La “Netflix della cultura italiana” annunciata in diretta su Rai3 dal Ministro Franceschini nell’aprile dell’anno scorso e formalizzata in una nuova società chiamata ItsArt, nata a dicembre 2020 ha visto infine la luce, a livello pubblico, oggi, 31 maggio. Una data non pianificata, e in effetti poco pubblicizzata. È frutto di un ritardo: gli articoli usciti nel gennaio 2021, quando in seguito alla nascita della newco ci fu un certo interesse giornalistico verso l’operazione, parlavano tutti di lancio a marzo. E già il lancio a marzo sarebbe apparso certo fuori tempo massimo per una piattaforma che doveva fornire un servizio culturale durante i mesi delle chiusure.
Basta un rapido sguardo al nuovo sito per avere l’impressione che il ritardo sia stato dovuto alla difficoltà di reperire contenuti. Chili TV, infatti, il partner commerciale di Cassa Depositi e Prestiti nella nuova società (il Ministero della Cultura non vi partecipa, pur essendone il principale finanziatore), non aveva esperienza di produzione ma solo di distribuzione, in particolare di materiale cinematografico. Come alcuni ricorderanno, già da gennaio il sito di ItsArt chiedeva di inviare contenuti. E le modalità di pagamento ideate dal CdA di ItsArt sono decisamente sorprendenti: senza investire nella produzione di inediti, la compagnia si attribuirebbe la possibilità di trattenere per sé dal 10 al 50% dei ricavi del contenuto culturale venduto. Quale produttore distribuirebbe a queste condizioni, caricandosi completamente dei costi di produzione senza neppure avere il controllo totale sui ricavi, in una piattaforma nuova la cui qualità ed efficacia è tutta da verificare? Pochi, pochissimi, senza dubbio. E certo non i più piccoli e bisognosi di aiuto.
La home page di ItsArt |
E infatti: la piattaforma doveva essere lanciata dai concerti “esclusivi” (così il comunicato stampa) di Riccardo Muti e Claudio Baglioni, ma i concerti di Muti sono materiali d’archivio, mentre c’è, sì, un concerto esclusivo di Claudio Baglioni che si dovrebbe tenere il 2 giugno, ma assistervi costerà 12,90 €. Al lancio odierno i contenuti disponibili sono “più di 700” secondo il comunicato stampa, tra cui “anche nuovi format sviluppati e prodotti dalle principali istituzioni culturali italiane (aree archeologiche, musei, fondazioni, accademie e teatri)”: i nuovi format, cioè i contenuti esclusivi disponibili solo sulla nuova piattaforma, sono ventinove, di cui quattro gratuiti e tutti gli altri a pagamento. Per il resto troviamo contenuti d’archivio prodotti da alcune grandi istituzioni italiane (teatri d’opera e musei autonomi), molti dei quali già disponibili su altre piattaforme come Facebook e YouTube; alcune produzioni Rai disponibili anche su RaiPlay; una selezione (limitata) di film d’autore italiano, che corrisponde a quella disponibile su Chili TV (dove peraltro gli stessi film costano un euro in meno rispetto a ItsArt); poco materiale, anche in questo caso d’archivio, da altre fonti; e una ampia selezione di documentari prodotta da Italiana, una piattaforma del Ministero degli Esteri annunciata a marzo, che produrrà contenuti culturali e sarà dotata dal 2023 di 51 milioni di euro l’anno. Una piattaforma molto più ambiziosa di ItsArt, dunque, che non produce contenuti ma si limita a distribuirli.
La grossa maggioranza dei contenuti è prodotta da enti che possono spendere senza rischio d’impresa, e che vivendo di fondi pubblici non potevano rifiutarsi di collaborare con la nuova piattaforma. Non c’è da aspettarsi quindi un vero filtro alla qualità, anche perché il personale di ItsArt ha esperienza, appunto, solo in ambito di distribuzione cinematografica: sembra evidente che si sia pubblicato ciò che era disponibile. Non è affatto chiaro quanto ItsArt potrà monetizzare con questo genere di contenuti e di selezione. Anche perché il lancio arriva in un momento infelice: l’idea nasceva per permettere agli Italiani di “godere della cultura” anche dal divano, e per aiutare il settore in un momento in cui i luoghi della cultura erano chiusi. Ora ci troviamo in una fase in cui i teatri e i cinema stanno man mano riaprendo, il coprifuoco va verso la cancellazione, e sempre più dati indicano come gli eventi all’aperto siano a bassissimo rischio epidemiologico, suggerendo quindi la possibilità di organizzare non solo spettacoli statici ma anche concerti in parchi e piazze nei prossimi mesi. Un momento, insomma, in cui è davvero improbabile che i cittadini italiani preferiscano seguire la cultura dal PC o dalla Smart TV, invece che, dopo mesi, in presenza. Non dobbiamo pensare poi a una piattaforma lanciata ora per vendere contenuti culturali italiani a chi non può venire in Italia: stando a quanto comunicato, sarà disponibile inizialmente solo in Italia e Regno Unito. Solo a questo pubblico ItsArt punta a vendere contenuti culturali in piena estate.
C’è da immaginare che ItsArt andrà male, come molti addetti ai lavori sottolineano da tempo. Pensata e costruita al fine di creare una nuova compagnia per motivi che mai saranno svelati fino in fondo (la manifestazione d’interesse con cui è stato scelto il partner commerciale era rimasta aperta dal 3 al 6 agosto del 2020), in evidente competizione con RaiPlay e altre piattaforme che offrono servizi simili gratuitamente, difficilmente avebbe potuto rivelarsi utile. Questo lancio di fine maggio rischia di rendere soltanto più plateale questo buco nell’acqua, costato però 10 milioni di fondi del MiC e 9 milioni di Cassa Depositi e Prestiti (pensate se la stessa cifra fosse stata utilizzata per permettere alla Rai di acquistare contenuti culturali). Forse ci attenderà qualche comunicato stampa roboante basato su numeri strumentalizzati (nel giorno di lancio gli accessi al sito saranno molti, perché c’è curiosità intorno al progetto), poi pian piano andrà nel dimenticatoio e verrà chiusa per sempre, come è stato per verybello.it, o potrebbe diventare una di quelle strane società a partecipazione pubblica che continuano per decenni a ricevere fondi nonostante una dubbia o nulla utilità (il portale Italia.it, ad esempio, dovrebbe essere rivitalizzato con i fondi del Recovery Plan). Eppure, sarebbe così facile invertire la rotta, internalizzando i processi di digitalizzazione e informatizzazione all’interno del Ministero della Cultura, con i relativi introiti: cosa o chi impedisce di farlo?
L'autore di questo articolo: Leonardo Bison
Dottore di ricerca in archeologia all'Università di Bristol (Regno Unito), collabora con Il Fatto Quotidiano ed è attivista dell'associazione Mi Riconosci.