Un artista che guardava alla tradizione, sempre fedele a se stesso, autore di quadri devoti, compassati e misurati mentre attorno a lui la pittura esplodeva. Per queste ragioni, oltre che per il fatto d’esser stato trascurato, forse volutamente, da Giorgio Vasari, Pier Francesco Foschi è sempre stato osservato forse con un poco di superficialità, nonostante possa vantare un lungo elenco di studiosi illustri che di lui si sono occupati, a cominciare da Roberto Longhi, autore nel 1953 d’un Avvio a Pier Francesco Foschi che, effettivamente, innescava gli studî sul pittore fiorentino, che hanno poi trovato appassionati esegeti in Antonio Pinelli e, più di recente, in Nelda Damiano e Simone Giordani. E probabilmente anche per tali motivi Foschi non ha mai avuto una sua monografica, fino a un paio d’anni fa: il primato spetta alla mostra del Georgia Museum of Art del 2022, curata da Nelda Damiano, fondata sullo stesso impianto attorno al quale è costruita la prima mostra italiana sul pittore, Pier Francesco Foschi. Pittore fiorentino, accolta nelle sale espositive della Galleria dell’Accademia di Firenze, e curata da Damiano, Giordani, Cecilie Hollberg ed Elvira Altiero. Una trentina di opere per tracciare un profilo dell’artista a settant’anni esatti dal primo, pionieristico studio che lo ha riguardato, una rassegna organizzata sostanzialmente per temi e in grado d’inquadrare compiutamente l’itinerario artistico d’un pittore rimasto ai margini della storiografia, poco noto al grande pubblico, ma protagonista non secondario del suo tempo.
Chi era, in sostanza, Pier Francesco Foschi? Si potrebbe rispondere alla domanda con un sunto del contributo che Antonio Pinelli ha firmato per il catalogo della mostra: una ricognizione, piacevolmente venata di ricordi personali, di quanto la critica ha prodotto nel ricostruire la fisionomia artistica di Foschi, dal primo apporto di Longhi fino ai lavori recenti di Giordano che si sono concentrati soprattutto sulle fasi iniziali della carriera dell’artista. Si parla, dunque, d’un pittore che si forma nella Firenze classicista di Andrea del Sarto, che s’apre timidamente alle novità di Michelangelo e del Pontormo ma senza assumere posizioni particolarmente radicali e senza porsi come un innovatore (ruolo che più gli s’attaglia se si pensa alla sua ritrattistica, genere in cui Foschi si colloca tra i pittori al vertice del suo tempo nell’Italia centrale), per poi terminare la propria carriera “trincerandosi”, scrive Pinelli, “in un nostalgico revival sartesco che, se da un lato sancisce la sua crescente estraneità alla cultura figurativa d’avanguardia che furoreggiava nella Firenze granducale di Cosimo e di Francesco I […], dall’altro lo mostra in piena sintonia con il gusto rétro della committenza dei conventi e delle chiese del ‘contado’ toscano”.
Per meglio focalizzare il contesto entro cui si sviluppò l’arte di Foschi, è utile far riferimento alle recenti ricerche di Giordani che, come detto, si son concentrate segnatamente sugli esordî di Foschi, che era figlio d’arte (il padre, Jacopo Foschi, era stato allievo di Botticelli, aveva partecipato come suo collaboratore all’impresa della Cappella Sistina ed era stato più volte a Roma): proprio il genitore potrebbe aver agito per far entrare Pier Francesco nella bottega di Andrea del Sarto, una volta resosi conto che, scrive Giordani, “una formazione botticelliana”, qual era quella di Jacopo, “non avrebbe garantito a Pier Francesco un futuro professionale”, dacché superata dalle mode e anche dal tempo (s’era ormai esaurita da qualche tempo l’esperienza di Savonarola, che pure dovette aver toccato in qualche modo Jacopo Foschi, e s’era dissipata l’aura di misticismo ch’era calata sulla pittura fiorentina sulla scorta delle predicazioni del frate ferrarese). L’esordio di Foschi, dunque, è nel segno della pittura più aggiornata del proprio tempo, ed è quanto si può apprezzare nella prima sezione della rassegna, intitolata giustappunto L’esordio professionale.
