Caravaggio, Artemisia e gli altri. Rivoluzione Giuditta: la mostra a Roma


Recensione della mostra “Caravaggio e Artemisia. La sfida di Giuditta” (a Roma, Palazzo Barberini, fino al 27 marzo 2022).

Caravaggio e Artemisia Gentileschi: due nomi che, se posti in capo al titolo di qualunque rassegna espositiva, probabilmente bastan da soli a garantirne il successo. E così parrebbe essere anche per Caravaggio e Artemisia. La sfida di Giuditta, la mostra allestita nelle sale al piano terra di Palazzo Barberini a Roma fino al 27 marzo 2022 e che ha già incontrato l’ampio consenso del pubblico. Tolta la tara al titolo, la rassegna curata da Maria Cristina Terzaghi è essenzialmente dedicata alla fortuna iconografica della Giuditta che decapita Oloferne di Michelangelo Merisi, uno dei quadri più famosi della raccolta di Palazzo Barberini, forse secondo soltanto alla Fornarina di Raffaello. La vasta diffusione che le immagini di Giuditta conobbero almeno a partire dagli anni Ottanta del Cinquecento è un fatto eminentemente politico: nel 1545, la terza sessione del Concilio di Trento stabilì l’inserimento del libro di Giuditta nel canone biblico, “in palese contrasto con la scelta di Lutero (1531) di inserirlo tra gli Apocrypha della Bibbia da lui tradotta”, ha scritto Luciana Borsetto che sul tema della Giuditta tra Rinascimento e Barocco ha curato un convegno tenutosi a Padova nel 2007. Si trattava d’affermare il ruolo simbolico d’un mito che potrebbe esser schematizzato in due momenti, quello della minaccia (di Oloferne al popolo ebraico) e quello della salvezza (il finale della storia), in un’epoca che vedeva la Chiesa cattolica realmente minacciata da nemici interni ed esterni: in un quadro del genere, Giuditta diventava vivida, eloquente e trionfante allegoria della Chiesa della Controriforma. L’inserimento, tra gli anni Ottanta e Novanta, del libro di Giuditta nella Vulgata sisto-clementina (la Vulgata, sarà opportuno ricordarlo, era l’unica versione della Bibbia consentita dalle autorità cattoliche, tanto che tutte le traduzioni in volgare sarebbero state incluse, nel 1596, nell’indice clementino), fu l’episodio che promosse la notorietà del mito.

Novità principale della mostra, più che l’approfondimento sul tema in sé, sul quale erano già intervenute altre occasioni espositive pur senza raggiungere ovviamente il grado di verticalità della rassegna di Palazzo Barberini (da ultima si potrebbe menzionare la mostra su Artemisia Gentileschi di Palazzo Braschi tenutasi tra 2016 e 2017, dov’erano presenti quattordici Giuditte), è il taglio monografico, il focus sul singolo tema che ha permesso di radunare grandi capolavori e opere meno note, la possibilità unica di veder tante opere aventi lo stesso soggetto riunite in un solo luogo, e dunque la possibilità di constatare con confronti diretti la portata del verbo caravaggesco. In un percorso scandito lungo quattro sezioni (i precedenti di fine Cinquecento, la Giuditta di Caravaggio e i suoi interpreti, la Giuditta di Artemisia, il confronto con l’iconografia del David e della Salomè), particolare risalto vien dato, fin dall’introduzione pubblicata nel catalogo, alla Giuditta che Artemisia dipinse tenendo a mente il precedente di Merisi, definita dalla curatrice Terzaghi opera che “si spinge oltre” Caravaggio e che si fa “teatro di un’immedesimazione quasi totale”, dipinto a cui assegnare “la palma d’oro dell’interpretazione del capolavoro caravaggesco”.

