Eike Schmidt, direttore degli Uffizi, lascerà dopo otto anni il museo che dirige dal 2015. Schmidt, tedesco di Friburgo in Brisgovia, classe 1968, fa parte della prima schiera di direttori degli istituti autonomi creati con la riforma Franceschini del 2015. È dunque uno dei direttori più esperti tra quelli che attualmente guidano i musei autonomi italiani. La sua figura è stata spesso al centro dell’attenzione per tante iniziative che gli Uffizi hanno avviato negli anni. In questa intervista di Federico Giannini, si parla di tanti argomenti: quali sono gli interventi di cui va più fiero, quale il suo giudizio sulla riforma Franceschini, quale la sua posizione sulla gratuità nei musei, sul tema della riproduzione dei beni culturali, cosa c’è ancora da sistemare e molto altro. Ecco dunque come Eike Schmidt lascia gli Uffizi.
FG. Lei ha assunto la direzione del museo nel 2015, ha fatto due mandati alla guida degli Uffizi quindi dopo otto anni lascia un museo profondamente rinnovato. In estrema sintesi... come lo lascia agli occhi di chi lo visita?
ES. Credo che l’elemento più visibile siano i nuovi allestimenti, i nuovi percorsi museali che abbiamo portato quasi al completamento qui agli Uffizi: oltre 75 sale rinnovate oppure aperte per la prima volta, con intere collezioni che non erano esposte oppure lo erano solo in piccola parte, come la pittura veneziana del Cinquecento che ora è articolata in tutta una serie di sale, la pittura della Controriforma, oppure gli autoritratti. Molte opere che prima erano esposte in mostre come “I mai visti” ora sono permanentemente visibili. Quindi, se dovessi sintetizzare una frase, direi che gli Uffizi sono un museo dove si possono rivedere dipinti e sculture noti e amati, ma in un’atmosfera molto più tranquilla, senza ricevere le gomitate dei vicini; ma allo stesso tempo sono anche un museo che adesso offre tante scoperte. Anche le opere che erano già esposte prima si vedono diversamente, perché abbiamo rifatto tutto il sistema illuminotecnico: quando magari non ci si ricorderà più del nome mio o di quello dell’architetto Antonio Godoli comunque la gente probabilmente dirà che il problema plurisecolare che già i viaggiatori del Sette e dell’Ottocento e ancora del Novecento lamentavano, ovvero che gli Uffizi hanno una collezione fantastica ma non si vede niente per la mancanza dell’illuminazione adeguata, è stato risolto. Grazie all’illuminotecnica che abbiamo adesso si vede, per esempio, anche il paesaggio dietro l’Eleonora di Toledo del Bronzino, si vedono tutti i particolari dei quadri famosi e di quelli da scoprire: questa è forse la parte più importante ed evidente dei cambiamenti fatti.
Tra tutto ciò che è avvenuto da quando Lei è direttore, qual è l’aspetto, l’attività, la novità di cui va più orgoglioso?
Ce ne sono tante, ma una è sicuramente il fatto di avere finalmente, e in maniera sistematica, stabilizzato l’accessibilità – ovvero la possibilità di visitare e godersi il museo per chi ha dei problemi motori, sensoriali, cognitivi ed emotivi – fondando un dipartimento apposito. L’accessibilità non è più soltanto servizio “di nicchia” che si offre in più, per i disabili, ma è la chiave che serve a tutti noi, anche ai normodotati, per poter apprezzare le collezioni: è qualcosa che riguarda la visita in maniera sostanziale. Grazie a questo dipartimento si fanno anche tante iniziative per tipologie di disabilità che non sono nemmeno tanto note al grande pubblico: oltre a quelle motorie e sensoriali vi sono anche quelle cognitive ed emotive, fino all’universo della neurodiversità dove l’accento sta proprio sulla diversità. Per la prima volta concepiamo e produciamo libri tattili, per i non vedenti e vedenti insieme, facciamo corsi di Lingua dei Segni Italiana ai nostri funzionari e assistenti e così via. C’è tutta una serie di attività che però si inserisce in un sistema più grande e complesso che riguarda veramente l’accesso di tutti quanti noi alle opere d’arte. In pratica l’accessibilità non è solo una questione di sedie a rotell: si tratta anche, per dirne una sola, di rendere più leggibili le nostre didascalie, sia grazie all’uso di un font corretto, sia per il linguaggio usato. E poi la segnaletica in generale.