Spetta a un dipinto degli anni Venti, la Pala Lotti, il compito d’introdurre il pubblico nel lungo e stretto corridoio in cui è allestita la mostra. L’opera venne dipinta per il mercante fiorentino Benedetto di Bernardo Lotti ed era collocata nella chiesa di Santa Trinita (oggi la si vede invece nella chiesa di San Barnaba): l’esordio di Pier Francesco Foschi, si vede bene nella Pala Lotti, è di stretta osservanza sartesca, dacché la composizione ricalca quella d’una celeberrima immagine del maestro di Pier Francesco, la Madonna delle Arpie oggi conservata agli Uffizi, benché un differente uso della luce lo separi da Andrea del Sarto: si veda come Pier Francesco Foschi cerchi, forse ancor più del suo mentore, di rendere evidenti i volumi scultorei dei suoi personaggi proprio attraverso le modulazioni luminose che accentuano i panneggi, o come cerchi l’effetto coinvolgente lasciando nella penombra l’abside davanti alla quale è ambientata tutta la scena. La giovanile Sacra Famiglia con san Giovannino, opera della Galleria dell’Accademia di Firenze, dialoga con un dipinto simile che il visitatore osserva nella sezione successiva (Sull’esempio del maestro), che introduce la questione della replica, da parte di Pier Francesco Foschi, dei modelli del maestro: un esempio è la Madonna col Bambino della Collezione Romigioli, pubblicata nel 1967 da Antonio Pinelli, che deriva da un disegno perduto di Andrea del Sarto eseguito per il paliotto commissionato dal cardinale Silvio Passerini per la cattedrale di Cortona. Il prezioso tessuto, oggi al Museo Diocesano di Cortona, è presente in mostra, esposto vicino alla Madonna di Foschi per un agevole confronto, ma ancor più pregnante è il raffronto tra il Sacrificio di Isacco di Andrea del Sarto, in prestito dal Cleveland Museum of Art (tavola incompiuta, venne commissionata da Battista della Palla, agente del re francese Francesco I), e l’omologo dipinto di Pier Francesco Foschi, giunto invece dalla Villa Medicea di Poggio Imperiale: i due dipinti sono esposti su pareti contigue, e il confronto dà modo d’osservare (al di là del fatto che il successo delle invenzioni di Andrea del Sarto fosse tale che Foschi, ancora negli anni Trenta e con una carriera indipendente ormai ben avviata, sentiva la necessità di replicarle), di nuovo, i gradi di separazione tra l’allievo e il maestro. L’opera di Andrea del Sarto si distingue per una maggior delicatezza di toni e trapassi chiaroscurali, per il respiro più epico e drammatico della scena (possibile in virtù di alcuni accorgimenti sulle proporzioni delle figure, sulla prospettiva, leggermente più ribassata rispetto alla replica di Foschi, e sulla luce, più avvolgente), mentre Pier Francesco Foschi, con la sua luce tagliente e pure con un certo grado di semplificazione formale rispetto al lavoro del maestro, esalta il carattere scultoreo, monumentale, dei personaggi del suo dipinto.
