La Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze, giunta alla sua 33ma edizione nel 2024 (qui la nostra cronaca in anteprima), aperta al pubblico dal 28 settembre al 6 ottobre 2024, si afferma come uno degli eventi più prestigiosi e attesi nel panorama mondiale dedicato all’antiquariato e all’arte. Situata nel cuore di Firenze, a Palazzo Corsini, la fiera non è solo un punto di incontro per collezionisti e appassionati, ma rappresenta anche un palcoscenico straordinario dove le epoche storiche si intrecciano, dando vita a un dialogo affascinante tra passato e presente. Quest’anno, ottanta gallerie di antiquariato di fama internazionale espongono una selezione curata di opere d’arte, tra cui dipinti, sculture e mobili, tutti scelti per la loro rilevanza storica e il loro valore artistico.
In questo contesto, le opere presenti alla Biennale non sono solo meri oggetti da ammirare, ma autentiche finestre su epoche e culture diverse. Ogni opera racconta una storia, riflette le tensioni e le speranze di un’epoca, e offre spunti di riflessione sull’evoluzione dell’arte nel corso dei secoli. In questo articolo, vediamo da vicino le 15 opere fondamentali della Biennale (per le quali ci è stato consentito di pubblicare il prezzo), i pezzi da non perdere negli stand: è probabile che qualcuno di questi finirà in un museo. È anche grazie a opere di questa qualità che la Biennale si conferma come un’occasione imperdibile per immergersi nell’arte e nella cultura.
Questa Madonna col Bambino del Bronzino torna alla Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze a più di sessant’anni di distanza: vi venne infatti esposta per la prima volta appena fu scoperta, nel 1961, con attribuzione però al Pontormo (anche Roberto Longhi pensò fosse opera dell’artista empolese, già dopo che erano uscite ipotesi attributive orientate verso il Bronzino). Da qualche tempo tuttavia la critica ha trovato un assestamento sul nome dell’allievo di Jacopo Carucci: si tratterebbe, in particolare, di un’opera giovanile, databile al 1525-1526, epoca in cui il Bronzino aveva poco più di vent’anni e lavorava a stretto contatto col maestro, tanto che le sue opere di questo periodo sono state spesso confuse con opere del Pontormo. Nello specifico, si tratterebbe di un’opera realizzata quando entrambi lavoravano alla decorazione della Cappella Capponi in Santa Felicita a Firenze. È stata esposta nel 2022 alla grande mostra su Donatello a Palazzo Strozzi: la Madonna col Bambino del Bronzino, in particolare, si trovava nell’ultima sala della sezione allestita al Museo del Bargello, poiché la composizione (nota anche da un disegno conservato al Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi) riprende la Madonna del Pugliese – Dudley di Donatello. Tuttavia, come ha scritto lo studioso Gabriele Fattorini, “a fronte del prototipo, se la Madonna conserva un netto profilo donatelliano, il piccolo Gesù si ingrossa invece di vigore e i panni si gonfiano, tenendo a mente la lezione di Michelangelo”.
Acquisito all’asta a Parigi più di trent’anni fa come opera di una mano anonima, questo Studio di Giove è ora ritenuto da molti studiosi il primo disegno conosciuto di Michelangelo. La figura è basata su un frammento di marmo romano, la metà inferiore di un Giove in trono (I-II secolo d.C.). A causa degli elementi stilistici distintivi del disegno, sin dalla sua scoperta c’è stato un ampio consenso accademico sul fatto che l’autore fosse un giovane apprendista o assistente che lavorava nella bottega del Ghirlandaio nella Firenze di fine Quattrocento. Michelangelo passò proprio da questa bottega: lì, studiò insieme ad altri talentuosi apprendisti, affinando le sue capacità e iniziando a sviluppare il suo stile di disegno scultoreo, molto riconoscibile. Sulla base di confronti con altri disegni iniziali e della presenza significativa dei due toni distintivi di inchiostro, molti studiosi di spicco del settore, tra cui Paul Joannides, Timothy Clifford, Zoltán Kárpáti, Miles Chappell e David Ekserdjian, hanno sostenuto che questo disegno è la prima opera su carta conosciuta del giovane Michelangelo. Il collegamento del disegno con i primi lavori di Michelangelo fu inizialmente stabilito da Miles Chappell, esperto di disegni fiorentini del XV e XVI secolo. Dopo un’ampia ricerca, il disegno fu pubblicato per la prima volta come opera del giovane Michelangelo nel 2019. L’attribuzione a Michelangelo si basa su una serie di fattori, soprattutto sul fatto che il soggetto, i materiali e lo stile del disegno sono tutti in accordo con ciò che sappiamo dello sviluppo iniziale di Michelangelo. Il disegno presenta due toni di inchiostro marrone: questa era una tecnica che Michelangelo usava spesso, ma la vediamo mai nei disegni dello stesso Ghirlandaio.