C’è invece qualcosa che avrebbe voluto fare e non ha fatto?
Il Corridoio Vasariano: non sono riuscito ad aprirlo per i trent’anni della strage dei Georgofili, e questo veramente mi ha fatto molto arrabbiare. Non è colpa di nessuno in particolare, nel senso che abbiamo iniziato i lavori alla fine del 2021, ma c’erano tante ragioni che hanno fatto sì che, dopo la chiusura del Corridoio, molto inaspettata, da un giorno all’altro da parte dei Vigili del Fuoco nel 2016, abbiamo comunque impiegato il tempo necessario per presentare, per la prima volta, un progetto definitivo (e poi subito dopo esecutivo) e per trovare i soldi. Sempre con i Vigili del Fuoco abbiamo studiato il funzionamento futuro del nuovo Corridoio Vasariano, che deve essere portato in linea con la normativa. In parallelo abbiamo affidato e iniziato i lavori. Però poi a cantiere aperto sono emersi dei problemi statici, sia in corrispondenza con la zona colpita dalla bomba del 1993 sia anche in corrispondenza di quella che ha sofferto le grandi esplosioni del 1944, quindi lì i colpevoli non potevano che essere Cosa Nostra e la Wehrmacht nazista. Però abbiamo anche trovato qualcosa di buono e di bello, ovvero, in maniera non aspettata né prevedibile, il pavimento originale del Vasari. Quindi c’erano delle ragioni buone e necessarie che hanno rallentato le operazioni di restauro. L’unico aspetto che non mi interessa è se sarò presente quando verrà aperto: certo sarei grato se mi invitassero all’inaugurazione, però se per qualche motivo non potessi partecipare non importa, ci sarà un altro direttore a inaugurare il Vasariano e a me sinceramente va benissimo. Quello che non mi va benissimo è che sarebbe stato una bella cosa simbolica poter riaprire per il trentennale.
Lei è stato uno dei primi direttori entrati con la riforma Franceschini e ormai i tempi sono maturi per un giudizio su di un provvedimento che ha rivoluzionato il mondo dei musei statali in Italia. Qual è il suo parere sulla riforma Franceschini? Cos’è che ha funzionato, cosa non ha funzionato, cosa bisogna rivedere... ?
La riforma Franceschini sicuramente ha funzionato, come è confermato dal fatto stesso che adesso un governo di tutt’altro orientamento politico la stia portando avanti. In particolare la riforma ha funzionato nei tre campi dell’autonomia, ovvero l’autonomia scientifica dei musei (a cui si dovrebbe aggiungere l’autonomia artistica, perché più ci si avvicina all’arte contemporanea e meno diventa una scelta puramente scientifica), poi l’autonomia organizzativa e poi, più importante di tutte, quella di bilancio, perché responsabilizza di più i musei, nel senso che se un ufficio periferico dello Stato è il responsabile dei propri introiti allora può anche programmare e dire “se io faccio questi introiti l’anno successivo o fra due anni avrò abbastanza soldi per poterli spendere per un progetto che mi sta a cuore”. Del resto noi che viviamo e che lavoriamo ogni giorno sul campo conosciamo le priorità molto meglio di chi sta in un ufficio centrale al Ministero, davanti alla scrivania. Quello che mancava e che manca tuttora è l’autonomia delle risorse umane. Personalmente non sono convinto che questa autonomia debba essere totale come in una fondazione (sarebbe la soluzione più semplice ma anche più banale al problema), però si potrebbe pensare anche a dei modelli in cui gli uffici periferici abbiano qualche voce in capitolo, oppure in cui gli uffici centrali vengano più incentivati a fare dei sopralluoghi, ad analizzare l’effettivo fabbisogno e non a disegnarlo al tavolino, col risultato che, come sappiamo, spesso le dotazioni organiche non rispondono alle esigenze vere. Lo dico per un motivo molto preciso, perché vedo un enorme vantaggio nel lavoro sistematico di un intero ministero: nei funzionari delle soprintendenze, per esempio, si riscontra ancora una conoscenza anche metodologica che si può guadagnare solo lavorando sul territorio, con le chiese, con le collezioni private eccetera. Infatti, sto spingendo i funzionari degli Uffizi a prestare servizio almeno uno o due giorni la settimana per una delle soprintendenze vicine, perché è una esperienza che non si può accumulare in altra maniera. Viceversa sono anche sempre stato aperto e grato ad avere agli Uffizi dei funzionari della soprintendenza, un giorno o due la settimana, una procedura che con alcuni colleghi ha funzionato molto bene. Abbiamo collaborato o stiamo collaborando in questa maniera con le Soprintendenze di Firenze, Bologna a Pisa. Purtroppo ci sono anche dei Soprintendenti che purtroppo non accettano questo tipo di “osmosi”. Invece sarebbe da augurarsi una norma che premi i funzionari che tra soprintendenze e musei collaborano qualche giorno la settimana. Questo è un dialogo molto, molto utile per tutti quanti. Pensiamo anche all’ufficio esportazioni: sin dall’inizio del mio mandato, con l’allora Soprintendente Andrea Pessina abbiamo stabilito che gli storici dell’arte e archeologi degli Uffizi lavorino tutti lì nelle commissioni settimanali. Adesso peraltro una nostra funzionaria è anche vicedirettrice dell’ufficio esportazione. Forse è grazie alla mia esperienza come direttore da Sotheby’s, ma giudico il servizio all’ufficio esportazione come fondamentale per i curatori perché si confrontino con i movimenti del mercato dell’arte, e ogni tanto questo ci permette di portare a casa una bella preda per il museo.