Abbandonate le prime fasi della carriera di Foschi, la mostra entra nel vivo con la terza sezione, Le pale d’altare, centrata sulla produzione che più ha contraddistinto il successo di Foschi negli anni centrali del Cinquecento. Il pittore dovette produrre almeno una dozzina di pale d’altare, due delle quali note attraverso lavori preparatorî (entrambi, peraltro, presenti in mostra). La Pala Bettoni è quella che occupa il centro della sezione, in ragione del fatto ch’è una delle più riuscite pale d’altare di Foschi, senza considerare il fatto che si tratta d’una delle sole tre menzionate da Vasari nelle sue Vite (Foschi viene citato tra gli allievi di Andrea del Sarto, e si fa cenno di tre sue tavole dipinte per la basilica di Santo Spirito a Firenze: una di queste è, appunto, la Pala Bettoni, raffigurante una Resurrezione). Scrive Simone Giordani che, con quest’opera, Foschi “elabora la composizione di maggior complessità della sua carriera, per articolazione dei piani dello spazio, numero di figure, audacia dei movimenti, nonché per la varietà delle espressioni con cui si misurò”, seppur seguendo uno schema iconografico affatto tradizionale, e quindi simmetrico, equilibrato, armonico, tutto bilanciato attorno alla figura centrale di Cristo. Ciò nondimeno, Foschi si dimostra artista capace di guardare in giro, come dimostrano certi elementi di derivazione michelangiolesca notati per primi da Alessandro Parronchi (per esempio i mascheroni degli elmi dei soldati, che ricordano le decorazioni della Sacrestia Nuova di San Lorenzo), ma anche i colori delicati delle vesti dei soldati, in linea coi gusti del tempo. Attorno, il pubblico incontra alcune delle principali attestazioni del Foschi pittore di pale d’altare: le opere più precoci, risalenti alla seconda metà degli anni Trenta, sono i pannelli del grande Polittico del Sacramento di Fivizzano (in mostra s’ammirano due pannelli laterali, coi santi Sebastiano e Rocco, ancora conservati nella chiesa dei Santi Iacopo e Antonio della città della Lunigiana e restaurati per l’occasione da Valeria Cocchetti grazie al sostegno dell’antiquario Fabrizio Moretti, e due tavole della predella, con Il martirio di san Sebastiano e il San Rocco soccorso dal cane che invece sono serbate alla Fondazione Longhi di Firenze). Non è invece presente la lunetta, rimasta a Fivizzano per ragioni conservative. La complessa macchina fu smembrata entro il 1732: in origine, i due santi affiancavano con tutta probabilità una statua di sant’Antonio Abate che occupava una nicchia reale, idealmente continuata da quelle dipinte alle spalle dei due santi di Foschi. Anche qui, l’artista non s’allontana troppo dalla lezione del maestro, dimostrando di prediligere già un evidente gusto per le composizioni equilibrate e compassate, lo stesso palesato nella Pala della Madonna del Piano, in prestito dalla chiesa dei Santi Benedetto e Lucia di San Benedetto a Settimo, che è stata riunita alle tavole della sua predella, una delle quali, quella con San Pietro che risana gli infermi, inedita e rintracciata proprio in occasione della mostra. I modelli qui sono ancora anteriori (Carlo Falciani arriva a suggerire riferimenti al Masaccio della Cappella Brancacci), a ulteriore dimostrazione della sostanziale compostezza vintage, potremmo dire, della maniera di Foschi, che si concede giusto qualche licenza nelle pose un poco contorte delle figure della predella. La sezione è chiusa da un ulteriore confronto tra maestro e allievo: il Cristo in pietà sorretto dagli angeli di Foschi con il potente Cristo in pietà affrescato da Andrea del Sarto in una nicchia del convento della Santissima Annunziata (affresco poi staccato e oggi alla Galleria dell’Accademia): la potenza visiva di Andrea del Sarto viene tradotta da Foschi in una composizione dai ritmi decisamente più serrati, non priva d’una certa espressività e d’una spiccata sensibilità per gli effetti luministici, sebbene, occorre dirlo, non in grado di rivaleggiare col maestro.