Il tentativo d’assegnare la “palma” nella gara a chi ha meglio rivisitato la Giuditta dipinta per Ottavio Costa spiega in parte il fatto che la figura di Artemisia si trovi a giganteggiare sugli altri artisti, al punto d’avere una sezione dedicata, poiché tale primato viene dalla curatrice riconosciuto sulla base del “pathos” che Artemisia avrebbe saputo infondere ai personaggi, un pathos ottenuto anche in ragione del proprio vissuto: dal piano formale, il tracciato della rassegna devia dunque su quello psicologico (impossibile leggere la Giuditta che decapita Oloferne di Artemisia senza far riferimento alla sua storia personale, situazione che però non fa del quadro un hapax, se letto come testo figurativo calato entro un preciso contesto) per poi riprendere il cammino nella sezione finale, con un’evidente oscillazione nella definizione dell’identità della mostra. Tuttavia già in occasione della grande mostra su Orazio e Artemisia Gentileschi del 2001, Judith Mann avvertiva della difficoltà di pervenire a una lettura definitiva dell’immagine del dipinto di Capodimonte poi replicato nella variante degli Uffizi, anche perché non conosciamo le circostanze in cui nacque, né è stata ancora trovata una datazione certa, e di conseguenza il quadro è stato variamente interpretato o come una risposta più o meno diretta alla violenza subita dall’artista nel 1611 (la stessa Terzaghi nel catalogo: “un’opera dove l’emozione costruisce la stessa pittura” e dove si legge “la forza disperata della ribellione all’onore tradito”), o come il riflesso d’un’elaborazione psicologica della triste vicenda (Griselda Pollock: “il mito è lo schermo vuoto su cui il testo o l’immagine incidono un particolare complesso di significati informati dallo scambio tra le proiezioni dell’artista e le possibilità di misconoscimento e proiezione offerte dal mito stesso”), senza contare quanti hanno minimizzato i riferimenti all’esperienza personale (Beverly Louise Brown: “il suo punto di partenza era molto più visuale che psicologico”). Pur se dunque orientata verso una precisa direzione, la lettura del dipinto non prescinde dall’inquadrarlo nel contesto artistico del tempo, ben ricostruito dalla rassegna di Palazzo Barberini.

Sala della mostra Caravaggio e Artemisia. La sfida di Giuditta. Foto di Alberto Novelli
Sala della mostra Caravaggio e Artemisia. La sfida di Giuditta. Foto di Alberto Novelli
Sala della mostra Caravaggio e Artemisia. La sfida di Giuditta. Foto di Alberto Novelli
Sala della mostra Caravaggio e Artemisia. La sfida di Giuditta. Foto di Alberto Novelli
Sala della mostra Caravaggio e Artemisia. La sfida di Giuditta. Foto di Alberto Novelli
Sala della mostra Caravaggio e Artemisia. La sfida di Giuditta. Foto di Alberto Novelli
Sala della mostra Caravaggio e Artemisia. La sfida di Giuditta. Foto di Alberto Novelli
Sala della mostra Caravaggio e Artemisia. La sfida di Giuditta. Foto di Alberto Novelli
Sala della mostra Caravaggio e Artemisia. La sfida di Giuditta. Foto di Alberto Novelli
Sala della mostra Caravaggio e Artemisia. La sfida di Giuditta. Foto di Alberto Novelli

La ricostruzione parte subito con una interessante novità, un inedito di Pierfrancesco Foschi degli anni Quaranta del Cinquecento che rilegge la Giuditta fiorentina di Donatello e il Noè ebbro della Cappella Sistina per dar luogo a un’immagine di grande violenza e crudezza, con Giuditta colta mentre s’accanisce, levando la scimitarra, sulla testa d’Oloferne che, come indica la profonda e sanguinolenta ferita alla base della nuca, ha già ricevuto qualche colpo e sta per esser staccata di netto dal resto del corpo. È la dimostrazione che la novità del testo caravaggesco non è da ricercarsi nella sua violenza. E dal Cinquecento arriva anche la dimostrazione che Artemisia non è la sola donna a far sfoggio di ferocia: in prestito da Parma arriva la celebre Giuditta di Lavinia Fontana che tiene tra le mani la testa di Oloferne, ancora grondante di sangue, e getta un’ultima occhiata al corpo del generale assiro (il particolare splatter del collo troncato non viene celato dalla pittrice emiliana) mentre passa il capo reciso alla serva Abra, in un eccesso di teatralità che anticipa certi quadri del secolo successivo (siamo comunque cronologicamente vicini: l’immagine della bolognese è del 1595). È però un teatro ben diverso rispetto a quello secentesco: c’è ancora, in questi dipinti, una ricercatezza pienamente cinquecentesca nei gesti e nelle pose, c’è un’attenzione analitica e quasi maniacale per ogni singolo dettaglio, come risulta evidente anche dalla Giuditta del Tintoretto in prestito dal Prado, opera di sapiente e calibratissima regia.

