Tutte le contraddizioni della Carta di Catania: no a sbrigative abdicazioni al privato


La Carta di Catania ha introdotto in Sicilia la possibilità di concedere in uso a privati, per un periodo da due a tre anni, opere e reperti dai depositi dei musei pubblici. Quali sono i problemi? Ne parliamo con un giurista, Sergio Foà, e un archeologo, Clemente Marconi.

È approdata all’ordine lo scorso 12 novembre, in Commissione Cultura dell’Assemblea Regionale Siciliana, con audizione dell’assessore regionale per i beni culturali e l’identità siciliana Albero Samonà. Stiamo parlando della “Carta di Catania”, il decreto con cui la Regione Siciliana vuole concedere in uso a pagamento ai privati i beni culturali dei suoi depositi. L’audizione è stata, quindi, rinviata a martedì prossimo con la richiesta dei parlamentari del M5S di ascoltare le voci autorevoli dei tecnici che hanno espresso forti preoccupazioni.

Dopo l’intervista a Settis, che l’ha bocciata, e le critiche da parte di Legambiente, Italia Nostra, Associazione Nazionale Archeologi, Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli di Roma, Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali, si è unito a stretto giro il coordinamento Sicilia di ICOM Italia e il tema è rimbalzato sul “Il Fatto Quotidiano” e a più riprese su “La Repubblica”.

La soglia di allerta va tenuta alta, perché non sarebbe la prima volta che la competenza esclusiva in materia e la potestà legislativa primaria consentirebbero alla Regione Siciliana autonoma di discostarsi dal dettato del Codice dei beni culturali o interpretarlo “creativamente”. In senso peggiorativo, beninteso. Tra i precedenti più recenti, la disciplina dei prestiti è stata modificata così da rimettere la decisione all’organo politico (l’Assessore dei beni culturali), sottraendola a quello tecnico, come invece previsto dal Codice (art. 48), appunto. Con buona pace del principio dell’ordinamento giuridico per cui gli uffici pubblici si distinguono in organi di indirizzo e controllo da un lato, e di attuazione e gestione dall’altro.

Tornando, dunque, alla “Carta di Catania”, data la non poca confusione creatasi per effetto dei tre documenti (la Carta vera e propria; il primo decreto del 30 novembre 2020 e le “linee guida” del 10 dicembre 2020), il reportage su “La Repubblica” (“Sicilia, l’altra faccia dei musei: i tesori invisibili conservati nei depositi”) ha avuto il merito di chiarire una volta per tutte che da sempre, senza bisogno di leggi e leggine ad hoc, i depositi siciliani sono stati aperti ad importanti scoperte, in alcuni casi andando a implementare le esposizioni permanenti; che si tratta di beni che sempre sono stati sia prestati ad altre sedi sia punto di riferimento per gli studiosi. E che, si legge ancora, la Regione da sempre “ha prestato reperti per mostre temporanee nei musei di tutto il mondo”.

Ma se i “prestiti” dai depositi sono sempre avvenuti in passato, che bisogno c’era di una nuova norma? Il fatto è che, altro effetto di quella confusione, essa regolamenta le concessioni in uso, non i prestiti. E dato che lo stesso assessore che ha firmato il decreto non sembra avere le idee chiare, su questo punto abbiamo deciso di sentire il parere di un autorevole giurista, Sergio Foà, Ordinario di Diritto amministrativo all’Università degli Studi di Torino. Samonà, infatti, a “La Repubblica” dichiara che grazie alla Carta i beni potranno essere “prestati per esposizioni temporanee”, cioè per le mostre, della durata di pochi mesi, per le quali si istruiscono pratiche di prestito e non di concessione in uso, che si differenziano per una maggiore durata. Nel decreto si parla, infatti, di una concessione della “durata compresa tra i due ed i sette anni, prorogabili tacitamente una sola volta”.

