Davanti agli occhi la massa imponente e minacciosa delle Alpi, nel cuore il desiderio dell’Urbe eterna, nella mente le immagini viste in patria sfogliando le Vedute di Roma di Piranesi. Possiamo immaginarli così, i viaggiatori che dall’Europa del nord calavano lenti sulla penisola italiana, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento: il Grand Tour cominciava sempre dopo aver letto, dopo aver studiato, dopo aver sognato. E tra i volumi che contribuirono ad alimentare il mito di Roma e delle sue antichità, un ruolo non secondario spettò alle raccolte di Giovanni Battista Piranesi, che conobbero una fortuna straordinaria: il successo arrise segnatamente alle sunnominate Vedute di Roma che, avviate verso il 1747, furono continuate dall’artista fino agli ultimi anni della sua carriera, con tavole sempre nuove che s’aggiungevano a cadenza pressoché annuale. Vendute singolarmente o a fascicoli, esercitarono, ha scritto Fernando Mazzocca, “una decisiva influenza sulla formazione di una concezione romantica dell’antichità classica, condizionando le nostre idee sulla civiltà romana”. Si contano, in tutto, centotrentotto tavole: la Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia figura tra gl’istituti che posseggono la raccolta completa. E il museo umbro, meritoriamente, ha deciso di tirarla fuori dai depositi, farla restaurare, ed esporne una selezione, di sessantuno pezzi, fino al prossimo 8 gennaio 2023, in una mostra intitolata Piranesi nelle collezioni della Galleria Nazionale dell’Umbria, curata da Carla Scagliosi.
I due volumi delle Vedute in possesso del museo furono tirati dopo la scomparsa del grande acquafortista, ma dalle matrici originali, quelle della Calcografia Piranesi, acquisite dalla tipografia parigina Firmin Didot Frères nel 1834 (i figli di Piranesi, Francesco e Pietro, s’erano trasferiti a Parigi fin dal 1799 dopo i fatti della Repubblica Romana), per poi essere cedute, nel 1838, alla Calcografia Camerale, ovvero la stamperia pontificia, che a sua volta avrebbe assunto la denominazione di “Regia Calcografia” dopo il 1870, l’anno dell’annessione di Roma al Regno d’Italia. Le Vedute della Galleria Nazionale dell’Umbria recano, giustappunto, il timbro a secco della Regia Calcografia, ma ancora non è stato possibile risalire all’esatta data della stampa: si può tutt’al più fissare il terminus a quo al primo anno d’attività della tipografia regia, e il terminus ad quem al 1917, anno a cui rimonta con tutta probabilità l’acquisto delle incisioni piranesiane, sulla base d’un documento contabile autorizzato dall’allora soprintendente Dante Viviani, scoperto proprio in occasione del restauro in vista dell’esposizione, condotto da Marta Silvia Filippini.
La mostra offre al visitatore della Galleria Nazionale dell’Umbria un saggio completo della Roma di Piranesi. Una Roma dove la nostalgia per la grandezza dei tempi antichi convive col senso d’una modernità inarrestabile e viva nelle sembianze dei palazzi e delle ville che prendono a inglobare le vestigia della città che fu, una Roma dove tra le rovine degli edifici sacri, delle terme, dei centri del potere s’aggira un’umanità assortita e affaccendata, tra individui loschi e miserabili che pensano a come arrivare salvi alla fine del giorno e aristocratici a passeggio appena scesi da una lussuosa carrozza, una Roma dove si muovono e si mescolano pastori, pescatori, operai, ladri, perdigiorno, lavandaie, signori, dame, preti, ciarlatani, viaggiatori. Una Roma indolente e ammaliante, puttana e vestale, magnifica nel suo declino, ingigantita oltre misura da quel senso del sublime del suo cantore, che anticipa il romanticismo e offre un’immagine grandiosa e terribile della città, tanto che Goethe, al contatto con la Roma vera durante il suo viaggio in Italia, ne sarebbe rimasto deluso: “le rovine delle terme d’Antonino e di Caracalla, riprodotte dal Piranesi con effetti alquanto fantastici”, si legge in un brano del suo Italienische Reise riportato nel catalogo della mostra, “non ci han potuto accontentare per nulla, da vicino, l’occhio assuefatto a quelle riproduzioni”. Piranesi sarà allora un innamorato infedele nei riguardi dell’immagine della sua amata (quale innamorato non lo è?), ma di quella “sì bella infedeltà” che piaceva “infinitamente”, come avrebbe riconosciuto Giovanni Ludovico Bianconi, che già agl’inizî dell’Ottocento s’era posto il problema della corrispondenza al vero del “calore” di Piranesi.