Ecco, proprio su questo punto alcuni suoi colleghi hanno individuato come uno dei punti deboli della riforma il fatto che i musei non possano gestire in autonomia il personale. Qualche anno fa, per esempio, Peter Aufreiter, che dirigeva all’epoca la Galleria Nazionale delle Marche ed era a fine mandato, in un’intervista mi disse che il problema sta proprio, oltre che negli eccessi di burocrazia, anche nella poca flessibilità che i musei autonomi hanno sul personale (e credo che per questo motivo decise di lasciare l’Italia). Secondo Lei i musei dovrebbero essere autonomi anche in questo senso?
Sono pienamente d’accordo. L’autonomia almeno parziale sulle risorse umane andrebbe aggiunta a quelle che ci sono già (ovvero quella economica e del bilancio, quella dell’organizzazione interna e quella scientifica e artistica). Intanto per triangolare il problema abbiamo lavorato su tre punti. Il primo sono i rimansionamenti: per felice coincidenza con l’autonomia speciale dei musei, sono arrivate una serie di decisioni di giudici che confermavano che non va bene mettere persone che hanno vinto dei concorsi come assistenti museali (e che quindi hanno compiti anche scientifici, educativi, curatoriali) semplicemente come guardie nelle sale. Si è presentata quindi una grande occasione per rimansionare questi colleghi, spesso con dottorati di ricerca e altre qualifiche altissime, integrandoli negli uffici esistenti e per fondarne di nuovi come, per esempio, il dipartimento per l’accessibilità e la mediazione culturale, o quello per le strategie digitali. Addirittura, all’ufficio risorse umane mancavano... le risorse umane. E solo grazie ai rimansionamenti si è potuto ricominciare a lavorare a pieno ritmo. Prima era un disastro perché si faceva fatica e si rischiava addirittura di non riuscire a rispondere alle circolari del Ministero per mancanza di personale. Il secondo punto è Ales: grazie alle assunzioni della società in-house, pagata dal museo in quanto dotato di parziale autonomia, abbiamo potuto integrare parzialmente le risorse umane, creando inoltre 120 nuovi posti di lavoro. Con l’arrivo dell’autonomia è finita la lunga epoca in cui, con grande pompa e celebrazioni, si inaugurava qualche nuova sala o mostra, e poi due settimane più tardi si chiudeva di nuovo perché non c’era personale per tenere gli spazi aperti. Dal 2016 siamo riusciti a tener aperte tutte le sale degli Uffizi, anche durante il fine settimana, e ad avere anche la guardiania per le tante nuove sale che abbiamo restaurato e aperto. Purtroppo il problema rimane, perché le unità della società in-house dovrebbero essere utilizzate solo temporaneamente, in attesa di assunzioni statali. Per alcuni anni non solo non sono partiti i concorsi per i posti statali, anche le assunzioni attraverso Ales sono state bloccate, e non siamo stati in grado di crescere come avremmo voluto. Si tratta di un problema che andrà risolto a livello centrale. Il terzo punto sono i volontari “post-quiescenziali”. Più di una dozzina di funzionari che sono andati in pensione prestano servizio volontariamente, senza essere pagati (naturalmente al di là della loro pensione). Sono risorse veramente preziosissime: tra loro c’è anche un luogotenente dei carabinieri che è andato in pensione e che ora, ogni giorno, viene qua e lavora per noi anche come trait d’union con le varie forze dell’Arma con le quali abbiamo una strettissima collaborazione. Il nostro luogotenente, dall’alto dei suoi tanti anni di esperienza sul campo, ci offre suggerimenti e consulenze sulla sicurezza sia delle opere che anche antropica all’interno del museo, oppure quando facciamo mostre altrove controlla, stabilisce elenchi di attività che vanno fatte per adeguare la sicurezza. Queste sono esperienze che si aggiungono a quelle tecniche dei nostri funzionari, pur senza sostituirli. Vale anche per gli ex funzionari storici dell’arte, per esempio, che sono attivi e sono amati