I riferimenti sarteschi rimangono anche nei dipinti per la devozione privata, cui è dedicata la quarta sezione della mostra. Basterà pensare che un’opera come la Madonna col Bambino e due angeli, fino agli anni Venti del secolo scorso, era ancora attribuita genericamente a un imitatore di Andrea del Sarto: spetta a Luciano Bellosi l’attribuzione a Foschi, in un suo lavoro del 1977. Ci sono però opere che si discostano dal dettato del maestro: una di queste è la Madonna col Bambino e san Giovannino attribuita per la prima volta a Foschi da Federico Zeri. Qui, scrive Carlo Falciani, rispetto al modello sartesco l’artista aggiunge “un leggero squilibrio compositivo” e quella “astrazione della superficie pittorica” che caratterizza i lavori della fase avanzata della sua carriera, oltre al tentativo di “movimentare la scena introducendo gesti scattanti che aggiungono tensione alla scena, come quello del Bambino che sottrae una perina al cardellino che il Battista gli offre come premonizione del sangue versato sulla croce”. E ci potrebbe poi aggiungere l’Andata al Calvario, dipinto dai toni nordici. È invece uno dei rari soggetti biblici del corpus foschiano la Giuditta della Spier Collection, una delle opere più famose del pittore fiorentino, peraltro recentemente esposta alla mostra sul tema iconografico della Giuditta che s’è tenuta a Palazzo Barberini a Roma tra 2021 e 2022 (l’opera di Foschi figurava a inizio percorso): opera molto movimentata (in questo senso si può dire che sia un hapax nell’intera produzione di Foschi), con alcuni accenni di violenza bruta, come il grosso taglio alla base del collo di Oloferne, o il gesto feroce dei Giuditta che sta per scagliarsi (nuovamente) contro il nemico, segue comunque una composizione equilibrata, impostata su di uno schema sobrio e ben calibrato che esalta l’azione dell’eroina biblica. E sebbene l’interpretazione dell’episodio da parte di Foschi rimanga “austera se paragonata al successivo esempio fiorentino di Giorgio Vasari” (ovvero l’omologo dipinto conservato al Saint Louis Art Museum), la Giuditta della Spier Collection, che affronta peraltro uno dei temi più diffusi nella Firenze rinascimentale, oltre che uno dei più richiesti dai committenti, resta uno dei vertici più originali della sua carriera.
Il finale della mostra della Galleria dell’Accademia è tutto per la ritrattistica, genere cui Foschi si dedicò per quasi tutto l’arco della sua carriera, dacché gli esempî noti sono sparpagliati tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, e che praticò per diversi tipi di committenti (la costellazione della sua clientela, peraltro, ci consente d’avere un’idea di quanto fosse ben inserito), mostrando una straordinaria varietà, una gran capacità d’adattamento e una qualità pittorica che pone i suoi ritratti ai vertici della propria epoca: le sue effigi possono essere paragonate, per esempio, a quelle d’un Bronzino o d’un Pontormo, modelli peraltro ai quali Foschi guardava. Nelda Damiano sintetizza la ritrattistica di Foschi con due termini, “decoro” e “raffinatezza”, dividendo il gruppo dei ritratti foschiani in due gruppi: “raffigurazioni di busti o mezzi busti che trasmettono un senso di spontaneità e intensità psicologica, fortemente influenzate dai dipinti del suo maestro Andrea del Sarto”, e “complessi dipinti della classe patrizia che enfatizzano le ricchezze materiali e le aspirazioni del soggetto”, coi primi che si collocano soprattutto verso gli esordî del Foschi ritrattista e i secondi che invece, in concomitanza coi cambiamenti nella società fiorentina del Cinquecento, caratterizzano la produzione più matura. Tra i ritratti che si distinguono per una più intensa caratterizzazione psicologica s’ammira, per esempio, il sobrio Ritratto di Giovanni di Francesco del Nente, dove il giovane protagonista, identificato da Simone Giordani, è reso con un fine modellato che rende vivo il suo volto, nel segno d’un delicato e composto naturalismo, estraneo tanto agli algori della ritrattistica del Bronzino quanto alla sofisticatezza di quella del Pontormo. Il punto di massima tangenza col Pontormo potrebbe essere individuato nel Ritratto di dama di privata collezione svizzera, che in passato fu dato anche a Jacopo Carucci, mentre il Ritratto di giovane con corona di fiori dello Utah Museum of Fine Arts di Salt Lake City si pone come fulgida