La Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze (BIAF) è una delle manifestazioni più prestigiose del mondo dell’arte e dell’antiquariato, che da sempre si distingue per l’eccezionale qualità delle opere esposte e per la sua capacità di attrarre collezionisti, esperti e appassionati da ogni angolo del pianeta. Nella 33ma edizione, in programma dal 28 settembre al 6 ottobre 2024, gli organizzatori hanno come sempre offerto una selezione accurata di capolavori provenienti da diverse epoche e scuole artistiche, che spaziano dalla pittura alla scultura, passando per l’arredo e le arti decorative.
L’evento di quest’anno non solo celebra la bellezza senza tempo delle opere d’arte, ma rappresenta anche un’importante opportunità per i collezionisti di avvicinarsi al mondo dell’antiquariato senza dover necessariamente affrontare investimenti da capogiro. Se è vero che alla BIAF si possono trovare pezzi di altissimo valore (qui l’articolo con i pezzi più importanti dell’edizione di quest’anno), vi è anche una sorprendente varietà di opere di grande pregio accessibili a un pubblico più ampio, con prezzi che partono da cifre relativamente contenute. Tra queste, spiccano alcuni tesori che, pur mantenendosi sotto la soglia dei 20.000 euro, possono vantare una notevole rilevanza storica e artistica.
Pur evocando spesso immagini di collezioni elitarie e inaccessibili, l’arte antica sa infatti rivelare autentiche gemme anche a chi non dispone di budget illimitati. Le gallerie presenti alla Biennale, molte delle quali tra le più rinomate a livello internazionale, portano con sé una selezione di pezzi accuratamente scelti per rispondere alle esigenze di un mercato sempre più attento e diversificato. Questi oggetti, sebbene non raggiungano i prezzi delle opere più monumentali, non sono certo da considerare minori: al contrario, si tratta di opere d’arte con una loro unicità, in grado di impreziosire qualsiasi collezione. Ne abbiamo selezionate dieci, cercando di coprire tutte le arti presenti in Biennale. Ecco dunque la nostra selezione dedicata ai più interessanti pezzi sotto i 20.000 euro.
I cofanetti intarsiati erano una specialità di alcune botteghe attive tra Ferrara e il Veneto e fiorite tra il Tre e il Cinquecento. Sono stati oggetto di una recente mostra a Palazzo dei Diamanti e non sono molto facili da trovare sul mercato, specialmente se di qualità. Quello presentato da Cantore è attribuito a uno dei migliori atelier, la Bottega degli Embriachi, che cominciò la propria produzione nel Quattrocento a Venezia (venne aperto da un fiorentino, Baldassarre Ubriachi, che nonostante il nome fu decisamente lucido a promuovere la propria attività facendola diventare una delle più feconde in questo genere di oggetti). Cantore presenta tre cofanetti, e questo, oltre a essere il più costoso, è anche il più complesso ed elaborato: la lavorazione alla certosina era un intricato intaglio di legno in base al quale i singoli pezzi, anche molto minuti come si può vedere dall’immagine, venivano sagomati affinché combaciassero all’interno di una base precedentemente lavorata. Del resto, ancora oggi si dice che un lavoro particolarmente lungo e paziente è un lavoro... certosino.
Nel novembre del 1805, di ritorno da Vienna dove aveva completato il Monumento funebre a Maria Cristina d’Austria all’interno della chiesa degli Agostiniani, Antonio Canova passò per Firenze per incontrare la regina Maria Luisa di Borbone che gli avrebbe affidato in via definitiva l’esecuzione della Venere Italica da destinare alla Tribuna degli Uffizi. Canova, a Firenze, era solito soggiornare presso l’amico Giovanni degli Alessandri, figura centrale della politica artistica toscana, presidente dell’Accademia fiorentina di belle arti e futuro direttore degli Uffizi. E proprio dopo un pasto consumato in casa degli Alessandri, Luigi Sabatelli, che fu tra i più importanti pittori, disegnatori e incisori neoclassici, imprime sul foglio, con la tradizionale rapidità di tratto, l’effigie dello scultore. Questa informazione ed altre ancora più dettagliate si ricavano dall’iscrizione presente sul retro di un’altra versione di questo ritratto, inclusa nel nutrito corpus di disegni di Sabatelli conservato alla Galleria d’Arte Moderna di Roma: “disegnato a penna da Luigi Sabatelli pittore Fiorentino un dopo pranzo in Casa Alessandri dove alloggiava il detto Canova di passaggio per Firenze l’anno del Signore 1805 mese di novembre giorno diciotto”. Il pittore fiorentino, con l’immediatezza espressiva che il suo stile gli concede, riesce a fissare sulla carta l’attimo in cui lo scultore si volge verso di lui con l’aria stupita e la bocca ancora aperta, come se fosse stato interrotto durante una conversazione.
