Più di cinquant’anni son passati da quando Dario Durbè poteva ancora scrivere che Raoul Dal Molin Ferenzona era artista “purtroppo dimenticato e difficilmente ricostruibile a causa della carenza di notizie biografiche e di documentazione”. Si può dire che non sia più così: sebbene sia tuttora poco o per niente nota al grande pubblico, la personalità di Ferenzona, negli ultimi cinque decennî, ha assunto una fisionomia solida, robusta, sicura, per merito del gran lavoro ch’è stato svolto anzitutto da Emanuele Bardazzi, massimo esperto dell’artista, da storici dell’arte come Francesca Cagianelli, e da studiosi di letteratura del primo Novecento per i quali Ferenzona è una presenza inevitabile. Una giovane italianista della University of North Carolina, Danila Cannamela, lo ha chiamato “artista maudit”: aggettivo abusato, ma che ben s’attaglia alla figura di Raoul Dal Molin Ferenzona, pittore e incisore (anche se migliore come incisore che come pittore) dalla vita tormentata e inquieta, dalle fortune alterne, dagl’interessi varî ed eclettici, dall’arte proteiforme e pronta a bere da qualunque sorgente, sempre però seguendo una saldissima convinzione: l’arte, per Ferenzona, non è indagine del fenomenico, non è registrazione del reale, non è ricerca dell’impressione. Per Ferenzona, l’arte è forma dei sogni, è poesia che si fa carne, è immagine d’una fantasia, è pensiero dipinto, disegnato, inciso. “L’immaginazione rende reale ciò che inventa”: era il titolo del sesto dei Paradoxes de la Science Supreme di Éliphas Lévi, occultista e studioso d’esoterismo che Ferenzona apprezzava e che probabilmente avrà sicuramente citato nelle tante discussioni coi suoi colleghi, nella Roma dei primi anni del Novecento, dove l’artista, natali fiorentini, lontane origini aristocratiche e cultura cosmopolita, s’era trasferito già nel 1904, a venticinque anni, per veder da vicino le ricerche di Giacomo Balla.
Gli esiti di tanto lavoro sono riassunti in una mostra che, fino al 15 marzo 2025, la Pinacoteca Comunale di Collesalvetti dedica a Ferenzona (Raoul Dal Molin Ferenzona. Enchiridion Notturno. Un sognatore decadente verso l’occultismo e la teosofia, ideata e curata da Emanuele Bardazzi e Francesca Cagianelli) per ricostruire e rileggere le tappe della vicenda di questo artista singolare, indagato per la prima volta in due piccole mostre che si tennero tra il 1978 e il 1979 a Roma e Livorno, con la curatela di Mario Quesada, seguite poi dalla monografica di Bardazzi organizzata da Gonnelli a Firenze nel 2002. Per completezza del percorso espositivo, per ampiezza del catalogo e per mole d’inediti, la mostra di Collesalvetti è tuttavia la più importante che sia mai stata dedicata sinora all’artista toscano, ch’emerge dalla rassegna non solo come un “sognatore decadente”, ma anche come un singolare protagonista delle vicende del suo tempo, anche se a tutta prima potrebbe sembrare un comprimario minore, un inseguitore attardato, un gregario agitato da fremiti simbolisti anche a prima guerra mondiale conclusa, un preraffaellita di provincia folgorato dal verbo di Rossetti e Hunt quando ormai quasi tutti i membri della confraternita erano da anni sotto terra. Sì, spesso s’è trovato a inseguire, ma si farebbe torto a Ferenzona se non lo si considerasse anche artista capace d’intuizioni fulminee che nella sua carriera alternò a tenaci ostinazioni, se non lo si considerasse un visionario aperto all’Oriente, un artista “dotato di rara versatilità d’ingegno e di vasta coltura” come venne definito al suo tempo, un letterato in grado di disegnare o un disegnatore in grado di scrivere. Se n’era accolto anche Enrico Crispolti che Ferenzona, pur provenendo da una formazione simbolista di stampo marcatamente dannunziano, fu in contatto con le avanguardie (punto, questo, che la mostra tocca senza indugi).