Del resto, un esempio di come si possa fare bene senza bisogno di inventarsi nulla che già non ci sia viene dalla stessa Catania. Al Castello Ursino si è approfittato della chiusura imposta causa Covid per una riorganizzazione senza precedenti dei depositi, utilizzando il personale comunale solitamente impiegato nei musei cittadini per il momento inaccessibili, e guardando in prospettiva all’ampliamento del museo civico e della rete museale cittadina.

Ma la carrellata di beni e opere d’arte del reportage rende evidente anche un’altra cosa: che proprio quelli non siano i beni oggetto della Carta siciliana. Per essere concessi in uso i beni, infatti, devono essere solo quelli “acquisiti per confisca” o “di più vecchia acquisizione di cui sia stata smarrita la documentazione” o privi di “riferimento al loro contesto di appartenenza” (art. 3 del D.A. n. 74 del 30/11/2020). Cosa c’entrano, dunque, i reperti dalle tredicimila tombe scavate a Himera, di cui appunto si conosce il contesto di proveneinza? O il Cristo portacroce di Mario Minniti, che nemmeno appartiene al Museo Regionale di Messina, essendo in deposito dalla Fondazione Lucifero di Milazzo? Come potrebbe la Regione cedere in uso un bene di cui non è proprietaria?! Un “tesoro”, poi, non proprio del tutto “invisibile”, dato che il suo bravo deposito lo ha lasciato per una mostra a Tokyo e Okazaki nel 2001 e 2002 e una nella stessa Messina nel 2017. Ma quali sono, allora, facendo degli esempi concreti, i beni che verranno concessi? Al momento non è dato sapere. Eppure si deve avere già in mente qualcosa, senza dover attendere che studenti o volontari redigano gli elenchi previsti dal decreto.

Per cercare, allora, di rimettere ordine e capire meglio, questa volta abbiamo ascoltato Clemente Marconi, professore all’Institute of Fine Arts della New York University e ordinario all’Università degli Studi di Milano, e che con l’Assessorato Regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana collabora dal 2006, per la missione che dirige a Selinunte, e che nei depositi del museo Salinas di Palermo ha scoperto oltre 200 preziosi frammenti di metope proprio da Selinunte.

Un altro esempio, che calza a pennello, della necessità irrinunciabile che sia un occhio “esperto” a passare in ricognizione il patrimonio da concedere in uso, è offerto dal riconoscimento da parte di una funzionaria dell’Assessorato regionale, Lucia Ferruzza, dei riccioli appartenente alla Testa di Ade, in deposito dagli anni ’70, prima nei magazzini di Agrigento, poi di Aidone. Uno di questi riccioli era stato pubblicato nella tesi di laurea dell’allora studentessa Serena Raffiotta, che senza il confronto con la funzionaria non sarebbe arrivata a quel riconoscimento, preludio alla restituzione dell’opera nel 2016 da parte del Getty Museum di Malibù.

Sulla necessità dell’occhio esperto devono essersene resi conto anche in Assessorato, tanto che nelle Linee guida emanate a stretto giro dalla nostra intervista a Settis, oltre ai tirocinanti universitari sono stati aggiunti i “volontari delle associazioni culturali che abbiano adeguati titoli”. Apriti cielo, messa una toppa si è aperta una voragine per le forti preoccupazioni sull’ipotesi di sfruttamento di specialisti qualificati, manifestate in particolare da Ana, Associazione nazionale archeologi, e gruppo Mi riconosci.

Abbiamo chiesto anche a Samonà di rispondere alle critiche. L’assessore giornalista ha preferito farci pervenire attraverso il suo addetto stampa una laconica mezza riga, in cui ci rinvia alla lettura dei due decreti, “evidenziandone l’aderenza allo spirito e ai contenuti del Codice dei Beni Culturali”. Per capire se sia così passiamo la parola al professore Foà.