La londinese Dickinson è tra le pochissime gallerie a prezzare le opere direttamente sulle didascalie, e il costo di questa interessante opera di Pasquale Ottino si apprende proprio dal cartellino che la accompagna. Passata in asta in Inghilterra alcuni mesi fa come opera della cerchia del pittore veronese, alla BIAF viene riproposta come opera prodotta dalla sua mano. Il prezzo relativamente basso è dovuto anche al fatto che, osservando la superficie dell’opera, si possono agevolmente riscontrare i segni dei secoli che ci separano dalla sua esecuzione, ma si tratta comunque di un pezzo fine, un elegante e tipico esempio di una tecnica che caratterizzò le arti a Verona tra il Cinque e il Seicento, la pittura a olio su ardesia, materiale abbondante attorno alla città, e che dava modo agli artisti di sperimentare intensi effetti luministici in linea con le poetiche tenebriste del tempo. Ottino fu uno dei più importanti e talentuosi caravaggeschi veronesi, e l’opera presentata da Dickinson ricorda da vicino una Madonna con san Lorenzo Giustiniani e un nobile veneto conservata alla Dulwich Picture Gallery. L’impostazione è identica, cambiano solo i personaggi e lo studio degli effetti di luce, per effetto di una candela che nell’esemplare conservato in Inghilterra è presente (con tutto ciò che ne consegue) e in quello alla BIAF no: un’assenza che contribuisce a rendere più cupa l’atmosfera.
Oggetto ricercato e lezioso, questo modello di toeletta in miniatura, proposto da Michele Gargiulo Antiquario, si distingue per la grandissima finezza della sua lavorazione. Nonostante le dimensioni contenute, l’artigiano che lo ha realizzato ha riprodotto con altissima cura ogni dettaglio di un tipico mobile da toilette di fine Sette-inizio Ottocento, senza trascurare neppure le piccole boccette in cristallo di Bacarat che venivano utilizzate per contenere profumi, unguenti e prodotti simili. Da notare anche la decorazione della cornice dello specchio e le incisioni sulla madreperla che decora il piano e il cassetto. Sicuramente un oggetto da veri amatori del genere, quindi non da tutti, ma neppure di facile reperibilità.
Nel variegato gruppo dei macchiaioli, si distinse tra gli altri il fiorentino Raffaello Sorbi, che cominciò come pittore accademico ma virò poi verso il nuovo linguaggio di Banti, Fattori, Signorini e colleghi, senza però mai abbandonare del tutto i suoi legami con un’arte di stampo più tradizionale. In particolare, Sorbi si distinse per una produzione di piccoli oli su tavola, di pochi centimetri, che solitamente raffiguravano alberi, boschi o scene immerse in questi contesti: sono tra le cose più singolari della produzione e sono molto ricercate dai collezionisti, difficile che vadano invendute quando escono in asta. Giacometti ne propone diversi nel suo stand, tra cui questo dipinto Tra i filari di pioppi che raffigura un cacciatore col suo cane in un bosco e si fa apprezzare per la sua capacità di catturare l’impressione di una scena vivace, esaltata dall’accesa tavolozza di Sorbi che si esprime al meglio anche nei formati piccoli. L’opera in questione è stata peraltro pubblicata nel Catalogo dell’arte italiana dell’Ottocento e del primo Novecento.