Violente ed incisive, in un modo che non era mai stato sperimentato nel mondo dell’arte prima di Bernini, queste quattro teste in bronzo dorato sono da sempre ritenute un esempio di espressione degli eccessi del Barocco. Databili tra il 1650 e il 1655, furono fuse dallo stesso modello e appartengono al genere del grottesco, inteso esclusivamente come decorazione. Finissime e stravaganti, dotate ciascuna di un foro irregolare sulla nuca adatto ad alloggiare i piumaggi in voga all’epoca, erano state realizzate originariamente come elementi laterali per la carrozza personale di Gian Lorenzo Bernini. Sarà lo stesso, in un’epoca imprecisata, a rimuoverle dalla vettura per includerle nella sua collezione personale e collocarle, come ricorda il primo inventario, nella sala dell’appartamento nobile del suo palazzo in via della Mercede. Il significato ultimo e preciso di questi quattro bronzi dorati, uno “scherzo” molto personale, non è facile da decifrare. Potevano essere solo una ostentazione della sua estrosa genialità che nel corso degli anni aveva cambiato il volto della Città Eterna, o semplicemente rientrare nella tradizione dei marginalia, le figure marginali deformi, spaventose o bizzarre del mondo sottosopra che forniscono un commento derisorio, ma decorativo, sulla serietà dell’esistenza terrena. In ogni modo avrebbero avuto la stessa funzione sarcastica sulla carrozza dello scultore, un commento ironico contro la serietà della vita quotidiana o un urlo disperato e beffardo rivolto ai passanti che osavano guardare in alto, verso la carrozza dello scultore.
Si tratta dell’unica opera del ciclo di Padernello di Giacomo Ceruti ancora sul mercato. Il ciclo di Padernello (così chiamato, ma in realtà forse non era un ciclo concepito in maniera coerente) è un insieme di opere che fu scoperto nel 1931, presso il Castello di Padernello (da cui il nome) dallo storico dell’arte Giuseppe De Logu: si tratta di tredici dipinti (ai quali ne andrebbero però avvicinati almeno altri tre di identica fattura) che Giacomo Ceruti, uno dei più grandi artisti del Settecento, dedicò a soggetti tratti dalla vita popolare del tempo. In queste opere l’artista tocca uno degli apici della sua carriera e si produce in una serie di dipinti che consentono all’osservatore di compiere un viaggio nei bassifondi della Brescia del XVIII secolo. Il dipinto presentato da Matteo Salamon rappresenta due portaroli, ovvero due ragazzi delle classi popolari che, come lavoro, portavano merce (tipicamente alimenti) dentro grandi ceste di vimini che, all’occorrenza, come si vede nella tela esposta alla BIAF, venivano anche utilizzate per momenti di svago: in questo caso, i due ragazzi stanno giocando a carte. L’opera purtroppo non venne prestata alla grande mostra su Ceruti tenutasi a Brescia nel 2023, ma fa parte delle tredici che i conti Salvadego tenevano presso il Castello di Padernello. Le vicende storiche hanno consentito di rintracciare la storia dei dipinti del ciclo fino al 1772, quando erano parte della collezione Avogadro: lo stesso vale per questa tela che il pubblico ha potuto vedere esposto per l’ultima volta nel 1953, in una mostra tenutasi a Milano, a Palazzo Reale (I pittori della realtà in Lombardia).