L'Antiquarium di Himera. Ph. Credit Davide Mauro
L’Antiquarium di Himera. Ph. Credit Davide Mauro


Mario Minniti, Cristo portacroce (olio su tela, 125 x 95 cm; Messina, Museo Regionale, in deposito dalla Fondazione Lucifero di Milazzo)
Mario Minniti, Cristo portacroce (olio su tela, 125 x 95 cm; Messina, Museo Regionale, in deposito dalla Fondazione Lucifero di Milazzo)

Il parere di Sergio Foà, Ordinario di Diritto amministrativo all’Università degli Studi di Torino

A Sergio Foà abbiamo chiesto di commentare la possibile contraddizione, nei decreti assessorili in questione (numeri 74 e 78 del 2020), tra richiami alla disciplina dei prestiti e riferimento all’istituto della concessione d’uso dei beni culturali. In particolare, infatti, abbiamo notato che i provvedimenti in esame rinviano a precedenti decreti assessorili (del 2013 sull’“uscita dal territorio regionale” e del 2019 sui prestiti temporanei) che disciplinano la materia dei prestiti, quando l’oggetto del decreto è la concessione in uso dei beni culturali (art. 106 del D.lgs. 42/2004).

Le riflessioni di natura giuridica, intrecciate con altre di natura economica e politica, confermano la nostra tesi.

“Per inquadrare il tema”, spiega Foà, “occorre comprendere l’esatta portata degli istituti giuridici di riferimento. Il fine perseguito dagli stessi decreti è letteralmente la valorizzazione e la pubblica fruizione dei beni demaniali e patrimoniali in giacenza nei depositi regionali (artt. 1 e 5 del decreto n. 74 e intero impianto del decreto n. 78, sulle ‘linee guida’ per l’avviso per la concessione in uso). Ora, non vi è dubbio che la valorizzazione dei beni pubblici degli istituti e luoghi di cultura e la destinazione alla pubblica fruizione sia espressione di un servizio pubblico, come si evince chiaramente dallo stesso Codice dei beni culturali (art. 101, comma 3). Il servizio pubblico è obbligatorio, quindi impone all’ente titolare di rendere i beni fruibili alla collettività, scegliendo la forma di gestione del servizio ritenuta più appropriata tra quelle offerte dall’ordinamento: quando la scelta ricade sulla gestione indiretta, si procederà ad affidare il servizio di valorizzazione mediante concessione a terzi, all’esito di una procedura ad evidenza pubblica. Tale obbligo di servizio pubblico riguarda tutti i beni culturali di cui l’ente è titolare, quindi non può essere escluso per i depositi. Nel caso di specie, per contro, la scelta effettuata è diversa, perché l’istituto richiamato dal primo decreto assessorile è la concessione in uso dei beni culturali, non già la concessione del servizio di valorizzazione. La differenza è importante perché rivela una scelta: per i beni dei depositi museali non si sceglie un concessionario che li valorizzi all’interno dell’istituto di cultura, ma piuttosto un soggetto che si impegni, mediante un progetto di valorizzazione, a valorizzarli altrove per un periodo tra i due e i sette anni, peraltro prorogabile per una volta, a fronte di un corrispettivo. Si tratta quindi di una rinuncia a una forma di valorizzazione da parte dell’istituto di cultura e della Regione: la circostanza che i beni non siano attualmente destinati alla pubblica esposizione non implica, infatti, che non sussista parimenti l’obbligo di valorizzarli e, quindi, di renderli fruibili primariamente in loco, perfino quelli ‘deprivati di ogni riferimento al loro contesto di appartenenza’”.