Giuseppe Gambogi fu uno degli scultori più apprezzati dall’alta borghesia toscana di fine Ottocento e, nell’avvio del XX secolo, seppe aggiornare i suoi modi sul gusto liberty senza disdegnare una certa dose d’orientalismo. Oggi le sue opere più grandi possono raggiungere anche quotazioni di decine di migliaia di euro. L’Odalisca presentata da Robertaebasta è un po’ una piccola summa dell’arte dello scultore pisano all’inizio del Novecento. Una fine opera in alabastro, recante peraltro la firma sotto la base, che si distingue nell’ambito di una produzione più larga da parte dell’artista toscano in virtù del fatto che qui Gambogi decide di combinare in maniera sapiente diversi materiali, tra cui l’alabastro, che dona all’opera una leggerezza non così semplice da trovare nel suo corpus.
La galleria londinese Lullo Pampoulides omaggia la sede della Biennale, Firenze, con questi due quadretti realizzati con un’arte tipica di Firenze, il commesso in pietre dure. Non solo grandi piani di tavoli, non soltanto composizioni particolarmente elaborate, ma anche quadretti più semplici eppure non per questo meno interessanti e meno ingegnosi: basti vedere come l’anonimo artista che ha eseguito questi due pappagallini ha accostato le piccole pietre opportunamente sagomate (questo prevede la tecnica del commesso, simile al mosaico: si tracciava prima un disegno, dopodiché lo si riempiva sagomando pezzo per pezzo le pietre colorate che venivano poi accostate con incastri minuti) per ricreare l’effetto della varietà di colori del piumaggio del pappagallo. Da notare poi anche la finezza dei frutti: sono state infatti sfruttate le venature naturali delle pietre per suggerire l’effetto delle sfumature delle pesche, o le ammaccature delle pere. Due oggetti di piccole dimensioni, ma di grande qualità.
Romano Fine Art presenta una serie di studi in gesso del grande scultore cubano Agustín Cárdenas, provenienti direttamente dal suo studio. Cárdenas, discendente di schiavi africani che vennero deportati nei Caraibi, arrivò a una personalissima cifra che fondeva le avanguardie europee (da Hans Arp a Brancusi) col ricordo dei suoi antenati, rendendolo uno dei più importanti artisti del movimento della “negritudine”. Negli ultimi anni della sua carriera, prima di tornare definitivamente a Cuba, visse e lavorò in Versilia, ed è da qui che provengono questi gessi realizzati in vista di grandi opere in marmo o in bronzo, come Le coq conservato al MudaC di Carrara, opera in marmo alla quale il gesso presentato in BIAF sembrerebbe ricollegarsi.
Allo stand della galleria Secol-Art dei coniugi Masoero si può trovare un cel originale di produzione del film Il libro della giungla della Disney (1967), che raffigura l’orso Baloo. Un cel, nelle vecchie tecniche di animazione, è un sottile foglio di plastica (il nome è una contrazione di “celluloide”) sul quale veniva dipinto a tempera, acrilico o altro tipo di pittura il fotogramma del film. Venivano dipinti su plastica trasparente per una questione di praticità: i fondali, infatti, rimanevano fissi, e i pittori impiegati nella realizzazione delle scene dovevano dunque dipingere solo i dettagli in movimento, che venivano poi sovrapposti, fotogramma dopo fotogramma, allo sfondo per dare luogo all’animazione. Un lavoro lungo, lento e meticoloso per una tecnica di animazione oggi non più in uso a causa dell’avvento del digitale: di conseguenza, gli originali cel di produzione sono diventati oggetti particolarmente ricercati dai collezionisti appassionati di cinema d’animazione.
I micromosaici erano oggetti particolarmente in voga durante il Grand Tour: prodotti in particolare a Roma, e raffiguranti vedute della città vere o immaginarie, venivano venduti ai grandtourists che cercavano oggetti pratici e non molto dispendiosi con i quali poter portare a casa il ricordo dell’Italia. Ci furono artisti che si specializzarono in questa particolare tecnica. I disegni potevano essere semplici o particolarmente elaborati, ma le dimensioni generalmente non superavano i pochi centimetri. Il micromosaico venduto da Maurizio Brandi sembra raffigurare una precisa veduta dei Fori Imperiali: sulla destra il Tempio di Saturno, al centro il Tempio dei Dioscuri e sulla sinistra l’Arco di Settimio Severo. Il viaggiatore che poteva comprare quest’oggetto nella Roma di primo Ottocento sapeva dunque di avere con sé un pezzo dei Fori, una delle vedute più caratteristiche di Roma, riprodotto con un mosaico semplice ma gustoso.