Bernardo Bellotto eseguì questa rappresentazione tipica di uno dei più celebri monumenti dell’antica Roma nei primi anni Quaranta del XVIII secolo, dopo la sua visita alla città, avvenuta nel 1742. Come molte delle opere giovanili dell’artista, questo dipinto fu precedentemente (e erroneamente) attribuito al suo mentore e zio, il Canaletto. Grazie agli studi di Anna Bozena Kowalczyk e Charles Beddington, questa opera è stata successivamente correttamente attribuita a Bellotto. Riconosciuta come uno dei suoi primi capolavori, l’opera illustra la sua emergente personalità artistica distintiva, dimostrando la natura dello scambio artistico tra lui e suo zio ed esemplificando il suo precoce talento, oltre che la straordinaria qualità esecutiva. Un importante fattore che spiega la precedente attribuzione del dipinto riguarda le molte somiglianze che quest’ultimo condivide con uno dei disegni di Canaletto (British Museum, Londra), che raffigura anch’esso il Colosseo da un punto di vista occidentale. Sebbene Bellotto aderisca alla composizione e al punto di vista generale di Canaletto, vi sono anche differenze marcate tra i due disegni, come nella fila di edifici che costeggiano il Colosseo e gran parte della vegetazione e delle figure. Inoltre, Bellotto rende la vista con una maggiore ampiezza prospettica, includendo a destra l’Arco di Costantino e colline lontane che conferiscono più atmosfera alla linea dell’orizzonte. Aggiungendo queste modifiche, Bellotto ha prodotto una composizione che, rispetto a quella dello zio, risulta più sorprendente e intensa. Si ritiene che Bellotto abbia viaggiato a Roma nella primavera del 1742, poco dopo il suo matrimonio con Elisabetta Pizzorno il 5 novembre dell’anno precedente. Si fermò a Firenze, Lucca e Livorno lungo il percorso ed è documentato di ritorno a Venezia il 25 luglio 1742. Questo dipinto deve essere posteriore al suo viaggio a Roma, e la Kowalczyk ha suggerito una data di esecuzione poco dopo il ritorno di Bellotto da Roma a Venezia, intorno al 1743–442.
Questo dipinto è stato dato a Guido Reni di recente da Massimo Pulini e Francesco Gatta, entrambi giunti a questa conclusione in via indipendente. Raffigura quattordici amorini che giocano, alcuni anche in maniera greve come si può facilmente osservare, in un paesaggio naturale, dentro un bosco in collina. L’artista bolognese affronta la scena come se fosse un insieme di episodi tutti separati uno dall’altro, in uno stile terso e limpido che quasi anticipa la pittura arcadica del secolo successivo. Dato inizialmente alla scuola di Francesco Albani, il dipinto è stato poi riconosciuto come opera di Guido Reni per via di alcuni elementi (il dettaglio delle piante, i colori tersi e freddi, l’equilibrio cromatico e compositivo, la luce smaltata) che sembrano essere invece tipici della sua mano. Grazie ad alcune scoperte documentarie è stato possibile tracciare la storia dell’opera, che appartenne alla collezione romana di Odoardo Farnese, nel cui inventario datato 1644 viene citato “Un quadro in tela con cornice grossa dorata, dentro dipinto un Paese con gioco di Amorini, mano di Guido Reni, et dentro d’esso quadro è racchiuso un ritratto d’una dama”. Il dipinto con gli amorini serviva infatti a nascondere, nei camerini segreti di Odoardo Farnese, un Ritratto di dama.
