La mostra Tota Italia: propaganda augustea senza filtri al Quirinale


Recensione della mostra “Tota Italia. Alle origini di una nazione” (a Roma, Scuderie del Quirinale, dal 14 maggio al 25 luglio 2021)

Chissà se Ottaviano Augusto, quando prima di morire diede ordine di far scrivere e incidere le sue Res gestae, le imprese compiute (una sorta di autobiografia propagandistica), sul suo Mausoleo e poi in piazze e monumenti in giro per l’impero (la versione meglio conservata ci arriva da Ankara), avrebbe mai pensato che duemila anni più tardi quel documento sarebbe stato utilizzato come fonte storica principale per una mostra nella sua Roma, al Quirinale, la casa degli Italiani. Anche solo immaginare che un testo di squisito intento politico, utile a mantenere vivo il ricordo che Augusto aveva voluto costruire di sé in vita, possa essere il nocciolo della mostra archeologica più ambiziosa del 2021 nella capitale d’Italia, potrebbe sembrare strano. Eppure è esattamente ciò che accade con la mostra Tota Italia. Alle origini di una nazioneallestita alle Scuderie del Quirinale, organizzata da Ales e dal Ministero della Cultura e curata da Massimo Osanna (Direzione Generale Musei) e Stéphane Verger (Museo Nazionale Romano).

Alle origini di una nazione? I limiti della mostra 

L’intero allestimento è basato su due tesi, della cui bontà i curatori appaiono convinti: primo, l’Italia pre-Romana dal IV secolo a.C. in poi tende, pur in modo non lineare, verso la romanizzazione, e le sue culture possono essere descritte in chiave romanocentrica. Questo processo di romanizzazione, più o meno violenta, arriva a compimento con l’unificazione della penisola con l’impero di Augusto, nel 17 a.C. Secondo, quel momento di unificazione peninsulare è il diretto antecedente dell’unificazione nazionale del 1861, che più volte nei pannelli e nel catalogo della mostra viene chiamata “riunificazione”.

Sono due tesi non recenti, che hanno avuto grande fortuna nel XIX secolo (non v’è altro momento nella storia, diverso da quello romano, in cui la penisola fosse stata unita sotto lo stesso Stato), e che sono state ancor più rivitalizzate sotto il Fascismo, che investì molto sul mito di Augusto, con la mostra del 1937e l’apertura al pubblico del Mausoleo che, non a caso, torna a riaprire quest’anno, in corrispondenza di questa mostra. Ma sono entrambe tesi datate e parziali, che meriterebbero, perlomeno, un approfondimento critico. Parlare di “nazione” italiana nel I secolo a.C. significa proiettare una categoria contemporanea a un passato in cui gli stati-nazione non esistevano, neppure nell’immaginazione; considerare l’Italia di Augusto come madre ideale dell’Italia contemporanea ha diversi limiti, a partire dal fatto che le isole non ne facevano parte. Tuttavia questi aspetti, e molti altri, nella mostra non vengono presi in considerazione.

La mostra si apre anzi con una citazione (la prima di tante) delle Res gestae, che recita “Iuravit in mea verba tota Italia sponte sua” (tutta l’Italia giurò in nome mio spontaneamente), riferendosi al 32 a.C., quando in guerra contro Antonio, Ottaviano ottenne l’appoggio militare di tutto l’Occidente romano. Nella stessa sala, un’infografica mostra l’espansione di Roma nella penisola tra il IV secolo a.C. e il 17 a.C. (occorre peraltro notare che gli altri attori sono solo nomi non colorati, per cui per lo spettatore poco informato è impossibile capire chi fossero i soggetti culturali con cui la città latina si confrontava, e in che termini). L’infografica si conclude con tutta l’Italia contemporanea colorata con lo stesso colore, anche le province di Sicilia, Sardegna e Corsica, che pure non facevano parte dell’”Italia” augustea, ma erano, appunto, province. Un’infografica dunque fuorviante. Si è scelto di non esporre il passo delle Res gestae successivo a quello citato, che spiega come giurarono in nome suo anche “le province di Gallia, Spagna, Africa, Sicilia e Sardegna”: certo la comprensione dello spettatore non ne beneficia, trovandosi completamente immersa nelle tesi caldeggiate dai curatori.