da quelli ancora in servizio perché si occupano di progetti e iniziative che loro non potrebbero fare poiché non hanno abbastanza tempo o esperienze specifiche. Spesso hanno delle competenze non comuni: penso ad Anna Maria Petrioli Tofani, la storica direttrice nell’anno della Strage dei Georgofili che all’epoca ha coordinato la salvaguardia del patrimonio. Adesso che la ho riattivato, lavora praticamente ogni giorno nel Gabinetto dei Disegni e delle Stampe sempre sul suo campo di specializzazione accademica. Al momento sta catalogando tutte le donazioni degli anni Ottanta e Novanta del Novecento.
Strettamente legato a questo tema c’è quello della gestione economica. Qualche giorno fa il suo collega Christian Greco dal Museo Egizio ha avanzato l’ipotesi di rendere gratuito il suo museo, per tutti, nel giro di qualche anno. È un tema molto dibattuto, e le volevo chiedere se Lei condivide questa posizione, e soprattutto se i musei italiani si possono permettere la gratuità per tutti.
Stimo molto il collega Greco, ma a entrambe le domande la mia risposta è negativa. La gratuità come regola generale è una questione del tutto ideologica, non pratica. Il costo del biglietto spesso ha una funzione anche gestionale: per fare un esempio, agli Uffizi è stato di grande aiuto poter introdurre uno sconto di prima mattina. Chi arriva prima delle 9 risparmia 6 euro, e questo incentivo ha fatto sì che aumentassero i visitatori nella prima ora, liberando lo spazio per chi arriva più tardi nella giornata. In realtà, in una situazione di forte pressione della domanda, che spesso supera la capacità di offerta, la gestione ricade in una forma primitiva, arcaica, se manca la rotella regolarizzante del prezzo e la prenotazione. Con la gratuità totale per tutti e a tutte le ore, chi arriva primo entra prima, chi arriva secondo deve aspettare, e chi arriva dopo le 10 forse non entra proprio nel museo. Vige il diritto del più forte, del più tenace, e in un solo giorno vengono buttate vie centinaia di migliaia di ore preziose di vita della gente che invece deve stare in fila con grande noia. La non-gestione della gratuità favorisce sempre anche la microcriminalità, il secondary ticketing a pagamento anche quando il biglietto di per sé è gratis, il “salta fila” per chi ha qualche conoscente tra i controllori, o semplicemente qualcuno che si mette in fila per altri. Lo sappiamo anche dai concerti e dagli eventi sportivi. Questo vale per i musei come gli Uffizi o i Musei Vaticani, dove la domanda supera l’offerta. Invece per musei che hanno poca domanda la gratuità può essere uno strumento molto utile, soprattutto se utilizzata in una logica promozionale e per determinati obiettivi demografici, ad esempio la gratuità per i cittadini oppure per i giovani. Quest’ultima già c’è fino a 18 anni, età molto più alta rispetto a molti altri musei internazionali. Inoltre attualmente i musei statali offrono 15 giorni all’anno di gratuità per tutti. Tuttavia, va detto molto chiaramente che la gratuità totale e universale non è economicamente sostenibile. Produrre l’arte costa, ma costa anche tutelare, restaurare, ricercare, comunicare e proteggere l’arte. Si parla spesso della gratuità nei musei inglesi, ma è una finzione: in una ventina di musei statali inglesi è gratis la collezione permanente, invece per vedere una mostra si paga, e molto di più rispetto all’Italia. La maggior parte dei musei inglesi è a pagamento, e l’ingresso costa di più rispetto ai musei italiani. Un dato molto interessante è il fatto che i musei gratuiti hanno visitatori in calo, mentre cresce il numero dei visitatori nei musei a pagamento. La connessione tra gratuità e accessibilità è infatti molto flebile, e in molti casi inesistente. Non a caso, Paola D’Agostino ha messo a 23 euro il biglietto per la sola stanza con i disegni attribuiti a Michelangelo e seguaci in San Lorenzo, e credo la visita sia già sold-out per parecchio tempo.