Nel campo della natura morta, Fede Galizia gioca un ruolo fondamentale nell’indirizzare gli orientamenti di tutti gli artisti dell’area milanese: a una data precocissima, nel 1602, firma la sua prima natura morta, nella quale fissa i tratti che segneranno tutta la sua produzione: composizioni regolate da armoniche simmetrie, una resa attentissima, quasi da miniaturista, delle diverse superfici di fiori e dei frutti e una luce fredda e tagliente che batte rigorosamente sul piano. L’artista spesso propone composizioni molto simili ma apportando ogni volta delle varianti, è questo il caso anche del presente dipinto; una fruttiera in ceramica traforata colma di frutta con delle pere variamente disposte sul piano è la protagonista di tre composizioni. Le vicende critiche dei tre dipinti sono state ricostruite da Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa nel catalogo della mostra dell’esposizione di Trento dedicata a Fede Galizia. Va ricordato che Mauro Natale e Alessandro Morandotti, i primi studiosi a pubblicare questo dipinto nel grande repertorio Electa dedicato alla natura morta italiana, avevano altresì segnalato un possibile pendant nella natura morta di Pesche, gelsomini, coppa di cristallo e mele cotogn presso Silvano Lodi, da loro però attribuita a Panfilo Nuvolone sulla base dell’identificazione con un dipinto citato come opera del pittore cremonese nell’inventario della collezione di Carlo Emanuele I di Savoia, a riprova della comunanza di modelli ed idee tra i due promotori del genere della natura morta in terra lombarda. L’emergere negli anni successivi di altre versioni della stessa composizione ha fatto cadere questa ipotesi e riferire anche il secondo dipinto alla mano di Fede Galizia. Estremamente problematica rimane la questione della datazione delle nature morte di Fede, anche proprio per il riutilizzo da parte della pittrice degli stessi moduli in diverse composizioni. Rimanendo al dipinto oggetto di questa scheda Mauro Natale e Alessandro Morandotti avevano proposto una data verso il 1610, Flavio Caroli, pur non esprimendo in maniera aperta un’ipotesi, colloca il dipinto tra le ultime opere del suo catalogo ragionato, Giacomo Berra infine nei cataloghi delle due mostre dedicate ad Arcimboldo preferisce una datazione a cavallo del passaggio di secolo.
La tavola presentata da Romigioli Antichità proviene dalla collezione Moratilla di Parigi ma è ignota la sua storia antica. Tolte alcune abrasioni su volto e collo della Madonna, le condizioni di conservazione sono eccellenti: la tavola, eseguita da Lorenzo di Bicci, presenta un raffinato lavoro “a sgraffito” col quale venne ottenuta la decorazione del drappo che copre il trono su cui siede la vergine, sostenuto ai lati dai due angeli. La veste della Madonna è decorata con un motivo a corona ripetuto più volte, mentre il mantello presenta invece ornamenti a racemi. Secondo lo studioso Angelo Tartuferi, che si è occupato di questo dipinto, “le dimensioni, la ricchezza e la cura dell’esecuzione in ogni particolare, nonché l’alta qualità intrinseca del dipinto, attestano che siamo di fronte ad una delle commissioni in assoluto più importanti e prestigiose fra le opere di Lorenzo di Bicci che sono arrivate fino a noi”. In origine la tavola era verosimilmente parte di un polittico di grandi dimensioni, probabilmente simile a quello oggi conservato nel Museo della Collegiata di Empoli, appartenente allo stesso momento stilistico. Sempre secondo Tartuferi, potrebbe esistere un altro elemento superstite dello stesso complesso, una tavola cuspidata raffigurante San Nicola da Tolentino che alla fine degli anni Sessanta del Novecento si trovava in collezione Matteotti a Milano.
