Ha esplicite e dichiarate mire di completezza la mostra sull’aeropittura futurista ch’è in corso fino al 3 luglio al Labirinto della Masone di Fontanellato: Dall’alto. Aeropittura futurista, la rassegna curata da Massimo Duranti che ha raccolto, tra pitture e sculture, un centinaio di frutti di quella stagione, si pone in effetti come un capitolo piuttosto esaustivo nella lunga sequela di mostre sul futurismo, e segnatamente sull’aeropittura, che si son succedute negli ultimi anni. La si potrebbe definire un’esposizione riepilogativa, e al contempo una fotografia contro i pregiudizî che hanno sempre accompagnato l’aeropittura futurista: per esempio l’idea che ci si trovi dinnanzi a un futurismo di seconda scelta, quando invece lo stesso Enrico Crispolti, che coniò la definizione di “Secondo futurismo”, precisò che si trattava d’una ricerca altra rispetto a quelle dei futuristi della prima ora.
Un fecondo tempo di studî sul tema ha contribuito a fugare in gran parte almeno le preclusioni più tenaci, cosicché oggi diventa sempre più difficile imbattersi in rifiuti ostinati. Eppure ancora non molto tempo fa, nel 2005, il critico d’arte del Guardian, Jonathan Jones, poteva scrivere che gli aeropittori futuristi deserve to be buried and forgotten for all eternity, or at least exhibited for what they are: documents of barbarism (“meritano di essere sepolti e dimenticati per tutta l’eternità, o al più di essere esposti per ciò che sono: documenti di barbarie”). S’era tenuta, quell’anno, una mostra sull’aeropittura futurista alla Estorick Collection di Londra: Jones riteneva insopportabili il legame che univa quegli artisti al regime fascista e le loro passioni belliche, ed evidentemente l’unico inferimento per lui possibile era una recensione rifilata col pennato, con conseguente accantonamento totale dell’aeropittura. Il lettore può star tranquillo: nessuno perdona ai futuristi sopravvissuti alla cosiddetta fase eroica del movimento la loro innegabile liaison col regime. L’argomento è però ben più complesso: l’aeropittura fu tendenza che si dipanò lungo vent’anni di storia del movimento futurista, che non si può far coincidere esclusivamente con le immagini dei bombardamenti della seconda guerra mondiale (le quali, anzi, costituiscono la fase terminale, oltre che quella più pervicacemente ideologica, d’un’esperienza che alla data del 1940 aveva già detto quasi tutto quel che doveva dire), che nacque da presupposti alieni all’esaltazione del fascismo, e che incluse anche artisti non interessati al regime, se non divenuti poi apertamente ostili. Andrà dunque rammentato, per esempio, che quando Tullio Crali, Tato e Alfredo Ambrosi s’eccitavano a dipingere gli aerosiluranti in azione durante le battaglie della seconda guerra mondiale, un altro aeropittore, Uberto Bonetti, veniva catturato dai fascisti perché aveva collaborato coi gruppi dei partigiani in azione lungo la Linea Gotica (e, peraltro, proprio un bombardamento gli avrebbe distrutto lo studio). Oppure che Fedele Azari, il capostipite degli aeropittori riconosciuto come tale dai colleghi, morì suicida ben prima che parte del movimento andasse in fregola per le visioni guerresche che popolano le opere degli anni Quaranta. O ancora che ci furono artisti che cambiarono radicalmente le loro idee. Si pensi a Olga Biglieri, la “Barbara aviatrice futurista” che dopo la guerra abbracciò il pacifismo senza esitare. O ancora a Regina Cassolo, che secondo Vanni Scheiwiller si sarebbe rifiutata di partecipare alla Biennale di Venezia del 1942 in polemica con il regime.