Qualcuno potrebbe però obiettare sul fatto che 25 euro per entrare agli Uffizi non sono pochi. Pensate di introdurre altre scontistiche oltre a quelle già esistenti?
All’interno di un bilancio di una famiglia o un individuo interessato alla cultura, dove va paragonato con la spesa per eventi musicali, sportivi, libri, riviste, abbigliamento, una serata al ristorante, ecc., anche il prezzo massimale dell’accesso agli Uffizi, che attualmente equivale a 25 euro in alta stagione, è oggettivamente molto basso. Tuttavia, ci sono tanti modi di spendere ancora molto di meno. Con un minimo di pazienza e di programmazione della propria vita, chiunque può entrare agli Uffizi gratis ben 15 giorni all’anno. Chi viene in bassa stagione, paga meno della metà. Chi si alza presto in alta stagione, riceve uno sconto di 6 euro. Per i veri appassionati (che non siano studenti o studiosi di storia dell’arte o archeologia, che comunque entrano gratis), c’è l’abbonamento annuale Passepartout che vale 365 giorni dalla data del primo utilizzo, a 70 euro nella versione individuale, e a 100 euro per le famiglie. L’abbonamento annuale non solo comprende un numero illimitato di ingressi agli Uffizi, a Palazzo Pitti, al Giardino di Boboli, al Museo dell’Opificio delle Pietre Dure e al Museo Archeologico Nazionale di Firenze, ma anche la priorità d’ingresso. È l’unico biglietto che veramente fa saltare le file.
Gli Uffizi comunque possono permettersi di pagare il suo personale, di funzionare e di far funzionare anche altri musei (ricordiamo che il 20% degli introiti va al fondo di solidarietà che serve per la gestione dei musei più piccoli e meno ricchi), anche perché hanno introiti importanti che derivano dai loro due milioni di visitatori l’anno che, in gran parte almeno, entrano e pagano un biglietto. Quindi la bigliettazione rappresenta una notevole fonte di introiti per i musei, giusto?
È proprio così. Quest’anno gli Uffizi forniranno un aiuto ai musei “poveri” di circa 10 milioni! A otto anni dalla riforma museale, ci sono cinque tra musei e siti archeologici che non solo riescono ad autofinanziarsi, ma che producono qualcosa in più che serve sia a finanziare gli altri musei meno fruttiferi, sia a poter investire a progetti strategici di miglioramento della propria realtà. Siamo oramai arrivati a un punto in cui si potrebbe (e a mio avviso si dovrebbe) alzare la quota del fondo di solidarietà al 25% o al 30% degli introiti di bigliettazione, per dare a sempre più musei la possibilità di sviluppare modelli di auto-responsabilizzazione e gestione con una parte importante di fondi autogenerati (considerando i contributi al Museo Archeologico e a quello dell’Opificio delle Pietre Dure, gli Uffizi sono già al 24%). Dei 490 musei statali, se gestiti bene sicuramente più di un terzo potrebbe a medio termine arrivare all’autofinanziamento. Bisogna anche pensare a un consolidamento delle realtà museali, come quello di una dozzina di musei che sono stati uniti nelle Gallerie degli Uffizi, oppure adesso l’annessione della Gallerie dell’Accademia ai Musei del Bargello. Con questi raggruppamenti, nel giro del prossimo decennio più della metà dei musei statali potranno autofinanziarsi. Per gli altri che rimangono, probabilmente la via migliore sarebbe quella di assegnarli ai comuni (spesso piccoli comuni) che potrebbero metterli in sinergia con i loro musei e altre istituzioni culturali locali. Come mai non possiamo alzare il contributo di solidarietà al 50%? La risposta è molto semplice: per decenni sono state procrastinate le manutenzioni straordinarie e la messa a norma degli edifici, le infrastrutture, e ci vorranno ancora anni per raggiungere gli obiettivi necessari. Come abbiamo visto in questi otto anni, il modo migliore che ci è dato per risolvere questo problema è di dare ai singoli musei la responsabilità di individuare i problemi e di risolverli. È questo uno dei grandi vantaggi dell’autonomia economica dei musei.