La Madonna in gloria con cherubini presentata alla BIAF da Fondoantico è il più grande frammento dell’imponente pala d’altare rappresentante la Vergine che appare a San Guglielmo che fu commissionata da madre Maria Agostina Tomaselli per la chiesa di Gesù e Maria a Porta Galliera di Bologna e completata da Francesco Albani entro il 1646. Il dipinto ricompare nell’occasione dell’edizione 2024 della BIAF dopo un oblio di oltre due secoli, a seguito delle spoliazioni napoleoniche che interessarono anche l’edificio bolognese, successivamente distrutto, e della conseguente frammentazione dell’intero apparato decorativo, nel corso dell’Ottocento. A seguito delle soppressioni napoleoniche della chiesa di Gesù e Maria, le vicende collezionistiche della tela sono assai complesse e non spiegano del tutto il motivo per il quale, dei tre quadri che la ornavano, solamente questo ebbe un destino così infausto. Il dipinto, infatti, venne prima trasferito nei depositi del convento di San Vitale, ora soppresso, dove è descritto in un inventario del 1799. In seguito, fu trasportato nell’allora Reale Pinacoteca dell’Accademia di Belle Arti di Bologna, dove figura negli inventari del 1801 e del 1820. Nel 1821 fu venduto al conte Cesare Bianchetti, personaggio tra i più rappresentativi della Bologna aristocratica di quegli anni, che occupò un posto di rilievo come Legato Pro-Presidente dell’Accademia. Nel 1821 il nobiluomo decise di fare tagliare il dipinto in quattro parti dal restauratore Antonio Magazzari, separando i quattro gruppi più importanti: così la parte superiore venne divisa nei due pezzi della Madonna in gloria con cherubini, mentre nella parte inferiore si decise di isolare il san Guglielmo dalla Maddalena, di cui rimane il frammento con il teschio. I frammenti dispersi hanno poi avuto diverse storie. La Madonna in gloria con cherubini fu individuata da Eric Van Schaack in una collezione privata bolognese, dove era documentata da una fotografia eseguita sul principio del secolo scorso da Felice Croci, poi recuperata e riprodotta anche da Catherine Puglisi nella propria monografia del 1999. Dopo essere sorprendentemente ritornata alla luce sul mercato bresciano nel 2023, è stata acquistata da Fondantico di Tiziana Sassoli, che ne ha affidata la pulitura a Andrea Cipriani di Firenze. La pala costituiva un convincente esempio della fase matura di Francesco Albani, i cui peculiari caratteri si riconoscono al meglio nel grande frammento di Fondantico.
Gustaf Fjæstad, noto come il “Maestro della neve”, ha dedicato la sua vita a catturare la bellezza dei paesaggi innevati della Svezia, sua terra natale. Il suo successo maggiore si è concretizzato a livello internazionale, in particolare in Germania e Italia, dove i critici e i collezionisti hanno apprezzato le sue delicate rappresentazioni invernali. La forza delle opere di Fjæstad risiede nella capacità di trasmettere un senso di misticismo e potenza emotiva attraverso paesaggi ghiacciati, evocando un’idea di unicità che ricorda le numerose parole con cui gli Eschimesi descrivono il ghiaccio. L’artista dipinge all’aperto, cercando una luce speciale e catturando la bellezza intatta della natura. La sua creatività è stata influenzata dal movimento teosofico, che cercava l’illuminazione universale, e le sue opere riflettono un’intensa ricerca di armonia con la natura. Un esempio emblematico di questo approccio è il dipinto La neve, che invita l’osservatore a uno stato meditativo, creando un’atmosfera fiabesca. La tela si presenta inizialmente come un gioco decorativo di fiocchi di neve, richiamando l’Art Nouveau con le sue curve aggraziate, ma nasconde un significato più profondo, un desiderio di pace interiore e un’invocazione alla vita in armonia con l’ambiente naturale. La tecnica di Fjæstad è particolarmente innovativa: utilizza sostanze chimiche fotosensibili e una tecnica puntinistica ad impasto, creando effetti ottici straordinari che rendono il bianco luminoso e vibrante. La sua abilità nel sovrapporre strati spessi di colore consente un controllo eccezionale sui giochi di luce, evocando una tavolozza ricca di rossi, blu e grigi, chiaramente influenzata dai pointilliste come Georges Seurat. Inoltre, le forme morbide e ornamentali della neve evidenziano l’impronta dell’Art Nouveau e segnano una transizione dallo stile ottocentesco a un linguaggio artistico più moderno e innovativo. Gustaf Fjæstad ha saputo trasformare la sua passione per i paesaggi innevati in un’arte capace di evocare emozioni profonde e universali, posizionandosi come una figura di spicco nel panorama artistico del suo tempo e anticipando forme di espressione contemporanea.