E, a proposito di Barbara e Regina (i futuristi spesso si firmavano o col solo nome, o con uno pseudonimo), al neofita che s’accosti per la prima volta a una mostra d’aeropittura futurista potrebbe risultare sorprendente constatare il numero di donne aeropittrici e aviatrici, specie se si pensa alle letture distorte che son state date del celebre passaggio del Manifesto del 1909 in cui Marinetti proclamava il “disprezzo della donna”. Ora, forse del futurismo si può dir di tutto, fuorché fosse un movimento misogino: è risaputo, intanto, che gli obiettivi della polemica di Marinetti fossero da un lato la donna romantica à la Fogazzaro, e dall’altro la femme fatale dannunziana definita dal poeta futurista “snob, vana, vuota, superficiale, culturale, annoiata, disillusa”, e che nel suo Come si seducono le donne del 1917 Marinetti aspirava al diritto di voto per le donne, all’abolizione dell’autorizzazione maritale, al divorzio facile, alla svalutazione della verginità, al libero amore. Si potrà dunque discutere la sua idea di donna, ma non gli si può contestare il fatto di voler escludere le donne dalla sua azione artistica e politica. È noto altresì che le donne furono elementi attivi del movimento, e addirittura uno dei manifesti più violenti, Progetto futurista di reclutamento per la prossima guerra, porta la firma d’una donna, Benedetta Cappa, moglie di Marinetti che fu anche pittrice oltre che firmataria del manifesto dell’aeropittura del 1933. Ma è anche vero che molte futuriste, forse perché meno estreme dei loro colleghi maschi, meno inclini ad assumere le loro pose eroiche, e ovviamente gravate dai preconcetti, sono andate dimenticate: la mostra del Labirinto della Masone ha anche il merito di dedicare all’esperienze di artiste come Leandra Angelucci Cominazzini e Marisa Mori, oltre alle già citate Barbara, Regina e Benedetta, un ruolo non meno centrale rispetto a quello degli uomini.
La mostra accoglie il pubblico col più noto dei capolavori degli aeropittori, Incedio città dell’umbro Gerardo Dottori, opera del 1926 che fornisce anche l’avvio cronologico dell’esposizione: le fiamme che l’incendio sprigiona assumono le forme di piccole piramidi, accese d’un arancio intenso, che inghiottiscono i tetti rossi d’un borgo colto dalla sciagura nel pieno della notte, e che fanno levare al cielo nubi di fumo rese in forma di cerchi leggeri, resi come fossero bolle cupe. Vuole la tradizione che Dottori avesse assistito in prima persona a un incendio scoppiato nella sua Perugia e che, memore di quell’evento, avesse deciso di tradurlo in un’immagine potente, una veduta dall’alto della città col cuore che s’incendia (la disposizione delle fiamme, del resto, ricorda la forma d’un cuore), dove si può forse leggere un rimando al topos futurista del fuoco che, distruggendo il vecchiume, purifica e libera. Dottori si può dire il primo aeropittore, malgrado i manifesti del 1931 e del 1933 avessero assegnato il ruolo di padre del movimento a Fedele Azari e alla sua Prospettiva di volo del 1926, assente in mostra ma richiamata da un disegno preparatorio, Architettura futurista, dello stesso anno. Prima di quella data, Dottori s’era già impegnato in altre vedute dall’alto, a cominciare da quella Primavera umbra che gli era riuscito d’esporre alla Biennale di Venezia nel 1924. L’idea di dipingere vedute aeree serpeggiava già tra gli artisti del tempo: a riprova, Duranti ha portato al Labirinto una grande tela, intitolata In volo, di Anselmo Bucci, pittore che non aveva niente a che fare col futurismo (anzi: fu tra i sette fondatori del gruppo Novecento, antitetico ai futuristi), e che si ritrovò a essere “aeropittore per caso”, come scrive il curatore. Le scaturigini di questa fascinazione per l’aria vanno però cercate ancor prima: occorrerà ricordare almeno il fortunato romanzo Forse che sì forse che no di Gabriele d’Annunzio del 1910, e prima ancora i “canti alati” degli Aeroplani di Paolo Buzzi, poesie futuriste lodate dallo stesso Marinetti che, proprio nel 1910, volava per la prima volta col pilota peruviano-croato Juan Bielovucic, in un’esperienza che gl’ispirò l’attacco del Manifesto tecnico della letteratura futurista e il romanzo del 1912 Le monoplane du pape.