Ci sono altri elementi che fanno pensare a scelte, più o meno esplicite, volte a rimuovere elementi poco funzionali alla narrazione semplificata che si voleva offrire ai visitatori. La più evidente è la rimozione dell’elemento punico: tra le culture elencate come “unificate” sul suolo italico da Augusto, sono incluse quelle greche e celtiche ma, benché si scrivesse e parlasse in punico (una lingua semitica) in Sicilia e Sardegna almeno fino al I secolo d.C., non solo non vi è alcun reperto proveniente da queste regioni alla mostra (lo stesso vale per Piemonte e Lombardia, e può essere dovuto a motivi logistici) ma, ben più curiosamente, tra gli alfabeti dell’Italia preagustea, il fenicio non è neppure menzionato. Ancora una volta, una rimozione della complessità, ed è solo il caso più evidente. 

Mostra Tota Italia
Mostra Tota Italia


Mostra Tota Italia
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Mostra Tota Italia
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Mostra Tota Italia
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Mostra Tota Italia
Mostra Tota Italia

La mostra in breve

La mostra contiene una varietà di pezzi straordinari, che normalmente sono sparsi in giro per la penisola, da Melfi ad Aquileia, da Luni a Taranto. Una tale varietà e ricchezza è forse l’unico punto a favore di questa mostra: per chi ami l’arte antica o per un ricercatore diviene un’occasione importante per visionare nello stesso luogo reperti molto diversi tra loro per cronologia e luogo di provenienza. Ma purtroppo solo un occhio esperto riuscirà a trarre informazioni dal confronto dei pezzi: i pannelli espositivi non dànno al visitatore gli strumenti per cogliere la complessità dei processi culturali che hanno prodotto quelle espressioni materiali esposte. L’esposizione è divisa per temi (i riti funerari, le lingue, i culti, i contatti con il Mediterraneo, le guerre, l’organizzazione del territorio, religioni e lusso - insieme -, i volti), e in ogni sala sono raccolti reperti anche molto diversi tra loro per cronologia e origine culturale. Sono esposti, tra gli altri, i grifoni in marmo di Ascoli Satriano (sala 1); i reperti del ricchissimo corredo della “tomba dei due guerrieri” di Melfi (sala 2); corone e bracciali in oro da una tomba della necropoli di Montefortino d’Arcevia (Ancona, sala 2); la triade capitolina di Guidonia Montecelio (sala 3); il modello di fegato etrusco per pratiche divinatorie, da Piacenza (sala 3); la statua di Mater con dodici figli da Capua (sala 4); la statua di Marsia esposta a Paestum (sala 7); il fregio con scena di fondazione di Aquileia (sala 7); l’Apollo lampadoforo di Pompei (sala 8); stipi votive, decorazioni, gioielli, iscrizioni in lingua etrusca, osca, venetica… solo per citare i reperti che arrivano da fuori Roma. Altri pezzi unici ed eccezionali arrivano dai musei statali romani (Villa Giulia, le Gallerie Barberini Corsini, le Terme di Diocleziano, Ostia Antica…). 

Camminando per le stanze però non si ha l’impressione di un allestimento organico, in cui ogni reperto dialoga con quello vicino e con l’ambiente, ma più di un’esposizione in cui si è messo insieme un po’ tutto il possibile, a cominciare da quei reperti di straordinaria notorietà che sembrano quasi fare da “promoter” dell’esposizione pur non essendo essenziali per il racconto. E che il simbolo della mostra sia il pugile a riposo, della collezione del Museo Nazionale Romano, co-organizzatore della mostra, non fa che confermare la sensazione che si sia scelto di arricchire il catalogo anche al costo di spostare solo di pochi chilometri reperti di grande notorietà.