Tra l’altro questa redistribuzione, se così la vogliamo chiamare, gli Uffizi l’hanno fatta non soltanto col 20% a cui lo Stato obbliga il museo, ma anche con un progetto come gli Uffizi Diffusi: non è il caso di ripercorrere oggi la storia del progetto, su cui abbiamo già parlato in un’altra intervista, ma una domanda sugli Uffizi Diffusi gliela voglio comunque fare: cosa lascia in mano al suo successore e che suggerimenti ha da dargli per continuare questo progetto?
Gli Uffizi Diffusi sono partiti anche meglio di quanto osassi sperare, e hanno sviluppato una dinamica tale che sicuramente chiunque mi possa succedere proseguirà su questa strada. Con oltre 40 progetti in Toscana già realizzati, qualche settimana fa abbiamo aggiunto il terzo progetto fuori dei confini regionali, anche se di pochi chilometri: dopo Ravenna e Assisi abbiamo portato gli Uffizi Diffusi a Faenza, con un collegamento molto concreto con il luogo poiché in questo caso il soggetto del polittico di Pietro Lorenzetti, Santa Umiltà di Faenza, oggi santa patrona della città, storicamente si recò da Faenza a Firenze e istituì una comunità monastica anche alle rive dell’Arno. Al legame storico tra le due città, che continuò anche nel Quattrocento, si aggiunge anche la solidarietà per l’alluvione. Infatti, una delle tavole del polittico raffigura la Beata Umiltà che passeggia sopra il Lamone, il fiume che è esondato. Questa mostra è veramente un esempio di tutti i principi degli Uffizi Diffusi. Per giunta, i musei coinvolti fanno numeri di visitatori che prima non avevano. Sono tutte mostre uniche per luoghi unici che però sono già pieni di arte, ma la gente di solito non li visita: ci va perché viene attratta dall’iniziativa degli Uffizi Diffusi e scopre anche quello che c’è già.
Gli Uffizi Diffusi mi consentono anche di fare una domanda sul rapporto con le comunità locali. Qualche giorno fa su Finestre sull’Arte abbiamo ospitato un contributo della sua collega Francesca Rossi, direttrice dei Musei Civici di Verona, che è intervenuta sul tema del rapporto tra musei e comunità locali. Francesca Rossi scriveva che uno dei problemi principali dei musei, sempre in relazione alle comunità locali, è quello di “sviluppare nuovi modelli partecipativi di gestione per conquistare un nuovo spazio nella società, dove essere percepiti come motori del cammino dell’umanità, depositarî di memoria individuale e collettiva in senso ampio, locale e globale, per la costruzione della civiltà del futuro”. Come gli Uffizi si sono posti nei confronti di questo problema pensando al fatto che sono un museo che ha (lo abbiamo detto prima) una pressione turistica forte e rimane comunque il grande museo di una grande città?
A livello di bigliettazione, l’abbonamento annuale PassePartout, al quale partecipano già più di 10.000 persone. Ma non basta. Penso alle conferenze, che ogni mercoledì pomeriggio alle 17 offriamo gratuitamente a tutta la cittadinanza; alle molte possibilità di studio e di approfondimento sul sito web e sui vari canali social; e soprattutto, ai programmi educativi per le famiglie e le scuole. Durante il lockdown, quando i bambini erano a casa, abbiamo offerto circa 600 “gite scolastiche virtuali” alle classi, con collegamenti personalizzati e non standard. È stata un’impresa quasi eroica del nostro dipartimento, ma immaginate cosa ha significato per maestri e bambini chiusi in casa questo contatto, questa mano tesa da fuori, questa evasione nell’arte. In questi ultimi otto anni abbiamo rimpinguato di risorse il nostro dipartimento per l’Educazione, che insieme a quello di Brera è stato il primo in Italia (fu fondato nel novembre 1970) e che per tutti gli anni Settanta ha funzionato benissimo. All’epoca c’era un grande ottimismo e ci si aspettava che nel giro di pochi anni tutti i musei fossero stati dotati di un “servizio didattico”, come si chiamava all’epoca. Ma la didattica museale ha subito il suo primo colpo duro nel 1982, quando la Camera e il Senato hanno bocciato un disegno di legge che avrebbe stabilito la figura professionale dell’educatore museale. Questa bocciatura era in totale controtendenza con quanto stava avvenendo nel resto dell’Europa e anche negli Stati Uniti. Da quel momento in poi iniziò purtroppo la crisi dei servizi didattici. Nel corso degli anni