Si può dunque affermare senza tema di smentita che i futuristi cominciarono a innamorarsi del volo quando Mussolini era ancora un agitatore di provincia che scriveva su fogli di rilevanza locale. Rimonta semmai agli anni Venti l’intuizione, anticipata come s’è visto da Bucci, di dipingere in volo: Dottori la attribuiva al giornalista Mino Somenzi, autore, nel 1928, d’un manifesto dell’aeropittura e dell’aeroscultura rimasto negletto fino al 2001, anno in cui fu riscoperto da Massimo Duranti, secondo il quale quel testo rappresentò l’“intuizione primigenia di un futurismo che si elevava da terra per guardare dall’alto”. Fu Somenzi, dunque, il principale ispiratore, la figura che, scrive Duranti nel catalogo della mostra, “intuì di ritrarre il paesaggio dall’alto, in velocità, inventando un mondo da vedere dall’aereo in volo” e trasmise l’idea a Marinetti, che ne fu entusiasta al punto da svilupparla poi nel manifesto del 1931. “L’elemento aviazione”, si legge nel manifesto di Somenzi, “irrompe con prepotenza nella vita e ne sconvolge materialmente e spiritualmente tutti gli ordinamenti passatisti. Crea implicitamente nuovi principi, nuove concezioni, nuove sensibilità: allarga tutti gli orizzonti della logica e della fantasia. L’arte è la prima a sentirne l’effetto. Aeropittura, aeroscultura, significa infatti sentire pittoricamente e sculturalmente dal punto di vista nuovo: altezza + spazio + movimento”. Quest’ultima, in sostanza, la triade dell’aeropittura secondo i dettami di Somenzi. La prima sala ordina in rapidissima successione i primi, e più interessanti, prodotti della risposta degli artisti alle intuizioni di Somenzi e alle formulazioni teoriche di Marinetti e degli altri firmatarî del manifesto tra i quali, per render conto della complessità del fenomeno, va menzionato almeno Giacomo Balla, che non fu mai aeropittore e che di lì a poco avrebbe lasciato il movimento, in polemica con certi suoi colleghi, mai esplicitamente nominati, che secondo lui avrebbero avuto la colpa di avervi aderito per opportunismo e arrivismo.
Si posson dividere in due grandi categorie le prime aeropitture, e il proposito di presentare al pubblico questa classificazione anima la prima sala della mostra: da un lato, è esistita un’aeropittura spinta da un afflato lirico, che talvolta s’accendeva di pulsioni cosmiche, e che vedeva nel volo una prospettiva nuova, un’opportunità d’elevazione, un modo ulteriore per superare gli schemi del passato. Dall’altro, c’è stata un’aeropittura dal carattere più spiccatamente documentario: poche tensioni verso l’infinito, se non nessuna, e desiderio di mostrare col pennello com’era la realtà da lassù. La pittura in volo è un fatto talmente nuovo che l’aeropittura della prima ora quasi si dimentica del mezzo adoperato per ottenere questa originale veduta sul mondo: nei dipinti dei primi anni spesso gli aeroplani non si vedono, ai pittori interessa offrire agli occhi del riguardante immagini inedite del paesaggio, immagini distorte, sintetiche, comprensive, immagini in grado di trasmettere caratteri di “folto sparso elegante grandioso”, come si legge nel manifesto del 1931. Ecco dunque i risultati delle novità: accanto a Incendio città di Dottori è stata disposta una turbinosa Acrobazia tra le nubi di Alessandro Bruschetti del 1934, che trascina l’osservatore in un vortice di nubi trasmettendo tutta la vertigine d’un volo sopra le campagne del Trasimeno, mentre sulla parete di fronte la velocità del volo consente a Benedetta di trasfigurare un paesaggio costiero in Ritmi di rocce e mare, opera del 1929 circa che rappresenta un’altra efficace traduzione per immagini di quel manifesto dell’aeropittura che si proponeva d’imporre il disprezzo per il dettaglio e la necessità di sintetizzare tutto.
Alla vena di poesia che intride la visione di Benedetta fa da contrappunto, sulla parete opposta, l’ebbrezza infervorata di Tullio Crali, che rimarrà fino all’ultimo tra i più convinti ed esaltati fedelissimi e che può esser considerato forse il più spettacolare tra gli aeropittori: il suo Incuneandosi nell’abitato è una delle immagini più celebri dell’aeropittura, veduta colma di testosterone d’un volo dalla prospettiva del pilota che s’infila tra i palazzi d’una città, “quasi un preludio al 3D” come sintetizza Duranti. All’esatto opposto, proseguendo nella sala, si collocano le visioni di Leandra Angelucci Cominazzini (In volo e Eliche in festa), per la quale il volo è anzitutto un fatto di luci e colori, una visione che assume le forme d’un sogno teso verso l’infinito. Si cambia registro con l’Aeropittura di Giovanni Korompay che registra un brano di cielo e montagne visto attraverso un continuo roteare di eliche, e con le vedute di Tato (Guglielmo Sansoni) e di Barbara, che offrono scorci di città dall’alto con intenti descrittivi.