Mario Praz, parlando delle Vedute di Roma di Piranesi, ha scritto che nelle immagini dell’artista veneto si scorge “un’elegia drammatica della città antica, e insieme il primo vagito della città moderna; perché dalle colossali rovine purulente come cadaveri umani nasceranno in futuro i grattacieli inumani, i colossi geometrici delle città moderne”, e che Piranesi è “il primo a dare l’idea d’una metropoli fatta più a misura di titani che a misura d’uomo”. Tant’è che la selezione operata da Carla Scagliosi s’apre non con le immagini delle rovine antiche, ma con quelle della Roma moderna: superata la sala introduttiva, dove si viene accolti dal frontespizio e dalla videoinstallazione di Grégoire Dupond con musica di Teho Teardo (di cui si dirà più sotto), le incisioni che aprono la mostra dànno conto d’una città vivacissima. Ammiriamo la Fontana di Trevi ancora in costruzione (iniziata nel 1732, sarebbe stata inaugurata solo trent’anni dopo: nella veduta di Piranesi, manca buona parte delle statue), passeggiamo per piazza Navona colta da tutte le prospettive, giungiamo in piazza di Spagna che all’epoca non era poi così diversa rispetto a com’è oggi, entriamo in una piazza della Rotonda dove l’obelisco macuteo assume proporzioni ben più ampie di quelle vere (tipico delle vedute piranesiane) e dove il Pantheon è ancora affiancato dalle due “orecchie d’asino” di Bernini che sarebbero state abbattute solo a fine Ottocento, ci muoviamo in una piazza del Popolo gremita di carrozze eleganti che procedono però nella fanghiglia, non essendo le strade e le piazze pavimentate, e offrono così, con icastica immediatezza, parte dell’anima più profonda della Roma del tempo.
Non lontano, Carla Scagliosi offre al visitatore alcune vedute di chiese romane: spiccano la basilica di San Pietro col colonnato di Bernini anch’esso amplificato ben al di là delle reali proporzioni, per non parlare poi della facciata di San Paolo fuori le Mura, tanto esageratamente ciclopica da suscitare pure un certo timore. È il senso d’immensità, di grandiosità, la magniloquenza d’espressione di Piranesi che investe ogni angolo della Roma antica e moderna e consente incisioni tanto drammatiche da scuotere con forza il riguardante: un senso che nella veduta di San Paolo fuori le Mura, peraltro, è acuito financo dal violento chiaroscuro che getta in ombra tutta la fiancata della chiesa e con una lama di luce fa risaltare l’antica facciata, che sarebbe andata poi distrutta durante l’incendio del 1823. La grandezza di Piranesi sta del resto anche nel suo modo di costruire, esaltare, disgregare le forme attraverso gli effetti di luce (e si vedano poi i cieli, il virtuosismo dei loro effetti pittorici resi col mezzo dell’incisione, la finezza dei dettagli più minuti per i quali può bastare a esempio la sola veduta dell’isola Tiberina): questo soprattutto nelle Vedute più mature, e del resto andrà ricordato che la raccolta è frutto d’un lavoro trentennale da parte dell’artista, con tutte l’evoluzioni, le modifiche, i cambî d’idea cui può pervenire un artista in un lasso di tempo tanto lungo. Si trattava ad ogni modo, spiega la curatrice, “di piegare gli strumenti e le metodologie della rappresentazione tradizionale in senso scenografico per mezzo di espedienti quali l’amplificazione dei volumi, la prospettiva aerea, le visioni a grandangolo, l’isolamento artificioso, iconico, di monumenti o edifici, l’utilizzo di diversi punti di fuga, spesso esterni alla ‘finestra’ della raffigurazione, l’adozione del punto di vista ribassato o di tagli inediti, ai fini della dilatazione delle proporzioni e della resa magniloquente dell’immagine”.