In altre parole, la Regione ha scelto di trasferire le proprie responsabilità ai privati, invece che restituire competenza alle istituzioni. Il giurista passa, quindi, alle carenze e contraddizioni dei decreti: “La scelta che si è operata”, prosegue Foà, “è quindi di disciplinare una concessione in uso dei beni e non una concessione del servizio di valorizzazione, ma i richiami normativi, all’interno dei decreti, non corrispondono. È richiamato, infatti, l’art. 106 del Codice dei beni culturali (Uso individuale di beni culturali) che prevede la possibilità di concedere, a titolo oneroso (a fronte di canoni) l’uso dei beni culturali in consegna, per finalità compatibili con la loro destinazione culturale, a singoli richiedenti. Ma la disciplina dedicata alla concessione è invece quella del servizio di valorizzazione (sono richiamati gli artt. 112 e 115 del Codice: art. 5 del decreto n. 74 e art. 2 del decreto n. 78). Se è vero che nella pratica possono rinvenirsi casi di contratti di concessione a oggetto misto, nel nostro caso i due istituti sono diversi, perché diversa è la disciplina dettata dal Codice dei beni culturali e diverse sono le finalità perseguite (una valorizzazione del bene come servizio pubblico è ben diversa da una concessione dell’uso a un terzo fuori dalla sede dell’istituto di cultura). I richiami operati dai decreti in esame alla disciplina sulla valorizzazione probabilmente tendono a mitigare questa aporia e questa debolezza della scelta effettuata, che è fondata sulla presunzione che concedere il bene in deposito museale a terzi sia l’unico modo per valorizzarlo”.

Ma non solo: il prestito è cosa diversa dalla concessione in uso. “L’altro profilo d’imprecisione riguarda i richiami alla disciplina sui prestiti dei beni culturali, che il primo decreto opera mediante rinvio a precedenti decreti assessorili”, sottolinea Foà. “È noto che il prestito dei beni culturali è istituto tipizzato all’art. 48 del Codice dei beni culturali, che lo ammette per mostre e esposizioni, e dall’art. 66 sull’uscita temporanea all’estero, per ciò solo rendendolo distinto da un rapporto concessorio di durata, come quello pluriennale che invece è qui disciplinato. Alcuni autori ritengono che il prestito sarebbe riconducibile al contratto di comodato, disciplinato dal codice civile, quindi essenzialmente gratuito, e che tale modello non sarebbe applicabile ai beni demaniali e ai beni del patrimonio disponibile, con la conseguenza che anche al prestito sarebbe applicabile la disciplina della concessione. Si tratta di una lettura che enfatizza l’aspetto economico della valorizzazione, perché mira a estendere il carattere oneroso della concessione anche ai casi di prestito. L’affermazione è solo in parte corretta: è vero infatti che la pubblica amministrazione non può disporre dei beni demaniali e del patrimonio indisponibile mediante contratti di diritto privato, ma ciò non toglie che il ‘prestito’ sia istituto diverso dalla ‘concessione in uso’” del bene”. Insomma, siamo di fronte alla non infrequente “tentazione” di unire i due istituti, frutto di una interpretazione della valorizzazione in termini prettamente economici. Ricondurre il prestito al genus della concessione è, infatti, quanto meno conveniente perché genera un’entrata.

“La stessa disciplina del Codice dei beni culturali sui prestiti ammessi”, conclude Foà, “sia pure laconica, conferma che l’istituto del prestito è tipizzato e distinto ed è quindi utilizzabile solo per le finalità ivi descritte. Nel nostro caso, in altre parole, la questione verte sulla scelta preferenziale per un corrispettivo ottenuto dal concessionario rispetto alla valorizzazione del bene nell’istituto di cultura o comunque nell’ambito della Regione. Anche sotto tale profilo, quindi, il primo decreto assessorile qui in esame pare confuso, perché richiama una precedente disciplina regionale sui prestiti, oltre alla disciplina sul servizio di valorizzazione, mentre il suo oggetto è la concessione in uso dei beni culturali”.

Non è difficile immaginare come con dispositivi normativi così approssimativi si rischi di mettere in difficoltà l’amministrazione regionale in caso di giudizi davanti al Tar, perché, anche se si volesse forzare il dettato giuridico per ricondurre il prestito alla concessione, ci si scontrerebbe con l’incontrovertibile dato che il prestito ha un fine e una durata ben diversi dalla seconda.