La seconda sala restituisce la suggestione d’una quadreria futurista con dipinti e disegni di varî formati (il pubblico vi troverà soprattutto lavori di dimensioni ridotte, che però non perdono in vigore ed energia), continuando a indagare le diverse anime del movimento aeropittorico, con anche alcuni accostamenti tra dipinti e mobilia. Nell’angolo della sala è stata sistemata la sala da pranzo che Gerardo Dottori progettò per la famiglia Cimino di Roma, inclusa un’opera, Volo sull’oceano, ch’era parte integrante dell’arredo: è una delle visioni più oniriche dell’aeropittura, con il sole che sferza il mare e il cielo coi suoi raggi che diventano lame dorate, con l’arcobaleno che incornicia il moto burrascoso delle onde, con il cielo descritto in cerchi per dare l’impressione della velocità con cui l’aeromobile lo sta solcando. Tra i quadri che attorniano il capolavoro di Dottori, meritano una menzione l’Aereo sul lago di Wladimiro Tulli, sintesi estrema organizzata con la tecnica del collage, e due disegni del 1936 di Fortunato Depero, Aeroplani su Vienna e Scontro aereo: Depero non fu mai un aeropittore, ma si cimentò comunque in dipinti affini al genere praticato dai colleghi di movimento, come dimostrano questi due fogli dal vivace gusto narrativo.
All’angolo opposto della sala, un Mobile spaziale progettato da Fillia, alias Luigi Colombo, accompagna tre sue opere, che dànno conto al visitatore dell’anima più “cosmica” dell’aeropittura con alcuni dipinti come Mistero aereo e Nascita del paesaggio aereo: il volo, nei suoi dipinti, s’alza verso orizzonti misteriosi e imperscrutabili, alla conquista dello spazio, diventando quasi pittura astratta. Vicino alle opere di Fillia sono state invece sistemate quelle dell’ultimo futurista, Guido Strazza, appena ventenne quando fu invitato a partecipare alla Biennale del 1942, tuttora vivente, e presente in mostra con alcuni disegni di volo di quell’anno. Nella parete centrale la mostra dispiega alcuni dei lavori più interessanti di tutto l’itinerario di visita: vale la pena citare le astrazioni di Osvaldo Peruzzi, forse il più geometrico degli aeropittori (Verso l’alto è la sintetica rappresentazione del moto ascensionale degli aeroplani), e poi ancora il rapido volo di aeroplani su Reggio Emilia del summenzionato Uberto Bonetti, i coloratissimi Aerei di Enzo Benedetto e l’irriverente Vomito dall’aereo di Barbara: vuole la leggenda che questo quadro, dove tutti gli elementi del paesaggio si mescolano per suggerire le sensazioni fisiche del volo, abbia convinto Marinetti a far entrare nel gruppo dei futuristi la giovanissima pittrice lombarda, che doveva ancora nascere quando il teorico del gruppo sorvolava Milano assieme a Bielovucic.
Si conclude la visita nella sala ch’esplora le ricerche ultime dell’aeropittura. Le anime sono sostanzialmente due: da una parte, la pittura di quanti avevano cominciato a dipingere vedute aeree con taglio descritto sfocia nella raffigurazione di scene di battaglie aeree e bombardamenti, mentre dall’altra si susseguono artisti che, informa il pannello in sala, “realizzavano forme sempre più astratte, alludendo a messaggi filosofici e spirituali”, e alimentando l’idea che “il volo non significasse solamente sorvolare paesaggi o esaltare l’aeroplano, ma anche esplorare ambiti ignoti del cosmo”. Appartengono alla prima fattispecie le immagini retoriche d’un’aeropittura che diventa sempre più parodia di se stessa, come attestano da un lato le formulazioni teoriche di Marinetti (che nel 1941 pubblicava 56 aeropoetiche aeropittoriche esaltazioni della nostra guerra, in cui esaltava “il bombardamento entrato ormai nella vita dei popoli”, forniva le prescrizioni per renderlo al meglio sulla tela, e si autoincensava per aver celebrato il “patriottismo di guerra motorizzato e non di meno rovente d’italiana passione per l’arte”), o alcune opere in mostra come la Battaglia aeronavale di Osvaldo Peruzzi del 1939, i biplani che compaiono in un Senza titolo di Tato del 1940 circa, ma anche il Volo su Vienna di Alfredo Ambrosi del 1933 e le Eliche tricolore di Tullio Crali, che già nel 1930 lasciava intravedere come l’aeropittura avrebbe prestato il fianco all’ideologia, o per adesione convinta o per opportunismo. È vero che il futurismo non diventò mai ufficialmente arte di regime, ma ci aveva provato: ed è vero che Somenzi aveva tracciato dei confini ben distinti tra futurismo e fascismo, affermando con convinzione che il primo è arte e il secondo è politica, ma questa separazione non gl’impediva di scrivere nel 1933 che l’“aereovita” avrebbe ispirato l’attività artistica e anche politica “dell’Italia fascista creata dal genio futurista di Benito Mussolini aviatore”.
