La Fondazione Giorgio Conti di Carrara continua la programmazione del 2016 con quella che possiamo considerare la mostra di punta dell’anno: Città del Grand Tour dall’Hermitage e paesaggi Apuani da collezioni Italiane, a cura di Sergej Androsov e Massimo Bertozzi. È la seconda mostra di arte antica dopo quella dello scorso anno su Canova: ma sono stati compiuti dei passi avanti importanti. Se l’esposizione dell’anno passato sembrava poggiare su basi piuttosto labili e puntare quasi esclusivamente sul nome “cattura-pubblico” di Antonio Canova riducendo il resto quasi a mero contorno, peraltro tenuto in piedi senza un apparente progetto filologico, la mostra sulle Città del Grand Tour ha qualcosa da raccontare, e in particolare racconta la stagione dei grandi viaggi in Italia durante Settecento e Ottocento, quando le città italiane erano tappe imprescindibili del Grand Tour, il “giro d’Europa” che i giovani rampolli delle famiglie più raffinate (provenienti soprattutto dall’Inghilterra) compivano per formarsi, istruirsi, conoscere.
Il racconto verte non tanto sul viaggio in sé, quanto, appunto, sulle tappe del viaggio. Il titolo dice bene: “Città del Grand Tour”. E protagoniste sono infatti le città, dipinte dagli artisti che giungevano, anche loro da ogni parte d’Europa, per formarsi sull’arte che potevano ammirare in Italia, dalle vestigia dell’arte classica fino ai capolavori dei grandi del Rinascimento e oltre. La mostra, attraverso i dipinti, ricostruisce le atmosfere dell’Ottocento nelle città italiane, procedendo con un percorso che si apre con una sala “introduttiva”, per così dire, proseguendo con tre sale che raggruppano opere suddivise per città (nella prima dipinti su Roma, nella seconda si passa a Venezia e Napoli, nella terza altre città come Milano, Genova, Firenze e Pisa) e terminando nel salone che ospita invece i paesaggi apuani: se le opere della prima parte della mostra provengono dall’Hermitage di San Pietroburgo, nella seconda sezione troviamo invece dipinti e disegni che giungono da collezioni spesso inaccessibili al pubblico (Archivi di Stato, Raccolte di enti pubblici, collezioni private). Si potrebbe avvertire una sorta di netta cesura tra le due sezioni, ma non dimentichiamo che le terre apuane costituivano spesso un passaggio obbligato per i viaggiatori che giungevano dal Nord Europa diretti a Roma o nell’Italia meridionale, e non di rado accadeva che i pittori si trattenessero a dipingere ciò che osservavano nelle nostre zone, attratti dalla bellezza aspra e austera delle Alpi Apuane, dai castelli dominanti dall’alto dei colli, dalla suggestiva tranquillità dei borghi di mare come Lerici o i villaggi alla foce del Magra, dal duro lavoro dei cavatori che trasportavano il marmo dai monti fino alle spiagge dove venivano imbarcati.
Mostra “Città del Grand Tour dall’Ermitage e paesaggi apuani da collezioni italiane” |
Mostra “Città del Grand Tour dall’Ermitage e paesaggi apuani da collezioni italiane” |
Mostra “Città del Grand Tour dall’Ermitage e paesaggi apuani da collezioni italiane” |
Il percorso si apre, come detto, con una sala che funge da introduzione e che accoglie dipinti seicenteschi, a dimostrazione del fatto che il fascino dell’Italia seduceva i pittori ben prima che nascesse la pratica del Grand Tour. E si tratta di un’introduzione di grande importanza perché ci dà chiaramente conto di quali fossero gli elementi che contribuivano a rendere l’Italia una terra ambita dai viaggiatori di tutta Europa: tra questi elementi, quello di maggior interesse al tempo era probabilmente il passato romano. Abbiamo quindi un paio di vedute di Hendrik Frans van Lint, pittore che, arrivato a Roma, decise di stabilirvisi: in quella che allora era la capitale dello Stato Pontificio, van Lint fuse la sua passione per l’antichità a quella per le scene di genere, creando vivaci vedute delle rovine antiche costellate di personaggi intenti nelle più svariate attività (in mostra abbiamo due Vedute con l’arco di Tito e il Palatino a Roma risalenti ai primi decenni del Settecento). La passione per l’antico è tuttavia rappresentata anche da colui che, nella prima metà del Settecento, ne fu forse il più grande esponente, vale a dire Giovanni Paolo Pannini (i curatori della mostra hanno preferito la grafia Panini): è di sicuro l’autore più importante tra quelli presenti nella mostra, che espone un suo dipinto con le Rovine con la scena della predicazione dell’apostolo Paolo del 1744 (perché spesso le rovine antiche diventavano pretesto per ambientare scene di vario carattere, in questo caso una scena religiosa). Ulteriore elemento di interesse per gli artisti stranieri era la colorata vita delle città italiane, come ci testimoniano il Mercato in piazza del 1672 di Johannes Lingelbach o il Ciarlatano di Jan Miel, altro nome di peso della mostra.
