Anche il collezionismo d’arte antica segue le mode. Chi guarda questo mondo dall’esterno forse fatica a crederlo, ma è così, è sempre stato così, e non c’è ragione di ritenere che smetterà d’esser così. E benché spesso capiti d’esser costretti a leggere agiografie di collezionisti che giammai si piegarono alle tendenze del momento, il fatto è che non c’è niente di male se s’acquista un dipinto, o un gruppo di dipinti, perché il nome del loro autore figura tra quelli di tendenza in un dato periodo. Sempre che l’opera acquistata, anche se à la page, tocchi comunque il cuore di chi la compera. Altrimenti è solo sfoggio senz’anima. Ora, caso vuole che Amedeo Lia, che fu tra i maggiori collezionisti del secolo scorso, nutrisse una sincera passione per le arti veneziane di pressoché tutti i secoli, e caso vuole che, tra gli anni Ottanta e l’inizio degli anni Duemila, il Canaletto fosse uno degli artisti di moda tra i collezionisti più facoltosi. C’è stato un momento, nella storia recente del collezionismo, in cui un Canaletto era ritenuto una sorta di marchio di qualità, un punto d’arrivo d’una raccolta, o più banalmente un must have. Chi non poteva metter le mani su di un Canaletto s’accontentava di rinfoltire la propria raccolta con qualche altro vedutista. Amedeo Lia riuscì ad avere il suo Canaletto: un delizioso capriccio con edificio gotico dentro il quale risuona chiara l’eco del soggiorno britannico del pittore, ricordato dal palazzo sullo sfondo ch’è identico alla King’s College Chapel di Cambridge. Un paesaggio in cui, come spesso faceva, il Canaletto mescolava elementi reali e scenarî d’invenzione. Un’opera d’indubbia autografia, specificava Federico Zeri, che di Lia è stato il più vicino ‘consulente’, per così dire. E accanto a questo capriccio, accanto a questo sfavillante saggio dell’arte del Canaletto, Lia ha saputo costruire un nucleo folto, ricco, completo di vedutisti veneziani: pochissimi musei in Italia possono mostrare al pubblico un corpus altrettanto equilibrato e compiuto. Bene quindi che Canaletto andasse di moda trent’anni fa, verrebbe da dire.
Ci sono, nella collezione del Settecento del Museo Lia di La Spezia, il museo civico nato dalla raccolta dell’ingegnere, anche paesaggi che raffigurano altre parti d’Italia. Amedeo Lia aveva però, si direbbe, una passione particolare per Venezia. Diciott’anni fa, al museo, venne organizzata una mostra-focus su tutta l’arte veneziana della sua raccolta. Quest’anno, invece, il nucleo di vedute settecentesche della collezione ha fornito una valida scusa per allestire una mostra dedicata al Grand Tour (L’arte di viaggiare. L’Italia e il Grand Tour), organizzata sfruttando le opere del museo, con qualche sostegno giunto da un buon numero di prestatori esterni: prassi normale per il Museo Amedeo Lia che non ha mai organizzato grandi mostre, ma ha sempre avuto la capacità di far arrivare sulle rive del Golfo dei Poeti pezzi di sicuro interesse col fine d’approfondire il tema del momento. E questa volta l’istituto ha costruito una sorta di condensato delle ultime mostre che son state dedicate all’argomento Grand Tour: vengono in mente la grande rassegna delle Gallerie d’Italia di Milano del 2022, forse la più completa e imponente mostra sul Grand Tour che si sia tenuta in Italia (senza contare quella del Palazzo delle Esposizioni di Roma del 1996: era tappa d’una mostra nata alla Tate di Londra), e quella di Palazzo Cucchiari a Carrara del 2016. È curioso, peraltro, che due delle principali mostre sul Grand Tour si siano tenute in due città separate da appena trenta chilometri. Due città, Carrara e La Spezia, che furono marginalmente toccate dai viaggiatori che calavano dal nord Europa, scavalcavano le Alpi, e poi scendevano giù verso Firenze, verso Roma, verso Napoli per poi risalire in direzione Venezia e da lì tornare verso casa. Se però la mostra di Carrara, pur con tutti i limiti del caso (il grosso del materiale veniva da un unico prestatore), aveva comunque dedicato una sala intera ai paesaggi apuani offrendo al pubblico la possibilità d’osservare diversi scorci di queste terre all’epoca in cui alcuni dei grandtourists più temerarî s’erano messi in animo d’andare a vedere le cave di marmo, la mostra del Lia non dedica ai paesaggi del Levante ligure altro che un bell’acquerello di William Turner, unica testimonianza, nell’itinerario di visita, del pur vivido interesse che pittori e viaggiatori capitati in Italia tra Sette e Ottocento coltivarono per il Golfo dei Poeti.