Ottanta, infatti, furono sottratte a questo settore le risorse umane ed economiche che servivano per un buon funzionamento: un’erosione progressiva e prolungata nel tempo, corrispondente a una politica orientata sempre di più verso il turismo a scapito dell’educazione dei giovani cittadini. All’improvviso, l’educazione è stata vista come qualcosa di dispensabile e semmai aggiunto, e non sostanziale. Ancora nel codice Urbani del 2004 i servizi didattici vengono annoverati tra quelli “aggiuntivi” da dare in concessione a privati. Ora mettiamo a disposizione centinaia di migliaia di euro ogni anno per ingaggiare educatori museali specializzati e di comprovata esperienza. Si tratta di liberi professionisti. Non vedo niente di male che i genitori contribuiscano alle visite con pochi euro per ogni bambino, ma abbiamo anche programmi per chi non si può permettere nemmeno questo, e quelli per le scuole sono fortemente sovvenzionati da noi. Per i ragazzi e bimbi è ancora più importante che non per gli adulti che le attività si svolgano in maniera interattiva e in piccoli gruppi. Purtroppo in questi anni viviamo una grande crisi del sistema scolastico, in Italia così come in altre nazioni europee. Non possiamo certo sostituire le scuole, ma possiamo dare un contributo fondamentale, con un effetto che dura per tutta la vita, quello sì. Il nostro programma “Ambasciatori dell’arte” che prevede che i ragazzi delle scuole superiori imparino per un anno la storia dell’arte e poi facciano le guide per due settimane, anche in lingue straniere, si è rivelato molto importante anche dal punto di vista dello sviluppo della personalità, perché è spesso in questa occasione che i giovani insegnano qualcosa agli adulti, e capiscono che sono arrivati allo stesso livello.
Prima en passant ha parlato di acquisizioni: ci può dire qual è secondo Lei quella più importante che gli Uffizi hanno fatto sotto la sua gestione?
L’acquisizione più importante è sempre la prossima! Tuttavia, tra le acquisizioni potrei citare i due dipinti di Daniele da Volterra della collezione Pannocchieschi d’Elci, che erano sempre rimasti presso gli eredi dell’artista. Sono anche molto fiero di aver riavviato, insieme alla curatrice Elena Marconi e alla Commissione per gli acquisti della Galleria d’Arte Moderna e il nostro Consiglio d’amministrazione, l’arricchimento della grande pittura romantica italiana, da Hayez a Bezzuoli. Di quest’ultimo abbiamo potuto acquistare ben otto quadri per Palazzo Pitti, e abbiamo approfondito la conoscenza dell’artista grazie a una grande mostra.
E sempre en passant abbiamo detto che gli Uffizi sono sottoposti a una forte pressione. Allarghiamo il discorso: gli Uffizi sono ormai un complesso museale da più di 2 milioni di visitatori e contribuiscono a muovere una parte significativa del turismo a Firenze. Turismo a Firenze che è una risorsa ma anche un problema, secondo Lei come viene gestito?
Come Gallerie degli Uffizi (con un numero di visitatori che quest’anno dovrebbe superare per la prima volta i 5 milioni di ingressi, di cui più della metà nella Galleria delle statue e delle pitture) ovviamente agiamo in un contesto più largo, un contesto locale, regionale, nazionale e internazionale. Abbiamo visto che grazie al confronto diretto, per esempio con gli albergatori, ma anche con le guide turistiche, con i quali ci incontriamo regolarmente, abbiamo potuto capire e affrontare tutta una serie di problematiche ma anche di opportunità che altrimenti avremmo fatto fatica a individuare da soli. È fondamentale parlare direttamente con gli operatori economici. Siamo consapevoli che pochi altri musei lo fanno. C’è ancora chi dice: “Noi siamo lo Stato, loro sono privati, non abbiamo niente da dirci.” Questo è sbagliato. A livello politico, come ben noto, stiamo collaborando in maniera molto positiva e frequente con la Regione Toscana per gli “Uffizi Diffusi”, anche grazie alla personale passione del presidente Eugenio Giani per l’arte e la storia locale e regionale. Mi sono anche regolarmente messo a disposizione della Commissione Cultura del Consiglio Comunale di Firenze. Ho invitato la commissione più volte al museo per sopralluoghi, per illustrare le nostre strategie e per aggiornamenti sui nostri molti progetti, ma anche semplicemente per rispondere alle loro domande.