La sala successiva, la più scenografica della mostra di Palazzo Barberini, pone al centro la Giuditta che decapita Oloferne di Caravaggio, della quale viene ribadito il ruolo di fondamentale punto di snodo per l’arte del tempo. La straordinaria novità del dipinto è stata efficacemente riassunta da Michele Cuppone, che alla Giuditta ha dedicato di recente diversi scritti, nel catalogo della summenzionata mostra di Palazzo Braschi: “mai fino a quel momento era stato raggiunto un tale livello di crudo realismo, dove l’intento più profondo del pittore sembra essere quello di impressionare l’osservatore, calato in una dimensione teatrale”. Caravaggio sceglie un momento della storia che aveva pochissimi precedenti, quello in cui Giuditta si scaglia contro Oloferne, e soprattutto sceglie di rappresentarlo con un naturalismo inedito per l’episodio biblico. È un dipinto sul quale molte parole son state spese, anche di recente: Terzaghi, in occasione di Caravaggio e Artemisia, torna in particolare su due argomenti nel lungo saggio dedicato all’opera e ai suoi primi interpreti. Il primo è la datazione, fissata al 1600 circa malgrado si conosca un acconto, datato 1602, del committente Ottavio Costa a Caravaggio per un “quadro” non meglio precisato, e poiché il testamento del banchiere elenca solo altri due quadri di Caravaggio da lui posseduti, occorrerebbe ammettere (scartando il San Francesco di Hartford, dipinto riconosciuto da tutti come giovanile) che la nota vada riferita al San Giovanni Battista di Kansas City, immaginando un anticipo di almeno un paio d’anni per un dipinto, quello oggi al Nelson-Atkins Museum, destinato a un oratorio di Albenga la cui decorazione fu avviata soltanto a partire dalla fine del 1603. Il secondo è l’identificazione con Fillide Melandroni, suggestione di vecchia data (risale a Roberto Longhi), già peraltro proposta dalla studiosa in passato, e rilanciata in questa sede, dacché la Giuditta viene messa in relazione al perduto Ritratto di Fillide, alla Santa Caterina del Thyssen-Bornemisza di Madrid e alla Maddalena del quadro con Marta e Maddalena di Detroit, tutte donne che dimostrano la stessa fisionimia, e alle quali si dovrebbe peraltro aggiungere la Vergine della Natività già nell’Oratorio di San Lorenzo (la cui datazione agli anni romani è oggi largamente accettata), che anzi è, in tutta la produzione caravaggesca, la figura femminile più somigliante alla Giuditta di Ottavio Costa. “La fronte alta, le sopracciglia sottili, i grandi occhi scuri, i capelli spartiti con i riccioli che fuoriescono o acconciati secondo la moda del ciuffo alto” e gli orecchini con perla a goccia sono dettagli che, secondo la curatrice, legano queste immagini.

Ottavio Costa era molto geloso del dipinto di Caravaggio e difficilmente lo mostrava, per evitare che un numero troppo elevato di copie ne comportasse una svalutazione. Terzaghi ipotizza che una delle rare esposizioni dell’opera avvenne in occasione del matrimonio di Luisa Costa, figlia del banchiere, e Pietro Enriquez de Herrera, figlio del socio di Ottavio, nel 1614, ma è pressoché certo, argomenta la curatrice, che qualcuno dovette vederlo ben prima, dato che sono note opere precoci la cui derivazione dal prototipo caravaggesco è indiscutibile. Tra gli artisti che rimasero immediatamente affascinati dal testo caravaggesco figurano quelli che in mostra sono esposti subito a fianco della Giuditta di Palazzo Barberini: si tratta dei quadri di Giuseppe Vermiglio (a sinistra, dalla Klesch Collection di Londra) e di Louis Finson (a destra, dalla Collezione Intesa Sanpaolo: sull’autografia del dipinto comunque non ci sono certezze). Particolarmente interessante è il dipinto del lombardo, perché scoperto di recente (è stato pubblicato nel 2001), perché lo si vede esposto molto raramente, perché non è la pedissequa traduzione di un imitatore ma è un dipinto che spicca per i suoi caratteri d’originalità, e perché la figura di Vermiglio, artista che fu tra i primi a diffondere le novità caravaggesche in Lombardia, è artista di cui si sta ancora ricostruendo la fisionomia. Finson, presente a Roma nei primi anni del Seicento, secondo Terzaghi poté forse vedere la Giuditta nell’atelier di Caravaggio mentre il dipinto era in corso d’elaborazione, e Vermiglio, scrive Chiara Dominioni, “potrebbe avere avuto occasione di vedere l’opera del Merisi grazie al giro di conoscenze che lo legavano per alcune commissioni al duca Giovanni Angelo Altemps, cliente del Banco Herrera & Costa e acquirente, in quegli anni, di copie di dipinti caravaggeschi venduti da Prospero Orsi”. Decisamente posteriori, ma non per questo meno interessanti (anzi) sono altre variazioni sul tema: il cupo tenebrismo di Valentin de Boulogne nella tela che arriva dal MUŻA della Valletta a Malta, la cruenta rilettura di Bartolomeo Mendozzi (nome di recente assegnato al “Maestro dell’Incredulità di san Tommaso” cui il dipinto era riferito), il lume di candela del freddo e celebre quadro di Trophime Bigot in arrivo dalla Pilotta di Parma e lo scomposto Oloferne di Filippo Vitali, il più recente dei dipinti che si allineano in questa sala che espone alcune delle più alte interpretazioni della Giuditta di Ottavio Costa.

