Firenze, perché Giannelli non va bene e Price invece sì?


Perché gli addetti ai lavori strillano indignati se Emanuele Giannelli espone le sue opere davanti alla sede della Regione Toscana e invece non fanno un plissé quando in piazza della Signoria arriva Thomas J. Price?

Problema: dati gli strilli indignati con cui gli addetti ai lavori hanno accompagnato per giorni l’installazione delle sculture di Emanuele Giannelli davanti alla sede della Regione Toscana a Firenze, il candidato spieghi, possibilmente in maniera convincente, perché Emanuele Giannelli a Palazzo Strozzi Sacrati non va bene, e invece Thomas J. Price in piazza della Signoria sì.

Questo almeno verrebbe da pensare dato il pollaio ch’è stato sollevato per i pennelloni di Giannelli, per le sue opere di quattro metri installate da qualche giorno ai lati dell’ingresso di Palazzo Strozzi Sacrati, e dato che nessuno ha fatto un plissé per la ragazzona al cellulare di Price, la gigantessa, anche lei alta quattro metri, atterrata qualche giorno fa davanti a Palazzo Vecchio. Perché se non si trovano ragioni convincenti, allora il pubblico rischia di rimanere disorientato, e non ci si può lamentare se dell’arte contemporanea in fin dei conti frega niente a nessuno al di fuori delle cerchie più o meno legate al nostro mondo, così come non si può tacciare d’ignoranza, di grettezza o di filisteismo chi in queste ore, giustamente, si pone la stessa domanda: perché Giannelli no e Price sì?

Se il motivo è che le opere di Giannelli sono brutte, allora quelle di Price sono brutte uguali (l’unica differenza è che almeno Price risparmia ai fiorentini le tremende basi con nomi e loghi). Non c’è bellezza nel gigantismo di un soggetto ordinario che, peraltro, si vuole libero ma appare semmai schiavo del proprio telefono. Il che, comunque, non è necessariamente un male. Anche l’Ercole e Caco di Baccio Bandinelli non si pone certo come un manifesto della bellezza, dell’equilibrio, della proporzione. La bruttezza non è nemica dell’arte: lo è, casomai, l’indifferenza.

Se il motivo è che le opere di Giannelli sono banali, allora quelle di Price sono altrettanto banali. Non c’è niente di più didascalico dell’elevare a monumento dell’ordinario una ragazza impegnata a guardare il proprio smartphone. Non c’è niente di più banale che fare critica al potere con una ragazza ordinaria che volta le spalle ai luoghi del potere: siamo agli slogan da assemblea d’istituto, al cartellone da manifestazione studentesca, all’abbecedario della contestazione.

Se il motivo è che le opere di Giannelli non mostrano una particolare finezza esecutiva, allora lo stesso si può dire per quelle di Price: un Price, per dire, non è meglio di un Giannelli, di un Tongiani, di un Sepe. Al più si rivolgerà a un’altra fonderia se vuole saggiare una diversa qualità.

Se il motivo è che le opere di Giannelli non sono originali, allora quelle di Price sono ugualmente stanche e derivative. Price è l’ennesimo epigono di un anti-monumentalismo che ha quarant’anni di storia (se vogliamo per un attimo dimenticare che noi siamo il paese dei Vincenzo Gemito e degli Achille D’Orsi). Basil Watson proponeva sculture in bronzo di soggetti ordinari quando ancora Price leccava pareti per farsi notare. Le famiglie di Gillian Wearing, ch’è stata tra i nomi principali degli Young British Artists, precedono di diverso tempo gli ordinary men di Price. Anzi, in Italia siamo stati anche pionieri, dal momento che uno dei primi anti-monumenti di Wearing, del 2007, si trova qui da noi: chi ritiene innovativa la ragazza di Price s’appunti sull’agenda una gita a Trento, dove da quasi vent’anni, in piazza Dante, si trova il monumento di Gillian Wearing, inaugurato nel contesto d’una mostra curata da Fabio Cavallucci e Cristina Natalicchio. Naturalmente non si contano neppure i nomi di scultori italiani che traggono ispirazione dal quotidiano (cito solo Giuseppe Bergomi per il semplice fatto che s’è chiusa da poche settimane una mostra al Museo di Santa Giulia di Brescia che ne ha ripercorso la produzione). Abbiamo già anche un Giovanni da Monreale, per dire, che da anni libera per le strade delle nostre città i suoi bambini e le sue bambine che sfogliano distratti i loro smartphone. Price, insomma, arriva tra gli ultimi in questa sequenza.