Più interessanti dunque i risultati dell’aeropittura cosmica, che procede con immagini vieppiù visionarie fino a sfiorare il misticismo: tendono verso questa direzione i dipinti di Enrico Prampolini, che da giovane auspicava il bombardamento delle accademie passatiste e in età matura produsse visioni come Isole nello spazio che quasi ricordano l’avanguardia surrealista, o ancora le astrazioni di Nicolaj Diulgheroff (esposto intelligentemente vicino a una Plasticità spaziale di Giacomo Balla del 1918, come a dire che è il torinese il padre di tutte le sintesi futuriste tendenti all’astrazione), o il Risveglio di Leandra Angelucci Cominazzini, un cielo che assume la forma di un occhio in un’immagine che riporta alla mente i lavori dei simbolisti. Chiude cronologicamente e idealmente la mostra una veduta di un altro artista che non ebbe niente a che spartire con gli aeropittori, il cimbro Rheo Martin Pedrazza, che nel 1958 dipinse una veduta a volo d’uccello d’una Dresda sfigurata dai bombardamenti della seconda guerra mondiale (furono questi, vien da pensare, i risultati della guerra decantata dai futuristi: era rimasta del tutto isolata la voce di Anton Giulio Bragaglia, l’autore del Fotodinamismo futurista, che già nel 1916 lanciava la sua esortazione per far sì che “prima della vittoria delle armi, s’ingaggi la guerravittoria civile del cervello e delle opere”). È un quadro che rappresenta un hapax nella carriera d’un artista che mai s’interessò di pittura dall’alto, ma che evidentemente non rimase immune al fascino di quella poetica, anche quand’era stata ormai sopraffatta dalla storia.
Non mancano in mostra anche le opere di aeroscultura, senza le quali una ricognizione sulla relazione tra il futurismo e il volo sarebbe stata necessariamente incompleta: sono sculture dalle forme allungate e verticali, come l’Oasi di pace di Umberto Peschi dove la serenità per lo scultore è un volo di aerei, e il Paracadutista in caduta di Renato Di Bosso, artista che “sintetizza l’azione, rendendola astratta, alla maniera di Boccioni” (così Duranti). Dalla mostra del Labirinto della Masone emerge dunque, in tutta la sua sostanza, un panorama ben più composito e molto meno compatto rispetto a quello che certe dozzinali volgarizzazioni ci hanno propinato negli anni. Al curatore Massimo Duranti va allora il merito d’aver ordinato una mostra esaustiva, onesta nell’affermare le proprie lacune (veniali: si tratta perlopiù di dipinti sui quali la mostra non ha potuto contare) e nel ribadire i legami che l’aeropittura ebbe col regime, in grado di presentare al pubblico un compendio minuzioso. Ma il merito principale, al di là del valido riordinamento storico (con cui s’è di nuovo riaffermato che la paternità dell’ideazione teorica del movimento spetta a Mino Somenzi, come s’è ricordato), sta nell’aver ordinato una mostra chiara e oltremodo accurata nel presentare le varie, molteplici, poliedriche e talora contrapposte tendenze che diedero forma all’aeropittura futurista. Dall’alto è, del resto, titolo che non poteva esser meglio centrato: perché, dall’alto, un mondo che non era stato ancora esplorato dalla prospettiva del cielo poteva esser visto in tanti modi. Con l’esaltazione di chi glorificava la potenza, anche distruttrice, del nuovo mezzo meccanico. Con la sensibilità poetica di chi individuava nell’aereo un modo per osservare il paesaggio come nessuno era mai riuscito prima. Con l’atteggiamento di chi riteneva che avvicinarsi alla vastità del cielo nutrisse lo spirito, elevasse l’anima alle stesse altezze, favorisse l’unione di se stessi con il cosmo. E la mostra riesce con grande efficacia a far emergere tutte queste anime.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).