testimonianza dell’espressività che Foschi poteva esser capace di donare ai suoi effigiati: si guardi lo sguardo così vivo e così concentrato del giovane, ulteriormente evidenziato dal gesto delle mani che stringono la corona di fiori in un gesto quasi nervoso. I ritratti di Foschi s’apprezzano poi per la minuzia descrittiva: nel dipinto di Salt Lake City la s’ammira nella restituzione dei fiori, oltre che nella resa dei tessuti. Il ritratto americano è una sorta di ponte tra i ritratti del primo gruppo e quelli del secondo: possiamo far rientrare in quest’ultimo due immagini come il Ritratto di prelato o il Ritratto del cardinale Antonio Pucci o ancora il Ritratto di Bartolomeo Compagni, tutti caratterizzati dalla presenza di diversi oggetti che segnalano lo status dei personaggi raffigurati. Nel Ritratto di prelato e in quello del cardinale Pucci questo compito spetta al libro, non solo in quanto simbolo di cultura, ma anche di disponibilità finanziarie, dacché si tratta di volumi finemente rilegati con coperte di pelle blu, oppure al tappeto, altro segno d’opulenza (nel ritratto del cardinale si noterà poi la presenza della bolla col sigillo di papa Clemente VII, per mostrare la fedeltà dell’effigiato ai Medici, e quella dello Spinario, allusione alla sua passione per l’arte ma anche ai suoi doveri “professionali”, dato che l’atto di togliere la spina allude alla liberazione dal peccato), mentre nel Ritratto di Bartolomeo Compagni a sottolineare lo status dell’effigiato, un facoltoso commerciante che fece fortuna soprattutto in Inghilterra, sono la poltrona riccamente decorata, ostentata per suggerire anche in questo caso le facoltà economiche del personaggio, oppure le medaglie che dànno conto delle sue importanti relazioni, le lettere gettate quasi alla rinfusa sul tavolo per suggerire un’idea di vita dinamica e impegnata, e in primo piano anche un anello con lo stemma di famiglia, vistosamente sfoggiato. Ritratti parlanti, potremmo dire: tra i migliori e più eloquenti della Firenze del Cinquecento.
Rispetto alla mostra del Georgia Museum of Art, di cui conserva la struttura, tanto che anche alla Galleria dell’Accademia sono tanti i prestiti dai musei americani, l’esposizione fiorentina si concentra meno sul contesto, offrendo al visitatore giusto uno sguardo su alcuni dipinti di Andrea del Sarto, senza indugiare su altri artisti, come il Bronzino o il Bacchiacca, che erano invece presenti nel percorso della mostra americana. Scelta tuttavia comprensibile, dato che è la stessa Firenze il contesto adatto a ospitare una mostra su Foschi, e la stessa Galleria dell’Accademia non manca di lavori coi quali misurare la produzione foschiana, e date anche le necessità d’allestire una monografica in una sede, quella destinata alle mostre dentro al museo fiorentino, che effettivamente non consente grande spazio di manovra: è un po’ il limite delle rassegne della Galleria, costrette in questo corridoio che comporta allestimenti talvolta tortuosi e carichi. Per la mostra su Foschi questa sensazione è tuttavia mitigata da un allestimento comunque valido, che cerca di lasciare il giusto respiro alle opere pur nelle difficoltà causate dagli spazî angusti delle sale espositive della Galleria dell’Accademia.
Si configura, infine, come un ottimo strumento d’approfondimento il catalogo, completo anche di regesto delle opere fin qui note o attribuite con buoni margini di sicurezza a Pier Francesco Foschi, e ricco di saggi che contribuiscono ulteriormente a dare al pittore fiorentino una propria, precisa collocazione storiografica, messa bene a punto dalla mostra: Pier Francesco Foschi come erede di Andrea del Sarto, sostanzialmente impassibile dinnanzi alle novità che s’erano prodotte a Roma dietro Raffaello e Michelangelo (e forse per questo poco considerato da Vasari), artista di tradizione quando a Firenze s’alternavano l’esperienze d’un Pontormo, d’un Bronzino o d’uno Stradano, eppure autore d’una pittura aderente ai principî controriformati e ben allineata ai desiderata d’una committenza che coltivava un gusto che, se era non di retroguardia, era di sicuro moderato. Una pittura composta per un pubblico composto. Un artista diligente e sobrio che tuttavia non era meno figlio del suo tempo rispetto a quanti, negli stessi anni, sperimentavano le novità più ardite.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).