Vero che il golfo non era incluso tra le tappe fondamentali, eppure da queste rive son passati in tanti. Politici, scrittori, poeti, pittori. George Dennis, che fu diplomatico e archeologo, s’era fermato qui perché voleva studiare l’antica città di Luni. Samuel Rogers, nel suo poema Italy, ha dedicato al golfo versi splendidi, evocativi (“Il giorno brillava, e oltre il precipizio, / [...] Rotolava un mare vaporoso. Mi sembrava di procedere / Lungo l’estremo limite di questo, del nostro mondo; / Ma presto le onde si ritirarono, e scorgemmo / Non vagamente, sebbene l’allodola fosse ancora silenziosa, / Il tuo golfo, La Spezia. Prima del cannone del mattino, / Prima del primo raggio del giorno, ci fermammo lì; / E non un respiro, un mormorio!”). Denis Florence Macarthy, poeta irlandese, scrisse una lirica sulle lucciole che aveva visto per la prima volta in mezzo ai cespugli di mirto lungo la costa spezzina (“In molte dolci baie della Liguria / i mirti brillano verdi e luminosi, / splendono coi loro fiori di neve durante il giorno / E ardono con le lucciole durante la notte; / E tuttavia, nonostante il freddo e il caldo, / Sono sempre freschi, puri e dolci”). Di Byron e Shelley è persino superfluo parlare. E poi gli artisti: Cozens, Klenze, Blechen, Pyne, giusto per citare i nomi più noti. C’è, insomma, tanto materiale per un’altra mostra.
L’arte di viaggiare si concentra soprattutto sulle quattro “capitali del Grand Tour”, come le potremmo chiamare: Venezia, Roma, Firenze e Napoli, in ordine di come vengono presentate al pubblico, con le opere disposte entro gli ottimi, originali allestimenti progettati dallo studio Tub Design che ha rivoluzionato le sale del Sei e del Settecento (le opere non funzionali alla mostra sono state spostate nella grande sala solitamente riservata alle mostre temporanee) per accogliere i visitatori con un racconto movimentato, teso a valorizzare le opere soprattutto laddove l’impianto della mostra è più debole: la sala dedicata a Napoli, per esempio, è stata trasformata nella camera d’una domus di Pompei per esporre alcuni disegni della Scuola di Posillipo, e gli acquerelli di fine Ottocento del pittore napoletano Vincenzo Loria che fu direttore degli scavi pompeiani e che con le sue pitture volle documentare le decorazioni murali che s’erano conservate per secoli sotto la cenere del Vesuvio. Le quattro sezioni sono anticipate da una sala introduttiva ch’è invece dedicata alle ragioni del viaggio. Dove e quando nasce l’esigenza d’imbarcarsi nel Grand Tour? C’è da considerare che si tratta d’un fenomeno non così uniforme come lo si potrebbe credere: il viaggio formativo attraverso l’Europa era un uso codificato già a metà del Seicento (in apertura di mostra si ricorda giustamente che il termine compare per la prima volta nel Voyage of Italy di Richard Lassels, pubblicato nel 1670: a metà tra la guida e il resoconto di viaggio, l’opera forniva al lettore le descrizioni di città e monumenti che il prete inglese aveva visto in Italia), e che durò fino all’Ottocento inoltrato. Nella sala dedicata a Firenze ci s’incanterà di fronte a una veduta dipinta nel 1844 da Giovanni Signorini, padre del grande macchiaiolo Telemaco, ed esposta accanto a uno splendido dipinto (L’Arno alla pescaia di San Niccolò), uno dei migliori della mostra, d’un altro anticipatore dei macchiaioli, Lorenzo Gelati, che lo eseguì addirittura nel 1860. All’epoca, certo, si stava formando in Toscana una classe di collezionisti borghesi che apprezzavano le vedute delle loro città e sarebbero diventati i principali sostenitori dei pittori locali (i collezionisti di Signorini e Gelati erano soprattutto toscani), ma non mancava una nutrita, raffinata clientela internazionale che anche nel XIX secolo avrebbe seguitato ad acquistare paesaggi come souvenir di viaggio, mentre spesso le relazioni tra artisti e committenti si facevano più strette. Il rapporto tra Giovanni Signorini e il console inglese Christopher Webb Smith non era poi così distante da quello che legò il Canaletto a Joseph Smith, sebbene non fosse ugualmente decisivo per le sorti della sua carriera.
