Cosa significa davvero la parola “pandemia”? Scorrendo i dizionari ufficiali, la pandemia è un’epidemia che si verifica su di un’area geografica vasta e colpisce un’alta percentuale della popolazione. E fin qui tutto bene. Quello che stiamo vivendo però va oltre: molti musei sono stati, ed alcuni lo sono tutt’ora, sull’orlo del pandemonio. Il gioco di parole non finisce qui. Pandemia è anche il titolo di un romanzo per ragazzi post-apocalittico del 2006, che descrive lo scenario di un’epidemia globale che si diffonde in tutto il mondo per effetto dei moderni mezzi di trasporto, causando alla fine uno stato di emergenza universale. Pandaemonium è la capitale dell’inferno del Paradiso perduto di John Milton. Che sia pandemia o pandemonio, in molti dei casi tutti due, stiamo vivendo tempi difficili.
Per i netizendel tempo del lockdown costretti a vivere il mondo attraverso un buco della serratura, la vista dal loro salotto è stata spesso un pandemonio. Il collo di bottiglia in cui si sono trovate le piattaforme e i mezzi d’informazione può aver colto di sorpresa gli utenti meno consapevoli, mentre cercavano di capire cosa cercare per farsi coinvolgere avendo come punto di partenza semplicemente le loro conoscenze. Non sono, peraltro, a conoscenza di una ricerca approfondita sull’impatto del Covid-19 sul subconscio collettivo e su come il pubblico abbia reagito a questa nuova realtà. Credo che sarebbe uno studio ancora da fare ed auspico che si farà. Quello che però emerge in modo consistente dai webinar e dalle discussioni online è la dura realtà per la quale, dal punto di vista dell’utente finale, il mondo dei musei può aver sperimentato niente più che un effetto imbuto.
Sappiamo infatti che i musei, come giustamente c’era da attendersi, hanno fatto registrare un rilevante aumento dell’utilizzo dell’online, determinato dalla pandemia di Covid-19. Le ultime statistiche pubblicate dal Network of European Museums Organisations (NEMO) provengono da un sondaggio condotto su circa 900 musei in 41 paesi diversi (le statistiche coprono un periodo che parte dal 3 aprile fino a meta Maggio).
Questo grafico mostra l’incremento delle attività online registrato dal 40% dei musei che hanno partecipato al sondaggio. Di questo 40%, poco più del 40% ha registrato un ulteriore aumento, leggero ma notevole. Solo una piccola percentuale ha registrato quella risposta eccezionale della quale tutti abbiamo avuto l’impressione leggendo i media e notando la corsa per essere sempre più presenti online. E nonostante questa corsa per emergere, l’impatto sembra essere minore di quanto ci si attendeva. Sarebbe inoltre interessante sapere quali musei rientrano in quel quasi 20% che ha più che raddoppiato gli utenti pre-Covid. Ed è curioso constatare che il 20-40% ha conosciuto un incremento, e il 60-80% no.
Durante la pandemia, i musei si sono trovati in stretta competizione per acquisire una quota più ampia del tempo di permanenza sul web, che sul breve termine ha conosciuto un forte incremento. Certamente la domanda è sostenuta, ma ci sono competitor che sono molto meglio equipaggiati e preparati dei musei, o almeno lo sono in questo momento. Il fatto che non tutti i social network vengano usati allo stesso modo è noto, ed è stato succintamente riassunto in un vasto numero di articoli sui social media. Vorrei segnalarne uno scritto da Arik Hanson per business2community, che a sua volta segnala dei cambiamenti nell’utilizzo dei social. Come i musei si adatteranno a questi cambiamenti è ancora tutto da vedere.
Cosa possiamo dire allora della transmedialità?
In parole povere, la transmedialità è una reazione all’approccio disgiunto che molti istituti e aziende spesso seguono quando si rivolgono al loro pubblico. La narrazione transmediale è definita da Henry Jenkins come un processo per il quale tutti gli elementi di una storia vengono sistematicamente diffusi attraverso canali multipli con l’obiettivo di creare un’esperienza d’intrattenimento unificata e coordinata. Idealmente, ogni mezzo dovrebbe dare il proprio contributo allo svelamento della storia. Jenkins ha presentato queste idee sulla transmedialità nel 2003, ma possiamo far risalire la teoria a Walt Disney e alla sua ambizione di creare un universo narrativo multi-piattaforma.
Non esiste una formula prestabilita per la transmedialità: tutto ha a che fare soprattutto col miglior modo che scegliamo per raccontare una particolare storia a un particolare pubblico in un particolare contesto sulla base delle particolari risorse disponibili. Per il pensiero transmediale, tutti i media, siano essi vecchi o nuovi, hanno una loro rilevanza, e se ne può fare buon uso.