Sergio Foà
Sergio Foà


Clemente Marconi
Clemente Marconi

Clemente Marconi, professore all’Institute of Fine Arts della New York University e ordinario di Archeologia Classica all’Università degli Studi di Milano

Dalle pieghe formali e normative passiamo ai contenuti dei decreti. Clemente Marconi si sofferma, anzitutto, “su alcuni elementi generali a sfavore della ‘Carta’. Scopo del documento è di disciplinare la concessione in uso di beni culturali appartenenti al Demanio e al patrimonio della Regione Siciliana in giacenza nei depositi degli istituti periferici, come musei e soprintendenze, introducendo, in particolare, la concessione a pagamento. Così facendo, la ‘Carta’ fa esplicito riferimento al Codice dei Beni Culturali, malgrado l’articolo 6 di tale Codice parli di valorizzazione come attività intesa a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale, ‘non a far cassa’, come scritto da Settis: con un linguaggio forse crudo ma che riflette l’enfasi della ‘Carta’ sul pagamento ai fini della concessione in uso dei beni e le sue diverse modalità (si veda al riguardo l’articolo 6, il più lungo del decreto)”.

“Il secondo problema della ‘Carta’”, prosegue Marconi, “è il suo riferimento a beni culturali ‘in giacenza nei depositi regionali’. Come recita l’articolo 2 del decreto, ‘costituisce precondizione essenziale per la concessione in uso [...] la circostanza che i beni culturali non siano destinati alla pubblica esposizione’. È evidente che l’intera struttura del decreto è basata su una dicotomia tra opere giacenti nei depositi e opere esposte al pubblico e su un modello statico di museo. Tale modello potrebbe apparire molto pratico e in linea con diverse realtà locali, ma temo sia oggi anche antiquato. Per rimanere al mio campo di indagine, l’arte antica, sul piano del valore da dare alle opere, siamo oggi ben al di là della distinzione (considerata da molti elitaria e dannosa per lo studio della storia dell’arte antica nel mondo contemporaneo) tra opere maggiori e opere minori: i ‘capolavori’ nelle esposizioni principali (e permanenti) e le opere di ‘minore qualità’ nei depositi, in quanto inutili e ingombranti. Le opere ‘minori’ in realtà hanno spesso un ruolo cruciale per la conoscenza degli artigiani antichi, delle loro tecniche, e delle aspettative di una grande fetta del pubblico dell’arte antica. Per uno storico dell’arte nella tradizione dell’estetica Ottocentesca, esposizione principale (e permanente) e depositi potrebbero essere concepite come due realtà separate e impermeabili; ma per chi abbia presente la realtà contemporanea dello studio dell’arte antica, non ci dovrebbero essere barriere tra i due spazi, nulla giace, e tutto è in movimento. Non per un caso, negli ultimi due decenni, un problema centrale per molti musei a livello internazionale è stato di risolvere la dicotomia tra esposizione principale e depositi, nel senso della valorizzazione dei secondi. Basti citare il caso della nuova esposizione (2007) delle Gallerie di Arte Greca e Romana del Metropolitan Museum, che ha riservato un ampio spazio per una ‘Study Collection’ pienamente fruibile al pubblico, permettendo di osservare migliaia di opere, dall’epoca Neolitica alla Tarda Antichità, disposte in maniera compatta ma chiara, con computer con monitor touch screen che forniscono al visitatore tutte le informazioni necessarie. Una Study Collection, naturalmente, contigua (al Mezzanino) all’esposizione principale, in quanto le opere dell’una rimandano immediatamente all’altra e tutte insieme parlano del museo, della sua storia, e della sua identità”.