Il Grand Tour è dunque un costume che, per come lo s’intende nell’immaginario comune, durò un paio di secoli, coinvolse viaggiatori di diverse nazionalità (anche se tendenzialmente lo s’associa all’aristocrazia britannica del secolo dei lumi, ma i viaggiatori che prendevano la via dell’Italia venivano da ogni parte d’Europa), poteva durare qualche mese ma anche qualche anno, seguiva tragitti tradizionali che però spesso venivano variati (tipicamente il punto più a sud era Paestum, ma ci furono viaggiatori che si spinsero fino alla Sicilia), e conobbe anche brusche interruzioni (all’epoca delle guerre napoleoniche i viaggi oltre la Manica s’erano drasticamente diradati). Per mettersi in viaggio serviva avere un minimo di preparazione, serviva organizzazione, era necessario conoscere persone fidate che potessero fare da riferimento nelle varie tappe del viaggio (tanti ex viaggiatori, soprattutto inglesi, decisero di stabilirsi in Italia e avviare quella che all’epoca era una professione molto redditizia: la guida turistica!). E il Grand Tour è anche un argomento trasversale, dacché riguarda la storia della politica, la storia della letteratura, la storia dell’arte, la storia del collezionismo, la storia del turismo. La mostra del Lia lo affronta nella maniera più classica: coi paesaggi delle capitali del Grand Tour, tant’è che avrebbe potuto tranquillamente portare un titolo come Paesaggi del Grand Tour o qualcosa del genere. C’è però tempo d’evocare le atmosfere che i viaggiatori trovavano al loro arrivo in Italia: ecco allora la prima sezione della mostra, forse la più intrigante, proprio perché in grado, con una ristretta selezione d’opere, di proiettare il visitatore nell’Italia del Settecento, tra calchi di capolavori della statuaria classica, scorci che il viaggiatore poteva vedere durante il suo cammino (la campagna coi contadini descritta in un’arcadica tela di Giuseppe Zais, la costa del Levante ligure vista dal mare nel summenzionato acquerello di Turner), effetti personali che i grandtourists portavano con sé (il nécessaire viene dal vicino Museo del Sigillo), ritratti di chi in Italia c’era stato e, com’era usanza per i gentiluomini che soggiornavano a Roma durante il loro Grand Tour, si portavano a casa la propria immagine sullo sfondo delle rovine della Roma antica, meglio se dipinta da un artista di talento. L’imponente effigie di Henry Peirse, ritratto a grandezza naturale da Pompeo Batoni in prestito da Palazzo Barberini a Roma, è una delle ragioni per cui val la pena visitare la mostra: è uno dei rari ritratti di grandtourists presenti nelle collezioni pubbliche italiane, ed è uno dei migliori esempî di questa “ritrattistica turistica”, potremmo dirla, con la quale Pompeo Batoni si sarebbe procurato una costante fonte di guadagno per tutta la sua vita, e incarna con pienezza l’immagine che il viaggiatore voleva conservare di sé stesso: un giovane aristocratico (perché tale era la condizione della più parte di chi affrontava il Grand Tour), vestito con una mise elegante ma pratica e adatta al viaggio (qui una redingote rossa che copre un leggero abito bianco di seta), fiero della propria presenza a Roma, orgoglioso di farsi ritrarre vicino a quelle antichità che aveva studiato e sognato, e poco importa che fossero vere o finte, dacché il grande cratere in marmo bianco messo vicino all’Ares Ludovisi non sembra avere riscontro nella realtà, ma pare piuttosto frutto della fantasia del pittore lucchese.