Le sculture di Emanuele Giannelli
Le sculture di Emanuele Giannelli
Thomas J. Price, Time Unfolding. Foto: Ela Bialkowska/OKNO Studio
Thomas J. Price, Time Unfolding. Foto: Ela Bialkowska/OKNO Studio

Se il motivo è che le opere di Giannelli non reggono il confronto con Giotto, Lorenzo Ghiberti e Brunelleschi, allora, per i motivi di cui sopra, possiamo dire che Price sia in grado di reggere il confronto con Michelangelo, ancorché in copia, con Giambologna, con Cellini, con Baccio Bandinelli o anche con un Pio Fedi? Cerchiamo di essere seri. Infine, se il motivo è che le opere di Giannelli non sono sostenute da uno spiegone altrettanto efficace o altrettanto à la page rispetto a quello d’un Price che parla, cito dal comunicato, di “sovversione di strutture gerarchiche”, di “critica al sistema di privilegi sociopolitici”, di “messa in dubbio delle nostre certezze ideologiche fondamenti dei nostri pensieri assoluti alla base di gerarchie e certezze morali”, oppure, per citare da una sua intervista a Repubblica, che porta in piazza della Signoria “la prima donna libera e nera”, allora occorrerà convenire sul fatto che l’unica differenza sia di carattere squisitamente ideologico, ma in realtà non è neanche questo il punto, a prescindere da ciò che pensa chi già straparla d’inchini all’ideologia woke, dimostrando d’avere una memoria ferma all’altro ieri, perché in piazza della Signoria sono arrivate in passato, e con amministrazioni d’ugual colore, anche opere che con la woke culture non hanno niente a che vedere, anzi. Qualche anno fa arrivò pure l’Uomo che misura le nuvole (e che, dov’era messo, pareva semmai un geometra che misurava i conci di Palazzo Vecchio), opera di Jan Fabre, artista sul quale casomai, negli ultimi anni, gli attivisti della causa woke si son divertiti a giocare al tiro al bersaglio. Quindi non è neanche questo il punto.

Cos’è che allora fa la differenza, si domanderà il pubblico? C’è da essere trasparenti. È, intanto, un fatto di curriculum. Negli ultimi anni Price ha esposto alla National Portrait Gallery, allo Studio Museum di Harlem, al Victoria & Albert Museum di Londra, alla Kunsthal di Rotterdam. E si parla soltanto di mostre personali. Giannelli no. È brutto dirlo, perché sembra che gli artisti vengano valutati con gli stessi criteri con cui si assumono i candidati ai concorsi per la provincia, ma questo è: si considerano i titoli. Ed è un fatto piuttosto normale che un artista anche molto sopravvalutato ne accumuli così tanti da meritarsi un posto sotto i riflettori. Poi, in subordine, dipende anche da chi è il soggetto che sostiene l’operazione: Price è uno degli artisti di Hauser & Wirth, che è una delle gallerie più importanti del mondo. È come dire il Real Madrid dell’arte contemporanea. Ed esattamente come il Real Madrid, una delle migliori gallerie d’arte contemporanea del mondo può avere una squadra di fenomeni ma può anche avere in squadra qualche giocatore che non regge il paragone con gli altri. La differenza fondamentale tra arte e calcio è che se in nazionale il commissario tecnico chiama un giocatore del Real Madrid che poi non si rivela all’altezza della partita, nel calcio non ci si pone il minimo problema: si critica la scelta del ct. Nel mondo dell’arte invece s’inorridisce se il ct convoca in nazionale un giocatore della Pistoiese che ha il grosso della carriera alle spalle e che non ha mai avuto esperienze, che so, in Coppa Uefa o su palchi simili, ma se il giocatore del Real Madrid in nazionale non si dimostra all’altezza, allora si tende a evitare di criticarlo. Anzi, il mondo dell’arte tende a esaltarlo solo per il fatto che gioca nel Real Madrid e in passato ha disputato qualche partita di Coppa dei Campioni.

