“What is worth more, art or life?”. Ecco, se le due attiviste che hanno lanciato la salsa di pomodoro contro il vetro che protegge i Girasoli di Van Gogh avessero studiato un poco di più, evidentemente si sarebbero ben guardate dal porre la questione in termini così perentoriamente manichei: per Van Gogh non esisteva distinzione tra arte e vita. Van Gogh era convinto che l’arte fosse il mezzo per osservare, vedere, sentire la natura “attraverso un temperamento”. Così scriveva, l’11 luglio del 1883, in una lettera al fratello Theo, riprendendo un passaggio che aveva letto in un articolo di Zola (“un’opera d’arte è un angolo del creato visto attraverso un temperamento”). Ma non solo. Van Gogh, artista di grande cultura e avido lettore, ancora scrivendo al fratello il 19 giugno 1879, aveva fatto sua una definizione piuttosto nota di Francesco Bacone, che doveva aver letto da qualche parte in francese, dato che in tale lingua la riporta, in una missiva scritta in olandese: Ars est homo additus naturae. “Non conoscono una definizione migliore della parole Arte”, scriveva a Theo, “di questa: ‘L’Art c’est l’homme ajouté à la nature’: natura, verità, ma con un significato, con un’interpretazione, con un carattere che l’artista fa emergere e al quale dà espressione, che libera, che rivela, rilascia, delucida”.
Tra arte e vita, tra arte e natura vige, secondo Van Gogh, una sincera e totale sovrapposizione. Il grande artista conosceva bene (anzi, li amava) i pittori della scuola di Barbizon che a loro volta muovevano da Rousseau e dalla sua sensibilità nei riguardi della natura, che ovviamente non poteva ammetterne uno sfruttamento utilitaristico. La natura è vita e per Van Gogh, che ha trascorso la quasi totalità della sua esistenza immerso nella natura, l’arte è il mezzo con cui si cerca di trasmettere al prossimo la vitalità della natura. Insomma, Vincent van Gogh era l’artista più sbagliato per un’azione mossa dalla rispettabile e più che condivisibile intenzione di sensibilizzare il pubblico sulla necessità di rispettare e preservare la natura per garantire un futuro alle prossime generazioni.
Qualche giorno fa, la rivista Frieze ha avuto l’idea di intervistare le due attiviste facendo emergere ulteriori dettagli: le giovani hanno ribadito la scelta di protestare lanciando pomodori contro Van Gogh perché un’azione del genere sarebbe capace di provocare una “gut reaction” nelle persone (che, a loro detta, risponderebbero dicendo “voglio proteggere questa cosa che è bella e ha valore”), perché Van Gogh era un “artista povero” e “se fosse stato vivo oggi, sarebbe stato tra coloro che quest’inverno sarebbero stati costretti a scegliere tra mangiare o scaldare la propria abitazione”, e perché “il dipinto è protetto da vetro, ma milioni di persone nel sud del mondo non sono protette e le generazioni future non sono protette”. Più che ragioni teoriche per rivendicare un’azione contro le attività che accelerano il cambiamento climatico, paiono slogan da liceali. Lasciando perdere le boutade su cosa avrebbe fatto o detto oggi Van Gogh, che non è più tra noi da oltre centotrent’anni e di conseguenza non lo si può scomodare per immaginarlo vivo a interagire con noi, quel che si può fare è evidenziare come la contrapposizione tra protezione dell’arte e protezione delle persone non possa che risultare falsa e pretestuosa.
Per un’opera che vale milioni e che è protetta da vetro, ne esistono diecimila sparse sul territorio che non godono della stessa protezione. Giusto a inizio settembre, in Inghilterra la Museums Association lanciava l’allarme sugli aumenti dei costi di gestione che potrebbe condurre anche a decisioni drastiche sulla tutela: se si paga di più per tenere aperte le sale ai visitatori si hanno meno soldi, per esempio, per i restauri, e quindi per quella protezione delle opere d’arte che si vorrebbe contrapposta alla protezione della natura. E, pochi giorni dopo la protesta delle due attiviste, è emersa la notizia della messa in vendita del Merz Barn, il laboratorio che Kurt Schwitters, dopo aver lasciato la Germania nazista, allestì nel Lake District in Inghilterra: non è nota la fine che farà un edificio ch’è espressione del modo di fare arte di una delle più originali figure del XX secolo, e questo semplicemente perché il piccolo ente no-profit che lo ha gestito sin qui non ha più le forze finanziarie per mantenerlo, e non ha ricevuto adeguate sovvenzioni pubbliche. Ma lo sguardo potrebbe allagarsi all’Italia, dove esiste un vastissimo patrimonio minore spesso lasciato a se stesso: chiese chiuse o in abbandono, opere che giacciono nei depositi, musei piccoli che non riescono a intervenire adeguatamente sulle opere, scavi illegali che sottraggono reperti importanti alla collettività. E noi, per usare lo slang delle attiviste, siamo nel “nord del mondo”. Pensiamo a quello che accade al patrimonio culturale del “sud del mondo”. Non è vero, dunque, che preferiamo l’arte alla natura. Spesso non riusciamo a occuparci neppure dell’arte.