L’illustre archeologo prosegue, quindi, nel commento letterale del testo giuridico. “Per esperienza personale devo poi esprimere dubbi sull’elenco dei beni ‘in giacenza nei depositi’ destinati alla concessione in uso, che nella ‘Carta’ appaiono articolati in tre categorie: beni acquisiti per confisca; beni donati o consegnati spontaneamente; o beni ‘di più vecchia acquisizione di cui sia stata smarrita la documentazione e, in generale, quelli deprivati di ogni riferimento al loro contesto di appartenenza’. Le prime due categorie meriterebbero un commento a parte (declassare beni sottratti al commercio clandestino o donati potrebbe apparire controproducente, da vari punti di vista: certamente per chi come me da anni è impegnato contro il traffico illecito di beni archeologici, spesso dalla Sicilia, verso gli Stati Uniti), ma mi concentrerò sulla terza, che considero davvero problematica”.

E qui Marconi introduce a titolo di esempio la sua personale esperienza con le metope selinuntine. “Giacevano in centinaia di frammenti nei magazzini del Museo Archeologico Regionale di Palermo ‘Antonino Salinas’ fin dal 1823, e della loro identità si era persa ogni cognizione nel corso del tempo. Grazie alla loro attribuzione ai vari cicli scultorei da Selinunte, diversi di questi frammenti sono stati ricongiunti, oltre che tra loro, ad opere esposte nella Sala delle Metope, e diversi di questi ricongiungimenti fanno ora parte del nuovo allestimento del ‘Salinas’”.

Cosa sarebbe accaduto, invece, seguendo il dettato della “Carta”? “Che questi materiali, di cui si era apparentemente perso ogni riferimento al loro contesto d’appartenenza”, risponde Marconi, “si sarebbero potuti dare in concessione in uso, rendendo con ciò impossibile, tramite il conseguente smembramento del materiale, la possibilità di analizzare i frammenti contestualmente ed effettuare i ricongiungimenti. Più in generale, personalmente credo che scopo primario dei musei debba essere non solo l’organizzazione e cura dei depositi pari a quella dell’esposizione principale, ma anche l’identificazione delle provenienze dei materiali adespoti tramite ricerche di archivio e il contributo di specialisti. A costo di apparire paradossale, la mia personale opinione è che dovrebbero essere soprattutto quei beni di cui si è apparentemente perso il contesto di appartenenza, e il cui effettivo potenziale per la ricerca e valore non è chiaro, a dover essere custoditi gelosamente nei depositi”. Ecco che, dunque, ci troviamo di nuovo di fronte a un’altra forma di devoluzione ai privati di responsabilità di pertinenza istituzionale. E aggiunge, “a essere ancora più paradossale, rispetto alla ‘Carta’, mi chiedo poi quanto sia possibile stabilire l’effettivo valore economico di beni appartenenti a questa terza categoria”.

Come altre voci autorevoli che hanno già espresso forte preoccupazione per questi decreti, anche Marconi fa salve le premesse sul piano ideale. “Dopo avere espresso questi dubbi sulla ‘Carta di Catania’ in uno spirito di critica costruttiva, devo però anche aggiungere che il suo punto di partenza, ovvero l’intento di valorizzare i beni culturali nei depositi degli Istituti periferici regionali, mi pare più che apprezzabile e auspicabile. Anche i depositi dei musei siciliani sono, per usare le parole di Settis, ‘una specie di riserva aurea di una ricerca che è da venire’ e l’impegno dell’Assessorato a valorizzarne i materiali è assolutamente meritorio”.