Può essere che alla sua fortuna non abbia giovato questa sua continua ibridazione, questa sua propensione alla contaminazione, questa vicinanza alla letteratura che ha inevitabilmente condizionato la sua ricezione critica: presentato talvolta come poeta ancor prima che incisore, talaltra come poeta tout court, alle volte considerato miglior disegnatore che poeta, altre ancora un semplice illustratore, Raoul Dal Molin Ferenzona probabilmente ha pagato lo scotto della sua versatilità e del suo eclettismo. È tuttavia in ambito letterario che si consuma la sua formazione, ed è considerando la sua abituale, lunga frequentazione del milieu letterario del suo tempo che si possono cogliere i frutti più maturi e più succosi del suo lavoro da artista. Il titolo stesso della mostra riflette questa sua passione: l’enchiridion era anticamente un piccolo manuale, da leggersi tenendolo in mano. Un “tascabile”, potremmo dire, adoperando un termine anacronistico, ma che forse può render l’idea. Nel 1923, a Livorno, Ferenzona dava alle stampe un libro stravagante, misterioso, concepito assieme a un altro simbolista, quel Charles Doudelet che, arrivato dal Belgio sulle rive del Tirreno, aveva contribuito a suscitare anche a Livorno l’interesse per l’esoterico (e a Doudelet, converrà rammentare, venne dedicata un’attenta mostra sempre alla Pinacoteca di Collesalvetti). Quel libro s’intitolava AÔB (Enchiridion notturno), venne presentato durante una Mostra del Libro organizzata nelle sale della galleria livornese Bottega d’Arte, e rappresenta uno dei vertici della produzione stampata di Ferenzona, oltre che uno degli elementi che più lo legano agli ambienti culturali livornesi. Quel libro arrivava però dopo altre esperienze.
A Roma, nel 1904, Ferenzona era arrivato perché attratto, s’è detto, dalle ricerche divisioniste di Balla. Una volta arrivato nella capitale, tuttavia, i suoi interessi si spostarono. Cercava Giacomo Balla, avrebbe trovato Sergio Corazzini. Col poeta crepuscolare, Ferenzona strinse un’amicizia di brevissima durata (Corazzini, più giovane ma più malato, sarebbe morto a soli ventitré anni, nel 1907, devastato dalla tubercolosi), ma d’intensità straripante. “Fratello d’arte”, lo avrebbe chiamato Ferenzona in una prosa dedicatagli dopo la scomparsa. Non sappiamo come Ferenzona dipingesse al momento dell’incontro con Corazzini, ma sappiamo (da quello che scriveva appena ventenne, dalle memorie di chi era con lui già a quel tempo) ch’era già interessato all’occulto e all’esoterismo: la più precoce prova pittorica presente in mostra, una Donna con cappello e pipistrelli del 1906, un poco ingenua ma molto convinta, indica con manifesta chiarezza quale fosse la disposizione di Ferenzona in quegli anni, una disposizione che, pur con frequenti modifiche dei punti di riferimento (anzitutto quelli artistici), avrebbe sostenuto quasi tutta la sua produzione: quella di Ferenzona era un’anima che prediligeva, scrive Bardazzi in catalogo, “linguaggi sognanti, misteriosi e suggestivi, quel tipo di estetica che esprimeva sensazioni vaghe e non formulate”: era un artista che “dichiarava il suo sentimento d’appartenenza al variegato coté simbolista internazionale di cui i preraffaelliti, specie di seconda generazione, erano stati i precursori, dando origine a filiazioni eterodosse, più complicate e anticonformiste nella stessa Inghilterra da parte di artisti queer vicini a Oscar Wilde come Charles Ricketts e Aubrey Beardsley”. Ferenzona non era isolato né tanto meno attardato: il fascino per l’esoterismo, in quegli anni, indirizzava le ricerche degli artisti di mezza Europa, era la risposta al grigiore dell’industrializzazione, al materialismo della società borghese, all’alienazione dell’esistenza in un mondo che andava verso la massificazione. E lo sguardo rivolto verso esperienze precedenti era frutto d’una precisa convinzione: “Nessun artista moderno”, avrebbe scritto lo stesso Ferenzona nel 1923, “può vantarsi di una completa originalità: la potenza dei grandi uomini del passato pesa sul nostro cervello, anche su quello di un futurista”.