La scena descritta in questo dipinto di David Vinckboons, pittore olandese che lavorò all’inizio del cosiddetto Secolo d’Oro, evoca vividamente un festoso banchetto contadino, un momento di gioia collettiva che contrasta con la visione più cupa e critica di Bruegel il Vecchio. Qui, invece, ci troviamo immersi in un’atmosfera di tolleranza e ironia, dove i contadini si lasciano andare a bagordi e divertimenti. La tavola imbandita offre una varietà di piatti succulenti, dal carré d’agnello con salse ricche alle cozze (piatto tipico fiammingo), i cui gusci vengono gettati a terra senza riguardo, creando un senso di abbondanza e spensieratezza. Il dipinto trasmette una sensazione di vitalità e di eccesso, accentuata dai colori vivaci e dai dettagli minuziosi che caratterizzano le espressioni dei personaggi. Le facce dei contadini, con le loro espressioni tragicomiche, raccontano storie di gioia e di vita semplice, rendendo l’atmosfera quasi caricaturale ma affascinante. Il ritmo della scena è scandito da braccia alzate al cielo in segno di festoso abbandono, ed evoca quasi un carme satirico che riflette le gioie e le fatiche della vita contadina. In questo scenario, la vena grottesca si fa sentire ma senza offuscare la piacevolezza generale. È un’ode alla vita, un momento di celebrazione della comunità, dove ogni personaggio, con la propria peculiarità, contribuisce a creare un quadro vivace e coinvolgente: un “Grande Bouffe” dove la convivialità e l’allegria prevalgono su ogni altro sentimento, ma dove non manca di farsi comunque sentire la posizione dell’artista.
Un capolavoro di Niccolò Cannicci dalla lunga storia: fu esposto nel 1887, appena dopo la realizzazione, all’Esposizione Nazionale Artistica di Venezia del 1887, poi ancora nel 1888 all’Esposizione Nazionale di Belle Arti di Bologna e di nuovo lo stesso anno all’Esposizione della Società di Promotrice di Firenze, ed è stata inclusa in diverse pubblicazioni. Per quest’opera, Cannicci ottenne anche un premio alla Promotrice di Firenze del 1888. Quadro molto apprezzato all’epoca della sua realizzazione, è tra i punti saldi della carriera dell’artista: rappresenta un momento di vita semplice nelle campagne della Toscana, il momento in cui, con una cerimonia religiosa sobria, quasi spartana, venivano benedetti i campi in cui avrebbero lavorato i contadini. In una rivista dell’epoca si diceva che in questo dipinto Cannicci ha “disegnato e soffuso di grazia e soavità agreste le più belle figure delle sue devote contadine” con un “sentimento evidente e accessibile a ciascuno”. Niccolò Cannicci appartenne alla seconda generazione dei pittori macchiaioli e questo dipinto, proveniente dalla collezione della contessa Gargallo di Siracusa, è uno dei migliori esempi della sua pittura: un’arte presa dal vero, intrisa di sentimento, molto luminosa e ricca di colori, con alcune soluzioni stilistiche che anticipano il divisionismo (per esempio si vedano i piccoli tocchi di colore con i quali Cannicci dà la sensazione del cielo al tramonto in questo dipinto) e che saranno largamente studiate da tutto il movimento dei postmacchiaioli.