Come spesso accade, occorre chiedersi quanto fosse opportuno privare alcuni musei del loro reperto principale e più attrattivo proprio per questa mostra, che certo poteva farne a meno (ben poco hanno a che fare con l’unificazione romana dell’Italia molti dei reperti esposti, che paiono più che altro arricchire le stanze), e proprio nell’estate in cui si sarebbe dovuto incentivare il turismo interno, lontano dai grandi attrattori. Vale per i musei lontani da Roma ma anche per quelli nella città, in particolare il Museo Nazionale Romano, che presta alla mostra uno dei suoi pezzi più noti, il “pugile a riposo”, e molti altri reperti notevolissimi (sono più di 20 sui 170 esposti alla mostra), privandosene fino alla chiusura della stessa. 

Il visitatore informato sulle vicende romane potrà forse notare un parallelismo tra le operazioni condotte dagli eserciti antichi, che portavano a Roma i pezzi preferiti, e le scelte della Direzione Generale Musei, che ha deciso di portare nella Capitale reperti che avrebbero meritato di restare dove sono stati ritrovati e lì valorizzati. 

Il saccheggio e la violenza però, che pure furono elementi essenziali nella romanizzazione della Penisola, sono appena accennati nella mostra: se ne parla diffusamente solo in una stanza al secondo piano, dedicata alle “guerre”. Pezzi dell’artigianato tarantino, che ebbe un brutale stop dopo che la città pugliese venne sottomessa a Romaal termine di tre anni d’assedio nel 272 a.C., vengono esposti accanto a reperti del secolo successivo provenienti da territori in cui la romanizzazione avvenne senza annientamenti. L’insurrezione prima di Fregellae, nel 125 a.C., che chiedeva la cittadinanza romana (distrutta e saccheggiata), poi dell’intero blocco di alleati italici, che nel 91-88 a.C., dopo tre anni di feroce guerra, pur sconfitti ottennero la cittadinanza romana (mossa necessaria a Roma per vincere l’insurrezione), vengono in entrambi i casi appena menzionati: il fatto che siano gli alleati della Lega italica, in chiave antiromana, a battere moneta con il nome “ITALIA”, viene accennato senza dare al pubblico nessuno strumento per la comprensione dell’evento. Eppure se “tutti gli Italici oggi sono Romani”, come scrive Strabone in età augustea e come citato dalla mostra, molto è dovuto a quella concessione, ottenuta a causa di e al termine di una ribellione. 

I curatori hanno invece pensato che sulle sconfitte militari si potesse ironizzare, piazzando il pugile a riposo (statua di fattura greca, con ogni probabilità portata a Roma dopo una vittoria militare) sotto la citazione oraziana “la Grecia conquistata, conquistò il selvaggio vincitore e le arti portò nel Lazio agreste”. E non lasciano spazio a dubbi, scrivendo in un pannello che i popoli italici, lungi dall’aver accettato il nuovo potere romano per i motivi più disparati, dal vantaggio, alla paura, all’ignoranza, al desiderio di rivalsa, alla sconfitta militare, traevano all’unanimità “vantaggi e benefici dalla partecipazione attiva al nuovo impero mediterraneo”. Senza fare distinzione tra classi dominanti e dominate, tra popoli che avevano scelto l’integrazione e che l’avevano subita, e tra chi, molto semplicemente, uscì sconfitto e dunque non potè partecipare a nulla. Ancora una volta, una semplificazione in nome di una narrazione indirizzata.

Corredo della Tomba dei due guerrieri, corazza anatomica ed elmo a bottone di dipo Montefortino (III secolo a.C.; bronzo; Melfi, Museo Archeologico Nazionale del Melfese)
Corredo della Tomba dei due guerrieri, corazza anatomica ed elmo a bottone di dipo Montefortino (III secolo a.C.; bronzo; Melfi, Museo Archeologico Nazionale del Melfese)


Sostegno di mensa (trapezophoros) con due grifoni che attaccano un cerbiatto (seconda metà del IV secolo a.C.; marmo greco insulare; Ascoli Satriano, Museo Civico)
Sostegno di mensa (trapezophoros) con due grifoni che attaccano un cerbiatto (seconda metà del IV secolo a.C.; marmo greco insulare; Ascoli Satriano, Museo Civico)


