Certo che possiamo! Questa è la mentalità che ho condiviso con i colleghi dei musei, sui social e non solo. Nei musei ci sono di sicuro delle cose da aggiustare, oggi più che mai. E gli strumenti ci sono, pronti, disponibili e a portata di mano. Equipaggiati con la necessaria conoscenza per capire quali siano le sfide, e consapevoli che gli strumenti giusti, da scegliere per affrontare in maniera efficace queste sfide, di sicuro faranno la differenza. La priorità fondamentale è senza dubbio avere una mentalità positiva, ma c’è anche la necessità di lasciarsi alle spalle le vecchie modalità e le vecchie abitudini che sono state considerate essenziali ai fini dell’ethos istituzionale. Una nuova museologia in fieri? Può darsi.
Una mentalità positiva e un atteggiamento del tipo “possiamo farlo” di cui abbiamo bisogno in quest’epoca di cambiamenti mi ricorda “Bob Aggiustatutto”, un cartone animato per bambini inglese della fine degli anni Novanta, diventato poi internazionale, grazie anche ad alcune trasposizioni (anche libri e cibo). Protagonisti della storia sono un impresario edile e il suo mondo, di cui fa parte un gruppo pittoresco di veicoli da lavoro antropomorfi, che arrivavano sempre per risolvere l’ennesima sfida. Le capacità di problem solving di Bob si fondavano sulla risoluzione dei conflitti, sulla collaborazione, sulla socializzazione e su altre abilità. Era la mentalità con cui Bob approcciava le esigenze del problema ciò che faceva tutta la differenza.
Bob Aggiustatutto |
Se li vediamo dal punto di vista di Bob Aggiustatutto, il revival del digitale e l’ambizione di creare le sinergie giuste e necessarie tra il fisico e il virtuale dipenderanno soprattutto dalla volontà di fare in modo che accadano. Al di là degli strumenti e del talento, un atteggiamento del tipo “possiamo farlo” sarà ciò che cambierà le carte in tavola.
Aggiustare con la giusta mentalità
Nel giugno scorso, Seb Chan, Chief Experience Officer (CXO) dell’Australian Centre for the Moving Image, ha postato su Twitter un articolo molto interessante che, in certa misura, mi aveva spinto a scrivere questo pezzo. Uno degli intervistati, un importante manager del settore delle arti australiano, ha parlato in modo molto franco del revival del digitale avviato dalla pandemia di Covid-19: “se rendiamo sempre migliore l’esperienza digitale, soprattutto in un momento in cui le persone sono nervose se si parla di tornare a vedere gli spettacoli dal vivo, stiamo creando, per noi stessi, un problema sempre più grande. Non c’è niente di peggio che sedersi in una sala con duemila estranei che hanno tutti diverse esperienze emotive, e per giunta molto personali. Sono molto preoccupato: se rendiamo l’esperienza digitale così coinvolgente e meravigliosa, cosa accadrà agli spettacoli dal vivo?”.
Che a parlare così sia stato il capo esecutivo di Opera Australia importa relativamente poco, per il semplice fatto che questa mentalità è molto più diffusa di quanto si pensi, anche in questo periodo. Ho commentato questo tipo di preoccupazioni in alcuni articoli che parlavano di pensiero transmediale e dell’universo di Harry Potter. Penso che questo sia forse il momento di capire perché queste preoccupazioni continuano a riemergere.
Prendiamo, come caso di studio, i curatori. La formazione accademica di un curatore e la sua pratica si basano sulla necessità di riconoscere valore nelle opere di cui si prende cura e questo, spesso, ha a che fare col loro valore economico. C’è una specie di paradosso nel fatto che questa dialettica tra il valore economico e quello culturale sia una necessità per i musei (le collezioni vengono infatti valutate per scopi assicurativi, e la cultura materiale viene acquistata sul mercato dell’arte e dell’antiquariato dietro il pagamento di un certo prezzo). Nel mondo dell’arte, la dialettica tra il mercato e il museo è profondamente radicata nell’essenza e nello sviluppo storico della disciplina. Il saggio di Ivan Gaskell intitolato Tradesmen as scholars. Interdependencies in the study and exchange of artè una buona sintesi su questo argomento: l’originale è un’acquisizione ambita, l’autentico assume un valore quando viene riconosciuto come tale, e la copia è spesso relegata a un relativo oblio.