Il dipinto, citato da Ferdinando Arisi come autografo, è un’altra versione, autentica e completamente di mano del maestro, del dipinto di dimensioni pressoché analoghe (98 x 134,5 cm), firmato e datato 1751, oggi conservato, insieme al pendant con la Predica di un apostolo, nella collezione dei conti Harrach presso il castello di Rohrau, in Austria. I due dipinti oggi a Rohrau furono acquistati direttamente nello studio di Panini dal conte austriaco Ernst Guido von Harrach, durante il suo viaggio in Italia, grazie alla mediazione dell’abate Crivelli. Il dipinto presentato alla BIAF, inedito, è caratterizzato, scrive Francesco Leone, “da una stesura sprezzante di notevole qualità nella resa delle architetture e, di converso, da grande raffinatezza nelle molte figure che popolano la scena, come nelle migliori opere di Panini degli anni Cinquanta del Settecento. In modo piuttosto uniforme su tutta la tela – in buono stato di conservazione – si nota in corrispondenza delle ombre il colore bruno della preparazione perché Panini, con il virtuosismo del grande maestro, modulò con una sapiente tecnica a risparmio tutte le ombre del dipinto utilizzando proprio il bruno dell’imprimitura della tela”. Su queste zone d’ombra ottenute lasciando a vista la preparazione della tela dovevano originariamente essere dipinte, per conferire all’opera un maggiore stato di compiutezza, delle sottili velature di colore scuro che oggi, come spesso accade in questi casi, sono andate in gran parte perdute. Sul versante tecnico, quindi, il dipinto è una testimonianza di grande interesse sui modi esecutivi del grande maestro di Piacenza, uno dei pittori più noti del cosmopolita scenario artistico della Roma di allora. Secondo la più tipica poetica di Panini, questo grande dipinto unisce il genere del capriccio architettonico – secondo una poetica del pittoresco che ama riunire in modo immaginario vestigia di Roma antica – con una serie di personaggi, notevoli per quantità, qualità, monumentalità e stato di conservazione, che attribuiscono all’opera, pur nel richiamo al mondo classico individuato nel tema della Sibilla, un carattere aneddotico tipico della cultura arcadica romana della metà del Settecento. Il dipinto fu eseguito successivamente alla tela della collezione Harrach.
Giorgio Baratti Antiquario presenta alla BIAF due rarissime pitture su specchio, vendute in coppia (sotto in foto quella con Diana con una ninfa e Atteone), in eccellente stato di conservazione. I soggetti sono classici: nel primo campeggiano le figure di Ercole e Onfale, nella seconda invece, come detto, Diana con Atteon e una ninfa. Queste opere, secondo Sandro Bellesi, sono databili agli anni Ottanta del Seicento, poiché presentano caratteri stilistici e tipologici stringenti con varie opere licenziate da Luca Giordano durante la sua permanenza a Firenze in quel periodo, il suo periodo aureo: tali caratteri attestano riferimenti a sue varie composizioni sicure su tela e ad affresco. In particolare, appaiono significativi i confronti con alcune figure presenti nella galleria di Palazzo Medici Riccardi e in varie tele eseguite per importanti collezionisti fiorentini, come il Ratto di Deianira nelle raccolte di Palazzo Pitti, la Storia scrive gli annali sul Tempo oggi al Musée des Beaux-Arts di Brest, e il Bacco e Arianna del Chrysler Museum di Norfolk. Le figure dipinte da Luca Giordano sui due specchi, tornite con pennellate morbide e dense, mostrano una cultura eclettica, mutuata in prevalenza dalla lezione tarda di Pietro da Cortona e dei suoi più stretti seguaci, oltre che riflessioni sulla cultura classicista bolognese derivata dalla scuola dei Carracci e dal Domenichino.
Il ritratto esposto alla BIAF da Callisto è stato in passato identificato con quello della cantante lirica Giuditta Pasta, ed è stato pubblicato da Sergio Rebora nel catalogo della mostra Giuseppe Molteni e il ritratto nella Milano romantica tenutasi a Milano nel 2000. Giuseppe Molteni iniziò la propria carriera come restauratore di dipinti lavorando per il Louvre, per il British Museum e per importantissimi collezionisti. Il suo studio milanese divenne un luogo di incontro di collezionisti e mercanti e Molteni di dedicò anche al commercio di opere d’ arte. In questo senso fu importantissima la sua amicizia con Charles Eastlake, direttore della National Gallery di Londra. In parallelo prese piede l’attività di Molteni come pittore di scene storiche e soprattutto come ritrattista. In questo genere di pittura egli divenne l’artista più alla moda di Milano insieme ad Hayez.