Cosa possono imparare i musei dal pensiero transmediale?
Il pensiero transmediale può aiutare i musei ad allestire mostre e progetti di divulgazione, a programmare e a organizzare eventi che coinvolgono il pubblico nella realtà così come nel virtuale, e che possono essere sviluppati secondo modalità duali o addirittura multinodali. Questo pensiero potrebbe aiutare i musei a considerare il pubblico tradizionale e i netizen museali come un’unica entità pur riconoscendo e considerando il fatto che i pubblici possono spostarsi da un medium all’altro in varie forme e per diverse ragioni.
Non sto cercando di inventare di nuovo la ruota: l’uso della transmedialità nei musei è una realtà anche se è emerso in tempi relativamente recenti. Museumnext ha affrontato il tema della transmedialità lo scorso gennaio e alcuni musei l’hanno provata in alcuni progetti di mostre temporanee negli ultimi due anni. Nel 2018, Kajsa Hartig ha scritto un interessante post sul pensiero digital first che, in un certo senso, ha anticipato questa necessità. Tra l’altro, il discorso sulla transmedialità mi è sovvenuto quando ho saputo della decisione del Museo Polin in Polonia di avviare una trasmissione radiofonica per raggiungere il suo pubblico, in modo da non fare esclusivo affidamento sul sito web e sui social media. Ma sono sicuro che ci sia di più...
Quello che sto suggerendo è di affrontare il pensiero transmediale in fase di ideazione, e di lasciare che questo modo di pensare modelli il tuo contenuto fin dall’inizio, in modo che sia adatto al pubblico che il progetto intende raggiungere. Questo modo di pensare potrebbe aiutarti a identificare e a fissare una selezione predeterminata di mezzi che possono fornire prospettive e variabili in grado di garantire un’esperienza molto più ricca.
Possono esserci delle analogie con i modi e i mezzi con cui le case di produzione cinematografiche riescono a ottenere una miglior comprensione dei romanzi da cui nascono i film: i film e i libri sono due media diversi, e l’uno ha un potenziale interpretativo che l’altro non ha. Ogni mezzo può dare il proprio contributo al modo in cui la storia si svela, e che può essere complementare alle altre forme di coinvolgimento che altri media possono fornire. Sceglierne una per l’altra potrebbe essere limitante. Affrontarle entrambe potrebbe invece aprire a un’esperienza più ricca e completa. Suggerirei dunque questi tre punti da seguire o da considerare come punto di partenza per massimizzare il pensiero transmediale.
Se il brainstorm attorno al tuo progetto partirà con l’idea che il tuo istituto ha la necessità di confrontarsi con pubblici che spesso si spostano dal reale al virtuale, questo farà una gran differenza. Perché questo modo di pensare potrà rendere più facile lo sviluppo delle iniziative per raggiungere il publico.tu
I tuoi netizen sono importanti tanto quanto i tuoi visitatori fisici. Potrebbero infatti rappresentare lo stesso tipo di pubblico più spesso di quanto si possa pensare, specialmente se pensiamo che il digitale è spesso il primo luogo in cui si reca un pubblico che cerca informazioni.
Il tuo medium potrebbe anche non essere un social media o una qualche altra piattaforma altamente tecnologica. Andando in ordine di empatia, potrebbe essere una trasmissione radiofonica, una chiamata al telefono o una tradizionale lettera. Quello che conta non è la tecnologia usata ma i modi e i mezzi per raggiungere il pubblico.ù
Puoi trovare maggiori informazioni su Transmedia Stortelling 101 e su Transmedia Storytelling 202.
Le opere d’arte in questo articolo sono di William Heath Robinson (1872 – 1944). Robinson fu un cartoonist, un illustratore e un artista, noto soprattutto per i disegni di bizzarre e sofisticatissime macchine pensate per raggiungere obiettivi molto semplici.
L'autore di questo articolo: Sandro Debono
Pensatore del museo e stratega culturale. Insegna museologia all'Università di Malta, è membro del comitato scientifico dell’Anchorage Museum (Alaska) oltre che membro della European Museum Academy. Curatore di svariate mostre internazionali, autore di svariati libri. Scrive spesso sui futuri del museo ed ha il suo blog: The Humanist Museum. Recentemente è stato riconosciuto dalla Presidenza della Repubblica Italiana cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia e dal Ministero della Cultura Francese Chevalier des Arts et des Lettres per il suo contributo nel campo della cultura.