Di recente gli Uffizi si sono trovati al centro della discussione sull’immagine della Venere utilizzata per la campagna del ministero del Turismo. Non Le chiedo cosa pensa di quella campagna, perché il tema interessante è un altro, ovvero l’uso che si fa delle immagini dei beni culturali, su cui allo stesso modo si è discusso tanto nelle ultime settimane e su cui continua a discutere, peraltro l’argomento sarà al centro del prossimo numero della nostra rivista cartacea. Vengo subito al dunque: secondo Lei esiste un diritto d’immagine sui beni culturali, e quindi le opere vanno protette da fini che poco o niente hanno a che fare con l’arte, oppure dovremmo andare nella direzione di una liberalizzazione sulla falsariga di quello che fanno tanti musei americani, per esempio il Metropolitan?
Intanto va considerato che ci sono delle differenze enormi per quanto riguarda le leggi: le situazioni sono molto diverse tra Stati che si basano in maniera più diretta sul diritto romano, e quelli che invece hanno costruito il loro diritto in base all’accumulo dei singoli casi decisi dai giudici, cioè la tradizione anglosassone in particolare. Gli Stati Uniti d’America, l’Inghilterra ma anche l’Olanda tendono a liberalizzare completamente l’utilizzo delle immagini dei loro musei, e in quei paesi è difficile giustificare un diritto pubblico delle immagini. In Francia, in Spagna, in Italia e anche in Grecia e in Germania è diverso. Negli ordinamenti di tradizione del diritto romano l’arte non è considerata un oggetto qualsiasi, commercializzabile senza limiti, come una bicicletta, un monitor o qualunque altra cosa, ma è considerata un bene culturale, ovvero un oggetto che non appartiene mai al solo individuo ma anche alla collettività. I beni culturali di proprietà pubblica sono res extra commercium. Questo fatto determina anche l’utilizzo derivato del bene culturale. In questo momento storico vediamo grandi rivoluzioni tecnologiche nella riproduzione ma anche nella ricomposizione informatica di immagini, e questo fa sì che in tutto il mondo stiano nascendo nuove leggi per disciplinare questi fenomeni. È difficile prevedere quale sarà la soluzione prevalente da un punto di vista giuridico, e se davvero possa esserci una soluzione universale o almeno predominante nel diritto internazionale. Mi preme però sottolineare quanto la norma italiana che protegge le finalità di espressione libera del pensiero, le finalità educative o addirittura promozionali (anche se va specificato il senso) sia in verità molto buona, rispetto a quelle di altri Paesi. Come nel caso della gratuità dell’accesso ai musei, anche nel caso della liberalizzazione dei diritti delle immagini va fatta grande attenzione, perché il libero utilizzo non equivale affatto all’accessibilità a tutti. Se il nostro ideale è l’accessibilità delle opere d’arte, la totale liberalizzazione potrebbe sembrare la soluzione più facile, ma in realtà non lo è. Lo si vede già adesso con le fotografie delle grandi agenzie, che chiedono 600 euro o anche di più solo per scaricare e vedere un’immagine. Più immagini ci sono, più importante (e necessario) diventa l’intermediario, la piattaforma, il catalogo o l’algoritmo che connette l’utente con l’immagine. La liberalizzazione a monte di per sé non garantisce per niente una migliorata accessibilità se non è accompagnata da una normativa che la garantisca anche a valle per specifiche finalità.
Prima di avviarci alla conclusione... qualche suggerimento da dare al Suo successore?
Li darò al successore al momento, se li volesse sentire. È giusto che ognuno arrivi con le prospettive proprie, e le idee nuove e grande forza nella loro messa in pratica ci vogliono anche per continuare e accrescere i grandi progetti avviati come gli “Uffizi diffusi” e “Boboli 2030”.
Chiaro. Allora Le chiedo in una battuta: dove avremo il piacere di vederLa una volta terminato il Suo mandato agli Uffizi?
A parte sulle pagine di Finestre sull’Arte, sulle quali mi auguro di continuare a vedermi, casa mia è qui a Firenze e la mantengo, non sto pianificando nessun trasloco. Certo che professionalmente potrei essere attivo anche in un’altra città, ma questo ovviamente non dipende solo da me.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).