La seconda sala è quella dedicata alla Roma antica: ecco allora la vedute del Colosseo, con la successione d’arcate che diventa quasi infinita e con scorci che per l’epoca erano tutt’altro che scontati (ci si riferisce, in particolare, alla veduta da lontano sulla parte più rovinata dell’anfiteatro Flavio, a includere anche l’arco di Costantino), e poi la basilica di Massenzio catturata con uno dei controluce più feroci di tutta la produzione piranesiana, le Terme antoniniane e quelle di Caracalla, con le loro rovine che dal vivo delusero Goethe perché non gli davano le stesse sensazioni che aveva provato guardandole sulle tavole. Le rovine degli edifici antichi, divorate dalla vegetazione spontanea, sono forse quelle che più e meglio sono entrate nell’immaginario collettivo, capaci del resto di suonare all’unisono con lo spirito d’un veneto che prima d’arrivare a Roma ne aveva ascoltato l’eco per il tramite delle architetture del Palladio e di Sammicheli: hanno contribuito a spingere generazioni di grand tourists verso l’Italia, hanno forgiato il mito d’una Roma trionfale, potente, vorace, imperiosa, eccentrica, così diversa rispetto alla Grecia dei neoclassici di stretta osservanza, e più di qualunque altra veduta piranesiana ci consegnano l’immagine del tempo che tutto travolge, che inghiotte glorie e ricchezze lasciando macerie dietro di sé, e ci trasmettono un senso delle rovine che anticipa Georg Simmel, residui inerti ed eloquenti della lotta che oppone la volontà dello spirito alla necessità della natura, tragiche testimoni di una civiltà morta, presagio di quel che sarà.
Operazione pregevole, dunque, quella della Galleria Nazionale dell’Umbria che recupera dai suoi depositi una selezione esauriente delle Vedute di Roma di Piranesi e offre al suo pubblico la non così frequente occasione di vedere, tutt’assieme, un nucleo ben rappresentativo della raccolta. E degna d’ogni lode la decisione della curatrice d’esporre tutte le incisioni senza l’interposizione dei vetri, così che sia davvero offerta al visitatore la non comune possibilità d’apprezzare da vicino, indugiando sui dettagli e osservandola senza filtri, tutta la sapienza tecnica con cui Piranesi incideva le matrici per giungere a quei risultati di così straordinaria precisione che sorprendono ogni volta che s’abbia il piacere d’ammirare i suoi fogli. “Nonostante il limite della monocromia dell’acquaforte”, scrive Scagliosi, “la tavolozza di Piranesi è ricchissima di innumerevoli tonalità di neri, dai più opachi ai più lucidi, e di una vasta gradazione di grigi, ottenute attraverso le ripetute morsure e le diverse profondità dei solchi creati dai bagni nell’acido o nell’incisione. Piranesi dimostra una profonda conoscenza delle tecniche incisorie, che sperimenta e piega a suo piacimento per rendere al meglio il pittoricismo che contraddistingue le sue opere”. Naturalmente, il restauro di Marta Silvia Filippini ha concorso in maniera sostanziale al risultato finale: i fogli, per effetto dell’azione del tempo, di vecchi restauri e di danneggiamenti subiti, presentavano piegature, ossidazioni, imbrunimenti, macchie, aloni cui Filippini ha posto rimedio con una prima, accurata pulitura, alla quale hanno fatto seguito il ripianamento delle superfici, il recupero delle lacerazioni e il risarcimento delle lacune, per terminare con la sistemazione dei fogli in passepartout di cartone ben più idonei alla conservazione rispetto alle cartelle in cui le tavole erano contenute in precedenza. E per finire, è stata compiuta una dettagliata campagna fotografica che ha condotto alla ripresa in alta definizione di tutte le tavole.
S’è detto sopra che l’ingresso alla mostra è accompagnato dalla visione di una videoinstallazione, che proietta il film d’animazione Piranesi, Carceri d’invenzione di Grégoire Dupond con colonna sonora di Teho Teardo (The Ghost of Piranesi: il 45 giri, splendida idea, è incluso nel catalogo): l’artista francese ha realizzato un cortometraggio che dà modo d’entrare nelle carceri piranesiane, per consentire allo spettatore di compiere una sorta d’indagine in tre dimensioni dentro la mente di Piranesi col tramite del suo lavoro più inquietante, che si vive in prima persona grazie anche alla musica di Teardo che cerca di trasmettere il senso di mistero, d’ansia, di turbamento che si prova osservando le Carceri d’invenzione. Un’esperienza sinestetica d’alto livello che dà modo di calarsi totalmente nell’universo di Piranesi. Ne risulta, nel complesso, una mostra sì di dimensioni contenute ma di suprema raffinatezza, un lavoro di grande qualità sui depositi che lascia alte aspettative per le prossime “puntate”: dopo le Vedute di Roma toccherà infatti alle Antichità d’Albano passare nei laboratorî di restauro. E in più, il lavoro fatto sui nuovi allestimenti, con conseguente riordino della Biblioteca della Galleria, ha portato a un’estesa riconsiderazione dell’intero patrimonio dell’istituto, incluso quello bibliografico, e la mostra sulle Vedute di Piranesi ne è il primo frutto. S’attende con piacere il prosieguo.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).