Giovanni Paolo Pannini, “Rovine con la scena della predicazione dell’apostolo Paolo” (1744; olio su tela, 63 x 82 cm; San Pietroburgo, Hermitage) |
Roma è la grande protagonista della sala successiva: non solo vedute dei monumenti che affascinavano i visitatori di allora tanto quanto affascinano i visitatori di oggi (imperdibile la Veduta del Colosseo di un altro nome importante, il francese Hubert Robert), ma anche cerimonie pubbliche, come quella che il fiorentino Antonio Cioci rappresenta nei Festeggiamenti davanti al Palazzo del Quirinale del 1767 (è l’immagine scelta per il manifesto della mostra e raffigura, con dovizia di particolari e con un certo gusto per la narrazione, le celebrazioni del decimo anniversario del pontificato di Clemente XIII, che si affaccia da uno dei finestroni del Palazzo del Quirinale, allora residenza papale) nonché brani di religiosità popolare (il suggestivo notturno della Preghiera alla Vergine Maria dell’inglese Joseph Severn raggiunge insospettabili vette di lirismo: è sicuramente uno dei quadri più poetici della mostra). Da menzionare poi una veduta di Ippolito Caffi, una sorta di Canaletto dell’Ottocento, che rappresenta Castel Sant’Angelo con il suo ponte e, sullo sfondo, la Basilica di San Pietro: la sensibilità dell’artista riproduce sulla tela gli effetti di luce di uno splendido tramonto romano sulle acque del Tevere, dove gli edifici fanno quasi da spettacolare scenografia.
Hubert Robert, “Veduta del Colosseo” (1762-1763 circa; olio su tela, 98 x 135 cm; San Pietroburgo, Hermitage) |
Antonio Cioci (Cioci Fiorentino), “Festeggiamenti davanti al Palazzo del Quirinale” (1758; olio su tela, 74,5 x 96,5 cm; San Pietroburgo, Hermitage) |
Nella sala dedicata a Venezia e a Napoli prevalgono le vedute: evidentemente, la meraviglia che i pittori dovevano provare dinnanzi ai paesaggi campani o alla magia di una città costruita sulla laguna era tale che ogni ulteriore presenza poteva quasi essere considerata superflua. Ecco quindi una romantica Veduta di Montesarchio, un borgo non lontano da Napoli, eseguita nel 1791 dal tedesco Jakob Philipp Hackert, che per diciassette anni, dal 1782 al 1799, fu attivo presso la corte di Ferdinando di Napoli, ma anche una Veduta sul Canal Grande realizzata da un veneziano, Antonio de Pian, un vedutista formatosi sulla pittura del Canaletto. La sezione su Venezia è interessante anche perché ci propone l’unico dipinto in mostra che ci testimonia un viaggio di una famiglia dell’aristocrazia europea: è La famiglia Tolstoj a Venezia dipinta da un altro veneziano, Giulio Carlini, nel 1855. Nel quadro osserviamo i membri della famiglia del conte Ivan Tolstoj (si trattava di un altro ramo rispetto a quello da cui proveniva il grande scrittore Lev Tolstoj), membro della corte dello zar Alessandro I di Russia, in attesa di salire su una gondola: questi dipinti venivano espressamente richiesti dai viaggiatori che, portando a casa opere come quella esposta a Carrara, intendevano conservare un ricordo della loro esperienza in Italia. Da citare, inoltre, un Concerto in gondola del tedesco Friedrich Nerly: sullo sfondo di un tramonto che inonda di rosso la laguna di Venezia, Nerly raffigura in primo piano due imbarcazioni su cui trovano posto diversi giovani intenti a suonare e a cantare. Anche sapere che nelle città italiane si potevano respirare queste atmosfere gioiose e felici era motivo d’attrazione per i viaggiatori: basti pensare che, in una sua lettera, il grande Cechov fornisce un’ammaliante descrizione di una serata veneziana, parlandone in toni entusiastici.