Questo è l’ethos di un istituto museale centrato sugli oggetti (e non si parla soltanto di musei d’arte). Per molti musei, dunque non solo quelli che collezionano opere d’arte, il digitale è una semplice copia del materiale originale. Raramente pensiamo ai musei come a esperienze che non abbiano una collezione materiale, ma ormai l’argomento secondo cui niente è come l’originale viene ormai sempre più percepito come se stessimo paragonando il giorno alla notte, o come se stessimo mettendo a confronto i libri ai film o ai siti web.
Foto di Vanessa Bucceri su Unsplash |
Ma perdiamo davvero qualcosa dell’esperienza del museo se optiamo per il digitale invece che per il fisico? La risposta arriva da uno studio, durato dieci mesi, del Massachussetts Institute of Technology (MIT) e di Cuseum, la piattaforma per il coinvolgimento dei musei, sulla risposta emotiva di alcuni soggetti a cui sono state mostrate opere d’arte originali contro i loro equivalenti digitali. E invece che farci perdere l’aura dell’originale quando si vede il digitale (per citare il saggio di Walter Benjamin del 1935, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica), l’esperienza digitale in realtà migliora la portata dell’attività del nostro cervello. Un articolo di Noah Charney sull’Observer riassume molto bene questo concetto: “in breve, il nostro cervello sembra essere più stimolato quando sta guardando la realtà aumentata e riproduzioni digitali di opere d’arte nella realtà virtuale, che quando sta guardando l’opera reale”.
Tuttavia Noah Charney invita a fare attenzione, sottolineando giustamente che queste affermazioni devono essere “valutate su più punti di vista, dal momento che ci sono attorno diverse considerazioni da fare”. C’è comunque un aspetto che emerge in modo piuttosto chiaro: sarebbe un errore continuare a considerare il digitale come secondario rispetto all’esperienza fisica. Peak Experience Lab ha sottolineato questa necessità alcuni anni fa, nel 2017. E io vorrei citare un noto articolo del 2011, scritto dalla consulente museale Rainey Tisdale, dove si dice che “i musei oggi possono fare affidamento su tutti i tipi di strumenti interpretativi per raccontare le loro storie: e per far bene il nostro lavoro ci servono tutti i mezzi di cui disponiamo”.
Tutto ciò non faceva una piega dieci anni fa, e continua a non fare una piega anche oggi, anzi adesso viene riconosciuto come un’esigenza ancora più pressante di prima, in risposta alle sfide lanciate dalla pandemia di Covid-19.
Accettare il fatto che gli oggetti controllino la narrativa museale, e non riuscire a riconoscere il museo come una pluralità di forme che si possono raggiungere attraverso una vasta gamma di mezzi, significa, per i musei, rischiare di perdere rilevanza, oggi più che mai.
L’originale, l’autentico e l’unico oggi potrebbero aver a che fare molto di più con la qualità, la rilevanza e l’autenticità dell’esperienza museale. L’approccio alle collezioni certo può essere aggiustato, e questo può accadere senza abbandonare il valore unico che l’originale ha. L’esperienza del museo può ugualmente essere riconosciuta per il suo valore, e questo valore include il digitale. Sì, possiamo farlo!
Foto di Vanessa Bucceri su Unsplash |
Versione dell’articolo originale pubblicato su The Humanist Museum e susseguentemente pubblicato su MuseoPro - il sito web della Rete Museale Finlandese.
L'autore di questo articolo: Sandro Debono
Pensatore del museo e stratega culturale. Insegna museologia all'Università di Malta, è membro del comitato scientifico dell’Anchorage Museum (Alaska) oltre che membro della European Museum Academy. Curatore di svariate mostre internazionali, autore di svariati libri. Scrive spesso sui futuri del museo ed ha il suo blog: The Humanist Museum. Recentemente è stato riconosciuto dalla Presidenza della Repubblica Italiana cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia e dal Ministero della Cultura Francese Chevalier des Arts et des Lettres per il suo contributo nel campo della cultura.