaginario di un Paese che si candida a far parte del mondo industrializzato sorretto dall’etica produzione-consumo, e con la pubblicità priva di soggezioni compie il miracolo di congiungere, potremmo dire, il rigorismo protestante e la forma estetica cattolica. Matrimonio che lo porta a essere anche un “normalizzatore” del genio italiano rispetto alla grande scommessa del progresso che passa soprattutto attraverso campagne pubblicitarie legate sia a prodotti (il bitter Sanpellegrino, la birra Nastro Azzurro, le gomme Pirelli) sia a eventi culturali e di massa (le Olimpiadi e il centenario di Einstein), ovvero alle battaglie sociali contro la fame nel mondo, per i poveri, a favore del divorzio, a sostegno del dissenso nei paesi dell’est o per Amnesty international. Il segno che ha maggiormente emblematizzato il genio allusivo di Testa fu il simbolo del Punt e Mes, che si è moltiplicato in vario modo (Pittura, immagine pubblicitaria, oggetto, gioco di forme) fino a ricadere nel manierismo quasi feticistico della gigantesca scultura in acciaio nero riflettente e collocato nella nuova stazione AV di Porta Susa a Torino. La mostra di Venezia si chiude con una serie di croci tutte eseguire prendendo ispirazione dall’iconografia dell’reclinatio capitis (simbolo cristiano che ha persino determinato le planimetrie di alcune chiese con l’asse dell’abside inclinato verso sinistra, come a Santa Prassede a Roma). La croce col “vertice” inclinato, quasi un sillogismo preso nella forma stessa dell’oggetto: astrazione, narrazione, sintesi. Ecco la legge formale con cui Testa si misura.


Se ti è piaciuto questo articolo abbonati a Finestre sull'Arte.
al prezzo di 12,00 euro all'anno avrai accesso illimitato agli articoli pubblicati sul sito di Finestre sull'Arte e ci aiuterai a crescere e a mantenere la nostra informazione libera e indipendente.
ABBONATI A
FINESTRE SULL'ARTE

Maurizio Cecchetti

L'autore di questo articolo: Maurizio Cecchetti

Maurizio Cecchetti è nato a Cesena il 13 ottobre 1960. Critico d'arte, scrittore ed editore. Per molti anni è stato critico d'arte del quotidiano "Avvenire". Ora collabora con "Tuttolibri" della "Stampa". Tra i suoi libri si ricordano: Edgar Degas. La vita e l'opera (1998), Le valigie di Ingres (2003), I cerchi delle betulle (2007). Tra i suoi libri recenti: Pedinamenti. Esercizi di critica d'arte (2018), Fuori servizio. Note per la manutenzione di Marcel Duchamp (2019) e Gli anni di Fancello. Una meteora nell'arte italiana tra le due guerre (2023).




Commenta l'articolo che hai appena letto



Commenta come:      
Spunta questa casella se vuoi essere avvisato via mail di nuovi commenti





Torna indietro



MAGAZINE
primo numero
NUMERO 1

SFOGLIA ONLINE

MAR-APR-MAG 2019
secondo numero
NUMERO 2

SFOGLIA ONLINE

GIU-LUG-AGO 2019
terzo numero
NUMERO 3

SFOGLIA ONLINE

SET-OTT-NOV 2019
quarto numero
NUMERO 4

SFOGLIA ONLINE

DIC-GEN-FEB 2019/2020
Finestre sull'Arte