Pierfrancesco Foschi, Giuditta decapita Oloferne (inizio degli anni Quaranta del XVI secolo; olio su tavola, 91 x 70,5 cm; The Spier Collection)
Pierfrancesco Foschi, Giuditta decapita Oloferne (inizio degli anni Quaranta del XVI secolo; olio su tavola, 91 x 70,5 cm; The Spier Collection)
Lavinia Fontana, Giuditta consegna la testa di Oloferne alla fantesca (1595 circa; olio su tela, 209 x 170 cm; Parma, Pinacoteca Stuard, proprietà AD Personam – Collezioni d’arte del Comune di Parma)
Lavinia Fontana, Giuditta consegna la testa di Oloferne alla fantesca (1595 circa; olio su tela, 209 x 170 cm; Parma, Pinacoteca Stuard, proprietà AD Personam – Collezioni d’arte del Comune di Parma)
Tintoretto, Giuditta e Oloferne (1577-1578 circa; olio su tela, 188 x 251 cm; Madrid, Museo Nacional del Prado)
Tintoretto, Giuditta e Oloferne (1577-1578 circa; olio su tela, 188 x 251 cm; Madrid, Museo Nacional del Prado)
Caravaggio, Giuditta decapita Oloferne (1602; olio su tela, 145 x 195 cm; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica - Palazzo Barberini)
Caravaggio, Giuditta decapita Oloferne (1602; olio su tela, 145 x 195 cm; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica - Palazzo Barberini)
Giuseppe Vermiglio, Giuditta decapita Oloferne (1610-1615; olio su tela, 108 x 170 cm; The Klesch Collection)
Giuseppe Vermiglio, Giuditta decapita Oloferne (1610-1615; olio su tela, 108 x 170 cm; The Klesch Collection)
Attribuito a Louis Finson, Giuditta decapita Oloferne (post 1607; olio su tela, 140 x 161 cm; Collezione Intesa Sanpaolo)
Attribuito a Louis Finson, Giuditta decapita Oloferne (post 1607; olio su tela, 140 x 161 cm; Collezione Intesa Sanpaolo)
Valentin de Boulogne, Giuditta decapita Oloferne (1627-1629 circa; olio su tela, 160 x 141 cm; La Valletta, MUŻA, National Community Art Museum)
Valentin de Boulogne, Giuditta decapita Oloferne (1627-1629 circa; olio su tela, 160 x 141 cm; La Valletta, MUŻA, National Community Art Museum)
Trophime Bigot, Giuditta decapita Oloferne (fine del terzo decennio del XVII secolo; olio su tela, 130 x 160 cm; Parma, Galleria Nazionale)
Trophime Bigot, Giuditta decapita Oloferne (fine del terzo decennio del XVII secolo; olio su tela, 130 x 160 cm; Parma, Galleria Nazionale)
Bartolomeo Mendozzi (Maestro dell’Incredulità di S. Tommaso), Giuditta e Oloferne (inizio del quarto decennio del XVII secolo; olio su tela, 120 x 174 cm; Collezione privata)
Bartolomeo Mendozzi (Maestro dell’Incredulità di S. Tommaso), Giuditta e Oloferne (inizio del quarto decennio del XVII secolo; olio su tela, 120 x 174 cm; Collezione privata)
Filippo Vitale, Giuditta decapita Oloferne (post 1637; olio su tela, 126 x 154 cm; Montpellier, Musée Fabre)
Filippo Vitale, Giuditta decapita Oloferne (post 1637; olio su tela, 126 x 154 cm; Montpellier, Musée Fabre)