Quest’adesione a un simbolismo di marca preraffaellita non fu un momento isolato nella carriera di Ferenzona: la fascinazione per quel linguaggio scorre lungo almeno quattro decennî, dall’incisione Gravis dum suavis, opera del 1909 che il pubblico della Pinacoteca di Collesalvetti trova nella seconda sala, dolce ritratto d’una suora che guarda ai fiamminghi del Quattrocento e porta il titolo d’un motto dannunziano dal Trionfo della morte, per arrivare a opere degli anni Trenta come Fulvia e un’Annunciazione che mescolano, pur con qualche rigidezza, il ricorso a fonti del primo Rinascimento col linguaggio onirico del simbolismo francese, passando per un singolare inedito quale è il trittico Ave Maria d’evidente impronta britannica. Nel mezzo, Ferenzona aveva conosciuto tanto altro, e lo s’evince aggirandosi per la prima sala della mostra, tutta dedicata ai dipinti: la Battaglia delle Meduse, per esempio, è un lavoro che si presume nato dal confronto col simbolismo sottomarino di Gino Romiti (altro protagonista d’una bella mostra che s’è tenuta a Collesalvetti tra il 2022 e il 2023), in una Livorno debitrice delle ricerche di Doudelet. Ancora, Gli occhi degli angeli e La vetta degli anni Venti certificano l’interesse di Fenzona per le ricerche internazionali dei cubofuturisti, Krishna che suona il flauto del 1933 sancisce il massimo avvicinamento alle filosofie orientali, assieme al probabile ritratto, del 1930 circa, di Jiddu Krishnamurti, il filosofo indiano vicino alla Società Teosofica che, negli anni Trenta, si spogliò dei propri beni, si sciolse dall’appartenenza a qualunque organizzazione, nazionalità e religione e passò il resto della propria esistenza a condividere la propria visione del mondo, tutta volta alla ricerca della libertà da qualunque condizionamento. Non manca neppure una meditazione sul realismo magico (il Ritratto di vecchia signora), così come non mancano sguardi rivolti al simbolismo belga: le Maschere del 1935 circa riecheggiano la produzione di James Ensor, l’incisione Il n’y a rien de plus beau qu’une clef, tant qu’on ne sait pas ce qu’elle ouvre reca nel titolo una citazione di Maurice Maeterlinck, e poi, nella seconda sala, due tondi inediti, una coppia di disegni a matita a pastello enigmatici e rarefatti che evocano le atmosfere di Fernand Khnopff, altro ineludibile punto di riferimento di Ferenzona, che cercò anche la sua Bruges a Orvieto, dove risiedette per qualche tempo tra il 1908 e il 1909 su impulso dell’amico Umberto Prencipe che là s’era trasferito (Le orvietane, assieme ai due disegni a matita, segnano forse il punto di massimo avvicinamento a Khnopff). E se per il grande Giancarlo Marmori, Khnopff era una “specie di D’Annunzio o di Wilde in campo plastico”, si potrebbe dire che Raoul Dal Molin Ferenzona era una specie di Sergio Corazzini che si muoveva tra pittura e incisione. La vena intima, malinconica, crepuscolare, oscura che ammanta i lavori di Raoul Dal Molin Ferenzona scorre fin dal primo autoritratto (lavoro del 1904-1907, eseguito pertanto quando l’artista aveva l’opportunità di frequentare il letterato), e innerva gran parte della sua produzione. “Ama, dunque, l’ombra, e fuggi la luce ché, a simiglianza del tempo, essa è ingenuamente maligna e terribilmente giusta. E con l’ombra, ama il silenzio, poiché l’ombra delle parole è il silenzio. Amalo come Calvario delle tue Imagini, come Croce del tuo Sogno, come Tomba della tua anima. Saprà darti una stella per una parola, un’aquila per un grido, un pianto per un ricordo, sempre. Tu non vivrai che di Passato: ti sarà in tal modo, assai meno grave fuggir la speranza e la vana felicità”: così scriveva Corazzini nella Esortazione al fratello. E l’arte di Raoul Dal Molin Ferenzona è un’arte d’ombra e di silenzio. Anche nella scelta d’alcuni soggetti s’intravede il riflesso dell’amicizia con Corazzini, al quale poi l’artista, nel 1912, avrebbe dedicato La ghirlanda di stelle, visionaria raccolta di poemi illustrati: Bardazzi ha notato che la precarietà esistenziale (oltre che fisica) del poeta lo aveva portato a interpretare la sua vita “come il martirio di un predestinato in una sorta di Imitatio Christi” che spinse lo stesso Ferenzona a “interiorizzare la Passione di Cristo rispecchiando in essa le proprie tribolazioni e la propria evoluzione spirituale” (e questo fin dalla Via Crucis del 1919).