E poi, non è certo stato Van Gogh a scegliere di far valere una certa somma la sua opera: se occorre metterla su questo piano, avrebbe avuto più senso una protesta contro l’istituzione in sé, o forse ancor meglio contro uno di quei centri che hanno il potere di far moltiplicare il valore economico di un’opera d’arte anche semplicemente attraverso un passaggio collezionistico... riusciamo a immaginare le attiviste di Just Stop Oil a fare irruzione alla BIAF, al TEFAF, a Frieze Masters?
Sì, so che una protesta per essere eclatante non può curarsi di quelle che sembrano sottigliezze da addetti ai lavori: un gesto forte si nutre di estremizzazioni, altrimenti non sarebbe un gesto forte. Ma arte e natura ritengo stiano dalla stessa parte della barricata. Nell’intervista a Frieze, una delle due attiviste si domanda perché le persone non abbiano, di fronte alla distruzione che l’industria fossile sta causando al pianeta, la stessa reazione che hanno avuto dinnanzi al lancio di pomodoro contro Van Gogh. Intanto, è concettualmente e dialetticamente sbagliato fare un confronto tra un’azione radicale, improvvisa e deliberata, e uno stillicidio quotidiano. È come se per focalizzare l’attenzione sulla penuria di fondi per il patrimonio diffuso, un attivista per l’arte andasse a imbrattare un abete monumentale del Parco dello Stelvio domandandosi perché le persone s’indignano per il suo gesto e non per il degrado che ha portato al crollo del tetto di San Giuseppe dei Falegnami o dell’Arco Borbonico o alle precarie condizioni che minacciano Palazzo Gradenigo a Piove di Sacco. Anzi, il tentativo d’imporre al pubblico i motivi per cui dovrebbe indignarsi ha effetti controproducenti. Certo, le attiviste hanno continuato a dire che la loro è stata un’azione non violenta perché non ha danneggiato il quadro, protetto da vetro: ritengo però la si possa considerare un’azione mossa da mal indirizzata volontà prevaricatrice, intanto perché l’obiettivo è parso esser più quello d’imporre una visione che quello d’informare o sensibilizzare il pubblico, e poi perché, sebbene priva di violenza fisica, l’azione ha comunque affermato con la forza una separazione tra pubblico e opera, arrecando un danno non all’istituzione né al potere né tantomeno all’industria fossile, ma ai visitatori del museo oltre che, in piccola parte, alla collettività (l’opera non è stata danneggiata, ma le cornici, durante azioni come queste, solitamente riportano danni che vanno poi riparati). Ma l’effetto principale è stato forse quello di affermare il valore economico dell’opera: la stragrande maggioranza dei media si è concentrata più su questo aspetto che sulle motivazioni delle attiviste. Le stesse attiviste hanno rivendicato quest’affermazione tra i motivi che le hanno portate a scegliere i Girasoli.
Se però il dipinto di Van Gogh nel tempo ha assunto un valore economico, questo non è un problema di Van Gogh: rimane anzitutto il prodotto di un animo sensibile alla natura che in quanto tale va rispettato, altrimenti si finisce per rimanere vittime della stessa logica di consumo che si vuole criticare: l’azione, oltre a comportare, com’è ovvio che sia, tutte le conseguenze del caso (rischio di emulazioni da parte di gente che magari un domani non sarà altrettanto propensa a scegliere opere protette da vetro, più trafile per entrare nei musei, meno possibilità di vedere opere senza vetri e dunque rapporto meno diretto con l’arte per chi la vuole osservare, e via dicendo), non ha sottolineato il valore che Van Gogh ha per la nostra vita, ma ne ha semmai evidenziato il valore economico. Cosa che Van Gogh, se proprio ci piace il futile esercizio d’immaginarlo vivo e presente, probabilmente non avrebbe gradito.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).