Spazio a sé, come anticipato, è stato dato alla Giuditta di Artemisia per le ragioni di cui s’è detto. Artemisia è stata tra i primi a rileggere la Giuditta di Caravaggio, anche se i suoi debiti spaziano oltre e sono stati a lungo rimarcati dalla critica: difficile non mettere il quadro in relazione con la “Grande Giuditta” di Rubens oggi nota solo da un’incisione di Cornelis Galle (opera, quella di Rubens, la cui eco fu probabilmente seconda solo a quella di Caravaggio: varrà la pena dar qui conto di un’opera probabilmente di scuola veronese, accostabile forse ai modi di Felice Brusasorci, emersa sul mercato a fine 2020, passata in asta da Finarte e genericamente assegnata a un pittore dell’Italia settentrionale ma con aperture su Claudio Ridolfi, che pare in stretto rapporto con la Giuditta rubensiana), così come è altamente probabile che l’idea dell’Oloferne riverso derivi dal David di Orazio Gentileschi oggi a Dublino, e ulteriori rapporti di dipendenza potrebbero legare il dipinto alla Giuditta di Adam Elsheimer, citata in catalogo come una delle primissime impressioni (“a caldo”) della Giuditta di Ottavio Costa. Anche in questo caso la curatrice torna sul tema della datazione, che era stata posticipata al 1617 (rispetto alla più tradizionale data del 1612) da Francesca Baldassarri, sulla base di un pagamento del 31 luglio del 1617 corrisposto a Firenze dalla nobile Laura Corsini alla pittrice per una “Giuditta” che la studiosa proponeva d’identificare con quella oggi a Capodimonte: in mostra si riafferma la data più precoce sostanzialmente sulla base di due indizi principali, il disegno di Marcantonio Bassetti tratto dal dipinto di Giuditta e conservato a Verona al Museo di Castelvecchio (il quadro è comunque complicato dal fatto che Bassetti si trattenne a Roma fino al 1620, e al 1620 secondo Baldassarri si potrebbe datare la versione fiorentina della Giuditta, che potrebbe anche esser stata prodotta a Roma), e il dipinto attribuito, in occasione della mostra, a Biagio Manzoni da Giuseppe Porzio, che appare riprendere in maniera diretta la Giuditta di Artemisia. Fino a prima della mostra era dato a Giovanni Francesco Guerrieri (a pubblicarlo, come quadro del marchigiano, era stato Andrea Emiliani nel 1988, che peraltro lo datava con fiducia a un periodo compreso tra il 1615 e il 1618) e questo cambio d’attribuzione è una delle novità maggiori e più interessanti della mostra: per far di quest’opera un argomento dirimente nella questione della datazione della Giuditta gentileschiana al 1612 occorrerebbe in prima battuta accettare l’attribuzione a Manzoni, in secondo luogo confermare l’ipotesi, lanciata da Andrea Bertozzi nel 2014, dell’identificazione tra Biagio Manzoni e il “Biagio pittore garzone” registrato negli stati d’anime di due parrocchie romane tra il 1614 e il 1617, e in ultimo ammettere che dopo il 1617 Manzoni se ne sia immediatamente tornato nella Romagna natia. Nella biografia di Manzoni ci sono però ancora vuoti documentari troppo ampi per considerare chiuso il caso.

Ad ogni modo, per tornare a questioni che più appassionano il grande pubblico, ciò ch’emerge con forza dalla terza sezione della mostra, più che un presunto primato di Artemisia, è semmai l’evidenza d’un nutrito novero d’artisti che cercarono d’operare una mediazione tra Caravaggio e Rubens: la stessa Artemisia, cui s’aggiungono Giovanni Baglione, autore d’una Giuditta che riprende il profilo della Abra caravaggesca (oltre all’intonazione “intesa pur come soltanto epidermica e tipologica”, scrive Michele Nicolaci in catalogo) ma che nella composizione dovette tenere a mente il precedente rubensiano, e poi ancora Pietro Novelli, presente con la sua Giuditta nella sala successiva (nella quale però prosegue la terza sezione).