Tabula Cortonensis (II secolo a.C.; bronzo; Cortona, Museo dell'Accademia Etrusca e della Città di Cortona)
Tabula Cortonensis (II secolo a.C.; bronzo; Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona)


Triade Capitolina (II secolo d.C.; marmo; Guidonia Montecelio, Museo Civico Archeologico Rodolfo Lanciani). Foto di Giovanni Coccia
Triade Capitolina (II secolo d.C.; marmo; Guidonia Montecelio, Museo Civico Archeologico Rodolfo Lanciani). Foto di Giovanni Coccia


Statua di Apollo lampadoforo (I secolo a.C.; bronzo, Pompei, Parco Archeologico). © Archivio dell'Arte - Foto Luciano Marco Pedicini
Statua di Apollo lampadoforo (I secolo a.C.; bronzo, Pompei, Parco Archeologico). © Archivio dell’Arte - Foto Luciano Marco Pedicini


Statua di Marsia con ceppi da schiavo (III secolo a.C.; bronzo; Paestum, Parco Archeologico di Paestum e Velia)
Statua di Marsia con ceppi da schiavo (III secolo a.C.; bronzo; Paestum, Parco Archeologico di Paestum e Velia)

Una nuova età dell’oro?

La mostra si chiude con quella che è forse la più politica delle stanze, parlando della “nuova età dell’oro” inaugurata dal regime augusteo. Con espressioni come “la fiducia nella guida di Augusto e la convinzione che il nuovo Stato da lui instaurato sarebbe durato in eterno di diffusero ovunque: la pace interna, la prosperità, la solidità territoriale erano sotto gli occhi di tutti”. Che Augusto conobbe un’opposizione interna (che pur riuscì a vincere garantendo continuità al regime da lui instaurato) non viene neppure accennato. Ed è la giusta chiusura per una mostra basata su un mito, quello augusteo, e quello dell’Italia unita e romana: una mostra che si apre e si chiude, non a caso, con due rappresentazioni del mito della nascita di Roma, entrambe di II secolo d.C., mentre tutti gli altri reperti arrivano al massimo al I secolo d.C.: quasi a dire che, ex post, tutto ciò che viene mostrato era scritto nelle stelle, nel mito. 

La mostra, in sintesi, rappresenta nella migliore delle ipotesi un’occasione persa, nella peggiore l’ennesimo megafono per una versione della Storia troppo parziale. Pochi sono i motivi che possano giustificare la visita, al costo di 15 euro. Essere fanatici di Augusto (ma forse neppure in quel caso, dato il basso approfondimento offerto), oppure, come sopra menzionato, avere un interesse o una necessità professionale che spinga a voler vedere nello stesso luogo questa esposizione di reperti, pur nella sua disorganicità. E tutto questo è un enorme peccato. Perché è vero che quel momento della storia della penisola fu fondamentale, a livello pratico e ideologico, per arrivare a ciò che siamo oggi: analizzare in una mostra il mito che Augusto ha voluto costruire, la sua propaganda, la sua narrazione, e come la stessa fu adoperata dal nascente stato unitario e dal fascismo poi sarebbe stato non solo interessante, ma necessario, dopo 170 anni di unità nazionale. Ma non c’è spazio per questi temi: la mostra si adegua a narrazioni datate, copiando e incollando dalle Res gestae, e saltando a piè pari l’intero dibattito pluridecennale sulla nascita delle nazioni, sull’utilizzo della storia romana e dell’imperialismo romano a fini propagandistici, sulla necessità di dare voce a chi quell’occupazione la subì, o alle scelte dei tanti popoli entrati in contatto con Roma, con la sua cultura, con la sua forza militare. 


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Leonardo Bison

L'autore di questo articolo: Leonardo Bison

Dottore di ricerca in archeologia all'Università di Bristol (Regno Unito), collabora con Il Fatto Quotidiano ed è attivista dell'associazione Mi Riconosci.





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