La questione del coinvolgimento degli studenti tirocinanti la vede, invece, da un punto di vista differente da Settis: “condivido con la ‘Carta’ l’idea di coinvolgere per la catalogazione dei beni nei depositi, oltre ai catalogatori, ‘studenti universitari in discipline connesse alla conservazione dei beni culturali’”. Ma allo stesso tempo conferma che attività di ricerca e schedatura da parte degli studenti avvengono già da prima del decreto assessorile sotto la forma di convenzioni con le Università, come quella tra la Statale di Milano e il Salinas. E alla fine finisce per convergere con le preoccupazioni di Settis: “naturalmente, le carenze in organico nei musei vanno risolte con nuove assunzioni, e in nessun modo il coinvolgimento di studenti universitari può servire da palliativo: sono sicuro che l’Assessorato Regionale ne convenga pienamente. Ma è un fatto che il coinvolgimento degli studenti universitari in forme di tirocinio (come sovente accade per gli studenti delle scuole di specializzazione) legate alla valorizzazione dei beni nei depositi dei musei sia imprescindibile per la loro formazione, nella quale il deposito diventa l’equivalente di un laboratorio di ricerca. Tuttavia, auspicherei che tale coinvolgimento di studenti universitari passasse attraverso convenzioni tra università e Istituti regionali, come del resto già accade oggi, inclusa la Statale di Milano dove insegno, creando sinergie che contribuiscano sia alla valorizzazione dei materiali nei depositi che alla formazione degli studenti, diretti nella ricerca e nella catalogazione dal personale qualificato dei musei e dai docenti universitari. A quest’ultimo riguardo, desidero sottolineare come l’attività di inventariazione e catalogazione di beni conservati nei depositi sia tutt’altro che elementare e ‘innocente’, richiedendo sovente uno sforzo interpretativo cospicuo, che esige una coordinazione scientifica ai massimi livelli (dal lato dei musei come dell’università): l’esperienza di catalogazione, per se, non basta, e meno che mai la buona volontà”. E torniamo anche qui alla questione dell’imprescindibile sorveglianza a monte dello studente da parte di un occhio esperto.

Marconi conclude con “un suggerimento alternativo rispetto alla ‘Carta di Catania’, e su un punto fondamentale. Proporrei, come luogo di valorizzazione dei beni custoditi nei depositi regionali, non altri luoghi pubblici e privati, ma proprio gli Istituti periferici, come i Musei, che li ospitano. In questa mia proposta sono chiaramente condizionato dai miei 20 anni di vita a New York, e dalla frequentazione e talora interazione e collaborazione con musei come il Metropolitan e il MoMa: la cui filosofia è di riallestire periodicamente le esposizioni principali facendo ampio ricorso ai materiali nei depositi e di proporre nuove mostre, ogni anno, che valorizzino tali opere. Sulla base di questa esperienza, ritengo che la soluzione ideale per la giusta valorizzazione dei beni nei depositi sia, per l’Assessorato, quella di incentivare gli Istituti periferici a proporre analoghi riallestimenti o nuove mostre periodiche, che attingano sistematicamente al patrimonio nei depositi. Un processo di continua metamorfosi delle collezioni e di nuova offerta di mostre, basato sui beni nei depositi, che non può non avere ricadute benefiche sul volume dei visitatori degli Istituti periferici. Una grande opportunità di cui non privarsi, in Sicilia come a New York”.

Alla fine, dunque, è interessante vedere come due specialisti in discipline tanto diverse convergano: contro sbrigative abdicazioni al privato delle proprie responsabilità pubbliche la migliore forma di valorizzazione deve avvenire negli stessi istituti pubblici, dove solo può essere garantita quell’osmosi tra esposizione e riserve.


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Silvia Mazza

L'autrice di questo articolo: Silvia Mazza

Storica dell’arte e giornalista, scrive su “Il Giornale dell’Arte”, “Il Giornale dell’Architettura” e “The Art Newspaper”. Le sue inchieste sono state citate dal “Corriere della Sera” e  dal compianto Folco Quilici  nel suo ultimo libro Tutt'attorno la Sicilia: Un'avventura di mare (Utet, Torino 2017). Come opinionista specializzata interviene spesso sulla stampa siciliana (“Gazzetta del Sud”, “Il Giornale di Sicilia”, “La Sicilia”, etc.). Dal 2006 al 2012 è stata corrispondente per il quotidiano “America Oggi” (New Jersey), titolare della rubrica di “Arte e Cultura” del magazine domenicale “Oggi 7”. Con un diploma di Specializzazione in Storia dell’Arte Medievale e Moderna, ha una formazione specifica nel campo della conservazione del patrimonio culturale (Carta del Rischio).





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