S’è detto che il modus operandi del Museo Amedeo Lia è quello d’allestire mostre con pezzi di qualità che rafforzano i proprî nuclei collezionistici: vale allora la pena indugiare sulle quattro tempere di Francesco Guardi, prestate da una collezione privata, che indagano altrettanti scorci di Venezia in una fase della carriera del grande pittore settecentesco non ancora del tutto orientata verso quelle vedute brumose e malinconiche che costituiscono l’esito più innovativo della sua produzione, oppure sul delicato acquerello di Ippolito Caffi (una veduta di Castel Sant’Angelo) che, assieme a una più ingenua veduta del Pantheon di Claude Nattiez, integra sapientemente la straordinaria veduta dal Quirinale di Caspar van Wittel, il Capriccio con Colosseo di Giovanni Paolo Panini e il Capriccio con rovine di Marco Ricci, ovvero tre superlative immagini di Roma serbate nella collezione permanente del Museo Lia, per non parlare poi delle opere di Signorini e Gelati di cui s’è detto. È anche un modo d’indagare il tema dello sviluppo della pittura di paesaggio nel XVIII secolo: si va dal vedutismo descrittivo e lenticolare di Caspar van Wittel al rovinismo visionario di Giovanni Paolo Panini, dal vedutismo scientifico, cristallino ed equilibrato del Canaletto a quello atmosferico di Francesco Guardi, attraversando il vedutismo quasi tecnico di Bellotto e quello fantasioso di Marco Ricci per giungere alla presa dal vero di Signorini e alla veduta di Gelati che guarda già alla Francia di Barbizon e fa da preludio alla pittura di macchia. Una sequenza, peraltro, tutta italiana: in mostra mancano quasi totalmente paesaggi di pittori stranieri, che pure costituirono una presenza importante nell’Italia del Grand Tour.
Una sorta di manuale del vedutismo che si dispiega dinnanzi agli occhi del pubblico del Museo Lia con la scusa della mostra sul Grand Tour, con una selezione che, da questo punto di vista, è anche più completa rispetto ad altre occasioni (alla mostra di Milano, per dire, mancavano opere di Francesco Guardi): chi vuole approfondire la pittura di paesaggio in Italia nel Settecento farebbe bene a non perdersi questa rassegna forse un poco sottovalutata dal pubblico dei grandi eventi, dal pubblico che nei fine settimana si sposta per vedere le mostre. Si sa, del resto, che queste vedute precise erano molto apprezzate dai grandtourists: “proprio per la razionale restituzione dell’aspetto dei luoghi visitati”, ha scritto Cesare De Seta ch’è uno dei massimi studiosi italiani del Grand Tour, “potranno per decenni e a chilometri di distanza riverberarne il ricordo”. Un ricordo preso da lontano: ai viaggiatori interessava anzitutto riportare in patria il volto delle città che visitavano. Le viscere, invece, erano argomento che poco li appassionava, e del resto non molti erano gli artisti che s’interessavano alla realtà sociale di quei luoghi: per capire cosa accadeva per le strade delle città meglio rivolgersi a una pittura come quella di Giacomo Ceruti o di Alessandro Magnasco (entrambi peraltro presenti nella collezione permanente del Museo Lia), che però non accendevano gli entusiasmi dei grandtourists, che nella mente avevano un’immagine sicuramente più limpida dell’Italia. Un po’ come i turisti di oggi.
Dalla mostra spezzina emerge dunque un’immagine dell’Italia del Grand Tour simile a quella che doveva formarsi nel cuore e nella mente dei viaggiatori di trecento anni fa. Un’idea trasognata e ammaliante, sospesa a metà tra ciò che i viaggiatori vedevano e ciò che sognavano, una via di mezzo tra la fotografia di paesaggio e l’immagine evocativa à la Piranesi, nome peraltro assente dalla mostra, nonostante le sue incisioni avessero suscitato a tanti la voglia d’Italia. Così come, pur con un’intera sala dedicata a Napoli, si fa un cenno minimo al fascino che le rovine di Ercolano e Pompei, scoperte poco prima della metà del Settecento, avevano esercitato sui viaggiatori d’Europa che decidevano di mettersi in viaggio anche perché accesi dal desiderio di vedere queste città delle quali avevano solo sentito parlare. All’epoca, del resto, l’unico social erano l’esperienze e i resoconti di chi in Italia c’era stato.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).