La trama della mostra s’arricchisce poi col naturale confronto tra padre e figlia che vive nel paragone diretto tra la Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne di Oslo, opera di Orazio Gentileschi del 1608-1609 che costituisce il più evidente precedente di uno dei dettagli su cui più si soffermano le letture della Giuditta di Capodimonte (ovvero il fatto che si tratta di una delle prime volte in cui Giuditta e Abra appaiono come coetanee: il tema della “solidarietà femminile” sulla quale insistono alcune letture trova così un anticipo nella complicità delle due donne di Orazio, ch’è comunque un topos della tradizione iconografica della Giuditta, ed è semmai lo sgomento della serva un fatto nuovo). Orazio certamente conosceva il quadro di Caravaggio, essendo l’artista in mostra che aveva i più stretti rapporti con Merisi, ma ne rimane impermeabile: nella sua produzione non c’è traccia dell’efferatezza che fece presa sui suoi contemporanei. C’è però viva tensione nello splendido dipinto di Hartford, il miglior dipinto della sezione, che coglie una Abra apprensiva mentre si guarda attorno circospetta, nel timore d’esser scoperta mentre porta via la testa di Oloferne: non c’è crudeltà (la stessa testa recisa pare fatta di cera, suggerisce Patrizia Cavazzini), non c’è neanche il penetrante realismo di Caravaggio, ma c’è un dramma in pieno svolgimento. Ancora, si prosegue con qualche riflesso accolto da Guido Cagnacci nella Giuditta della Pinacoteca Nazionale di Bologna, fino ad arrivare al dipinto di Johann Liss, uno dei più originali dell’esposizione, un’invenzione molto studiata e calibrata, di gusto manierista, ma il cui realismo è reminiscente di ciò che l’artista tedesco aveva visto a Roma negli anni Venti. Il percorso si chiude infine con la quarta sezione, la più evanescente, poiché le tocca il non facile compito di mettere a confronto le iconografie di Giuditta, di Salomè e di David in uno spazio eccessivamente ristretto: l’obiettivo complicato è risolto in appena cinque dipinti che forniscono dunque solo qualche spunto. Va però evidenziato l’acuto finale del David e della Giuditta di Valentin de Boulogne, in prestito rispettivamente dal Thyssen-Bornemisza e dal Musée des Augustins di Bologna, a mettere in scena un congedo di altissimo livello con lo scopo di suggerire al visitatore come spesso, all’epoca, quadri con Giuditta e David venissero commissionati in pendant: non è il caso dei due quadri di Valentin, nati in contesti diversi e separati da un decennio, ma l’espediente d’esporre affiancati i due quadri trasmette bene l’idea.

Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne (1612 o 1617; olio su tela, 159 x 126 cm; Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte)
Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne (1612 o 1617; olio su tela, 159 x 126 cm; Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte)
Attribuito a Biagio Manzoni, Giuditta decapita Oloferne (secondo-terzo decennio del XVII secolo; olio su tela, 139 x 106 cm; Collezione Intesa Sanpaolo)
Attribuito a Biagio Manzoni, Giuditta decapita Oloferne (secondo-terzo decennio del XVII secolo; olio su tela, 139 x 106 cm; Collezione Intesa Sanpaolo)
Giovanni Baglione, Giuditta consegna la testa di Oloferne alla fantesca (1608; olio su tela, 220 x 150 cm; Roma, Galleria Borghese)
Giovanni Baglione, Giuditta consegna la testa di Oloferne alla fantesca (1608; olio su tela, 220 x 150 cm; Roma, Galleria Borghese)
Orazio Gentileschi, Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne (1621-1624 circa; olio su tela, 136,5 x 159 cm; Hartford, Wadsworth Athenaeum Museum of Art, CT. The Ella Gallup Sumner and Mary Catlyn Sumner Collection Fund)
Orazio Gentileschi, Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne (1621-1624 circa; olio su tela, 136,5 x 159 cm; Hartford, Wadsworth Athenaeum Museum of Art, CT. The Ella Gallup Sumner and Mary Catlyn Sumner Collection Fund)
Orazio Gentileschi, Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne (1608-1609 circa; olio su tela, 136 x 160 cm; Oslo, Nasjonalmuseet for kunst, arkitektur og design)
Orazio Gentileschi, Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne (1608-1609 circa; olio su tela, 136 x 160 cm; Oslo, Nasjonalmuseet for kunst, arkitektur og design)
Guido Cagnacci, Giuditta consegna la testa di Oloferne alla fantesca (1645 circa; olio su tela, 103,5 x 136,5 cm; Bologna, Pinacoteca Nazionale)
Guido Cagnacci, Giuditta consegna la testa di Oloferne alla fantesca (1645 circa; olio su tela, 103,5 x 136,5 cm; Bologna, Pinacoteca Nazionale)
Johann Liss, Giuditta con la testa di Oloferne (1624-1627 circa; olio su tela, 129 x 140 cm; Budapest, Szépművészeti Múzeum)
Johann Liss, Giuditta con la testa di Oloferne (1624-1627 circa; olio su tela, 129 x 140 cm; Budapest, Szépművészeti Múzeum)
Cristofano Allori, Giuditta con la testa di Oloferne (1610-1612 circa; olio su tela, 139 x 146 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Palazzo Pitti, Galleria Palatina)
Cristofano Allori, Giuditta con la testa di Oloferne (1610-1612 circa; olio su tela, 139 x 146 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Palazzo Pitti, Galleria Palatina)
Valentin de Boulogne, Giuditta con la testa di Oloferne (1626-1627 circa; olio su tela, 97 x 74 cm; Tolosa, Musée des Augustins)
Valentin de Boulogne, Giuditta con la testa di Oloferne (1626-1627 circa; olio su tela, 97 x 74 cm; Tolosa, Musée des Augustins)
Valentin de Boulogne, David con la testa di Golia (1615-1616 circa; olio su tela, 99 x 134 cm; Madrid, Museo Nacional Thyssen-Bornemisza)
Valentin de Boulogne, David con la testa di Golia (1615-1616 circa; olio su tela, 99 x 134 cm; Madrid, Museo Nacional Thyssen-Bornemisza)

Alla mostra di Palazzo Barberini, pur con le riserve cui s’è accennato, vanno poi riconosciuti i meriti d’aver creato, in un allestimento sobrio e dall’illuminazione prossima alla perfezione, un percorso di forte presa e di notevole impatto, e d’aver condensato numerose sollecitazioni in un itinerario d’appena ventinove opere. Non s’è fatto menzione sopra di altri spunti che forniscono nuovo materiale di dibattito agli studiosi: per esempio, Giulia Silvia Ghia, per il quadro d’ignoto fiammingo in collezione privata muove, con molta prudenza, il nome di Abraham Janssen. Ancora, Alessandra Cosmi accoglie un invito di Anna Maria Ambrosini Massari risalente alla mostra di Orazio Gentileschi a Fabriano di due anni fa e approfondisce le indagini su di un David con la testa di Golia di Girolamo Buratti. C’è poi la scoperta, cui è dedicato un breve saggio in catalogo, di Francesco Spina che pubblica un’inedita nota di pagamento in grado di dare ulteriore conferma della familiarità tra Caravaggio e Louis Finson. Per gli esperti, insomma, c’è di che discutere.

Il grande pubblico invece, tra entusiastici commenti rilasciati sui social, ha incoronato l’esposizione fin dai primi giorni d’apertura. Se la mostra va vista come un racconto, pur con qualche intoppo (per conoscere le premesse, per esempio, è indispensabile il catalogo: dai soli pannelli potrebbe sfuggire il perché della diffusione di dipinti dedicati alla storia di Giuditta) la narrazione procede spedita, godibile e incalzante. C’è la ricorrenza, ovvero il settantesimo anniversario dalla scoperta della Giuditta di Caravaggio da parte di Roberto Longhi, e quindi c’è la base per il racconto (che proprio dai fatti del 1951 prende avvio). Ci sono i capolavori, ci sono Caravaggio e Artemisia, c’è il teatro della realtà. E c’è una mostra che conforta ciò che il pubblico s’aspetta. Soddisfazione garantita.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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