Inevitabile che una visione tanto fosca dell’esistenza si riverberasse anche nella concezione che Ferenzona aveva della donna, una concezione sulla quale tuttavia pesava anche l’interesse per Baudelaire: ora femmina demoniaca e luciferina (Le sorelle), ora musa distante, inavvicinabile, intoccabile, avvolta da una caligine di mistero (Donna con falena), ora fredda manipolatrice che domina l’uomo, lo rende schiavo, suo burattino, come si vede in The puppets, una delle migliori incisioni di Ferenzona, debitrice della Dame au pantin di Rops, e nella quale s’è voluto vedere il ritratto della sua bellissima moglie Stefania Salvatelli, dal quale si sarebbe poi separato (la vita d’un artista come Ferenzona, del resto, non doveva essere facilmente sopportabile), ma nella quale Ferenzona vedeva una sorta di proprio ideale femminile, financo salvifico, dacché la donna, nelle sue opere, è anche vergine salvatrice (Ferenzona avrebbe dedicato anche una cartella d’incisioni, Vita di Maria, alla Madonna). In generale, per Bardazzi, i ritratti femminili di Ferenzona paiono aderire a quell’ideale baudeleriano “ambiguo”, “di voluttà circonfusa di tristezza, tanto più bello in quanto malinconico, stanco, carico di rimpianto e di amarezza rifluente”.
Una sala della rassegna è tutta tesa a esplorare il rapporto di Raoul Dal Molin Ferenzona con Livorno: personalità eminente, assieme a Doudelet, a Romiti, a Benvenuto Benvenuti, a Gastone Razzaguta, di quel filone esoterico e spiritualista dell’arte livornese che cercò, a inizio Novecento, di proporre un’alternativa rispetto alla linea fattoriana, postmacchiaiola, e che trovò un luogo di ritrovo privilegiato nel Caffè Bardi (anche Renato Natali, sulle prime, fu attratto dagl’interessi del gruppo: I ladri del 1914 sono il punto di massima tangenza tra Natali e Ferenzona), Ferenzona fu protagonista a Livorno, dalla mostra ai Bagni Pancaldi del 1916 alle tante partecipazioni ai palinsesti espositivi di Bottega d’Arte fino alla presenza di Ferenzona alla sesta e alla settima mostra del Gruppo Labronico nel 1923 e nel 1924 (nella prima avrebbe esposto le tavole della Vita di Maria, nella seconda cinque opere). È a Livorno che Ferenzona, come s’è ricordato, pubblica, per i tipi della casa editrice Belforte, con la quale avrebbe più volte collaborato, il libro AÔB (Enchiridion notturno) che dà il titolo alla mostra, raccolta, dedicata a Fryderyk Chopin (che Ferenzona definiva “indimenticabile, indivisibile, invisibile fratello”), di dodici poesie illustrate da altrettante incisioni a punta di diamante, dodici “miraggi nomadi” che, ha scritto Francesca Cagianelli nel suo saggio in catalogo, dedicato proprio alla presenza livornese di Ferenzona, “amplificavano la vocazione notturnista ferenzoniana in direzione rosacrociana”. Il contributo di Francesca Cagianelli dà anche conto d’un episodio, finora sconosciuto, ch’è riemerso da una ricerca seguendo una traccia negli archivî della Galleria Nazionale di Roma: Ferenzona, a Livorno, fu anche scenografo d’alcuni spettacoli musicali per bambini a tema fiabesco (Nel regno delle farfalle, Natale in soffitta e Il giardino incantato) che furono inscenati al Teatro dei Piccoli della città.