La sala successiva ci fa compiere un vero “giro d’Italia” grazie a diverse opere, tra cui si segnalano un Interno della galleria del Camposanto di Pisa di Giovanni Migliara (siamo nel 1831), con il pittore che si autoritrae nell’angolo destro del dipinto, una curiosa Veduta sulla piazza del Duomo del lombardo Angelo Inganni che ci fa quasi vivere una tipica giornata nella Milano dell’Ottocento, e ancora i delicati acquerelli (gli unici in mostra) degli svizzeri Rudolf Müller e Friedrich Horner, che invece ci portano a Genova offrendoci vedute della città da terrazze di lussuose ville o giardini con frondosi pergolati, e infine le vedute di Firenze di un altro svizzero, Friedrich Wilhelm Moritz.
Carlo Bonavia, “Il golfo di Baia” (seconda metà del XVIII secolo; olio su tela, 83 x 151 cm; San Pietroburgo, Hermitage) |
Rudolf Müller e Friedrich Horner, “Veduta di Genova da Villa Negri” (1830-1840 circa; acquerello su carta, 31,3 x 43,7 cm; San Pietroburgo, Hermitage) |
L’ultima sezione, come anticipato, è quella riservata ai paesaggi apuani da collezioni italiane. Una vera “mostra nella mostra”, che espone opere di artisti giunti da lontano (come William Paget ed Elizabeth Christiana Fanshawe) e maestri italiani (Saverio Salvioni, Antonio Puccinelli e, soprattutto, Giovanni Fontanesi, presente in mostra con un elevato numero di opere che ci testimoniano l’amore che il pittore reggiano nutriva nei confronti delle nostre terre, e che offrono una rara occasione per approfondire la sua arte) con un unico denominatore comune: rappresentare la bellezza del territorio di Massa e Carrara e dintorni con disegni, acquerelli, dipinti.
Giovanni Fontanesi, “Trasporto di marmo dalle cave apuane” (1845; olio su tela, 49,5 x 62,5 cm; collezione privata) |
Una mostra intelligente, che merita una visita approfondita: l’audioguida offerta col biglietto d’ingresso (il cui costo a taluni potrebbe sembrare elevato, ma la visita ripaga), sebbene a volte ripeta quello che si trova scritto nei pannelli, è uno strumento utile per farsi condurre alla scoperta dei dipinti, perché i testi sono stati scritti con una certa predisposizione nei confronti della narrazione, e oltre a snocciolare dati sui dipinti la voce tenta anche di raccontare la storia che c’è dietro al quadro (ecco, se proprio vogliamo trovare un difetto, comune anche ad altre mostre di Palazzo Cucchiari: a volte non si capisce bene se su un pannello stiamo leggendo una scheda di catalogo, o se nel catalogo sono stati inseriti i testi dei pannelli). Se vogliamo è anche una mostra originale: mostre sul Grand Tour se ne sono già viste a bizzeffe, ma non capita spesso di incontrare esposizioni su questo argomento che prediligono focus su un’unica collezione (quella dell’Hermitage) e che, da una veduta allargata, restringono poi il discorso per legare i temi della mostra al territorio, compiendo peraltro un’ulteriore operazione di enorme interesse. Si muove spesso l’accusa, specialmente a certi grandi eventi, di non tenere in considerazione alcuna il territorio entro cui si svolgono: questo a Palazzo Cucchiari non è mai accaduto e non accade neppure per Città del Grand Tour che, con avvedutezza, ci rende edotti del fatto che le nostre zone, il territorio che ospita la mostra, erano una sorta di passaggio obbligato per quanti si recavano verso Roma o Firenze. E forse prima della mostra neppure riuscivamo a immaginare quanto il nostro territorio, oggi bistrattato e talvolta anche disprezzato fuori misura, riuscisse a sedurre viaggiatori che qui arrivavano da luoghi che probabilmente non saremmo neanche in grado di collocare in modo corretto su una cartina geografica.
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Uno dei pannelli illustrativi |
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).