La mostra si congeda da Ferenzona con alcune sue opere macabre (come A cup of tea, La goccia di veleno e I perfidi vegetali) che rimandano a un mondo d’incantesimi e inquietudini demoniache capaci di riflettere, per certi versi, le sue esperienze praghesi, e alle quali risponde tuttavia una cartolina illustrata, Il saluto dell’alba, ch’è invece carica di speranza e giunge alla fine del viaggio come una mattina serena dopo una notte di tempesta, come un sole rosato che si fa largo in mezzo a un cielo cupo e coperto di nubi nere (“Considera questo giorno / Poiché esso è vita / Vera vita della vita // Nel suo corso fugace / Questo giorno racchiude / Tutte le varietà, / Tutte le realtà / Della tua esistenza, / La felicità del fiorire, / La gloria dell’azione, / Lo splendore della bellezza. // Poiché ieri non è che un sogno / E domani / Non è che una visione // Ma l’oggi bene vissuto, / Fa d’ogni giorno trascorso / Un sogno di felicità, / Fa d’ogni giorno futuro / Una visione di speranza / Perciò considera questo giorno”). Un’ultima sala, in coda, raduna un cospicuo nucleo d’incisioni ch’esplicita le fonti, le ispirazioni, gli spunti sui quali si formò l’arte di Ferenzona: ecco allora le grafiche di Rops, di Khnopff, di Georges De Feure, del gruppo praghese Sursum (Josef Vachal, František Kobliha e Jan Konůpek). Spicca, in particolare, il celebre manifesto del primo Salon de la Rose+Croix del 1892, opera di Carlos Schwabe ch’è stata spesso protagonista di rassegne anche recenti sui temi del simbolismo misticheggiante e spiritualista.
Con la mostra su Raoul Dal Molin Ferenzona si chiude a Collesalvetti un ciclo cominciato con Doudelet e proseguito con Romiti, Macchiati e Benvenuti, col quale la curatrice Cagianelli ha esplorato molti dei rivoli del simbolismo toscano, e segnatamente tirrenico e livornese, d’inizio Novecento: un palinsesto che ha inanellato mostre importanti, sostenute da progetti solidi, corposi lavori di ricerca, dalla scoperta di numerosi inediti (non fa eccezione la mostra su Ferenzona, forse la più ricca di inediti e novità del ciclo: d’alcuni di questi inediti s’è dato conto in questa sede), e sempre accompagnate da incontri e conferenze che hanno approfondito i temi presentati nelle sale. Raoul Dal Molin Ferenzona. Enchiridion Notturno è una mostra scientificamente inappuntabile, movimentata, affascinante, ch’è stata in grado di ricostruire una vicenda del primo Novecento italiano forse non dimenticata, ma sicuramente accantonata, e comunque poco nota al grande pubblico, a chiusura d’un ciclo che s’è tenuto in un piccolo museo, ma che, pur in economia di mezzi e risorse, ha tenuto alto il livello di quel ch’è stato organizzato in territorio livornese negli ultimi anni. È sempre più raro vedere in Italia mostre di questo genere, che sono in grado di far luce su episodî poco noti di una storia dell’arte che sarà sì locale ma ch’è intrecciata con vincoli indissolubili alle vicissitudini nazionali, che forniscono al pubblico occasioni d’approfondimento verticale su artisti e vicende fondamentali per la storia del territorio, che s’avvalgono d’apparati scientifici robusti, piccole pietre miliari della storiografia sui relativi artisti. Negli ultimi quattro anni, nella piccola Collesalvetti, si son scritte pagine importanti della storia dell’arte italiana d’inizio Novecento. Ora è bene che questo lavoro continui e, anzi, magari riesca a espandersi anche al capoluogo.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Al suo attivo anche docenze in materia di giornalismo culturale (presso Università di Genova e Ordine dei Giornalisti), inoltre partecipa regolarmente come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).