Occorre allora ammettere che il problema non è di ordine estetico, non è di ordine strettamente tecnico, non è di ordine filosofico e non è neppure di ordine ideologico, dato che in giro per Firenze si vede di tutto e di più, ma quando il “di più” ha un curriculum e ha una galleria importante alle spalle, allora non c’è addetto ai lavori che profferisca il minimo dubbio. Dunque, il problema è semplicemente di carattere burocratico. L’addetto ai lavori che vuole sovvertire le strutture gerarchiche alla fine ragiona come un grigio funzionario amministrativo. L’addetto ai lavori che vuole fare le linguacce al potere alla fine si comporta da impiegato diligente, conformista, inquadrato. L’addetto ai lavori che vuole criticare i privilegi sociopolitici alla fine s’ammoscia se a sostenere l’opera sovversiva che tanto lo eccita è una delle gallerie più ricche della Terra. Va più che bene, è sufficiente esserne consapevoli e riferirlo col massimo candore a chi ci legge.

Esiste allora una soluzione per fare in modo che il veterano di periferia della Pistoiese e il poco interessante giovane del Real Madrid si trovino a giocare la stessa partita? Lo aveva proposto Luca Rossi su queste pagine: demandare il tutto a una super-commissione di direttori di musei che di volta in volta decidano chi far giocare. Cosa che ha un lato negativo: il campo s’allontanerà per i giocatori della Pistoiese, ma non ci si riparerà dal vedere in partita le riserve del Real Madrid. O dal vederci le vecchie glorie, come accaduto in passato: in piazza della Signoria non è che si sia brillato per innovatività della proposta, negli ultimi anni. Perché poi, sia chiaro: per com’è fatto oggi il mondo dell’arte contemporanea, è difficile immaginare che qualcosa d’originale o d’innovativo emerga da una sede istituzionale così strutturata. A maggior ragione se si vuole aggiungere burocrazia alla burocrazia, se s’immagina che l’arte pubblica debba finire tra le pastoie dei bandi, dei comitati scientifici, delle selezioni per titoli e via dicendo. Che, beninteso, va benissimo: è solo che difficilmente da una selezione tanto strutturata emergerà qualcosa di nuovo, oppure emergerà un capolavoro. È possibile (Guernica di Picasso del resto era frutto d’una committenza governativa), ma non è facile. Al Salon del 1874 il pubblico vedeva sfilare opere di ottimi artisti, artisti di spessore, artisti forniti di curriculum impeccabile, ma la mostra dove si poteva ammirare un’alba radiosa, la mostra dove sorgeva il nuovo, era quella organizzata da Nadar in Boulevard des Capucines. Poi, certo, anche alcuni degli impressionisti sarebbero arrivati al Salon, ma quando già si erano costruiti il loro impeccabile curriculum (anzi, qualcuno ci aveva anche già esposto, ma il nuovo sarebbe arrivato in altri contesti). Oggi, di solito il nuovo viene intercettato prima dalle gallerie che dalle grandi istituzioni.

Quali prospettive, dunque? Primo: lasciare la situazione attuale inalterata. E non ci sarebbe niente di male: l’unico effetto collaterale sarebbero le grida degl’indignati al cospetto del Giannelli di turno. Anche perché, siamo seri: alla fine, sia le opere di Giannelli sia le opere di Price rimarranno qualche settimana e poi se ne andranno. Non spezzeranno più il nostro respiro. Non turberanno più le nostre notti. Non ci faranno urlare d’indignazione. Tra un Giannelli e un Price che rimangono e, mettiamo, la transennatura della Fontana di Trevi giunta da qualche tempo per consentire il contingentamento del catino (e che dunque ci s’immagina mica tanto temporanea), dateci anzi mille Giannelli e mille Price che rimangono qualche settimana e poi se ne tornano da dove sono venuti. Secondo: le tanto agognate commissioni. Coi rischi di cui s’è detto: selezioni impeccabili, certo, eleganti, magari anche, chissà, in armonia con il contesto (cosa che probabilmente, almeno in anni recenti, non è mai accaduta), ma difficilmente innovative. Terzo, i due estremi opposti, le due situazioni più coraggiose. Ovvero, lasciare piazza della Signoria così com’è. Evitare di avviare dialoghi impraticabili. Rendersi conto che è un insieme già compiuto e definito. Comprendere che portare in piazza della Signoria qualcosa di nuovo tutti gli anni è come portare ogni anno al cinema Apocalypse Now aggiungendo al finale cinque minuti in più, sempre diversi, e che magari c’entrano poco col resto del film. Oppure, soluzione coraggiosa due, fare l’esatto opposto: cambiare il finale di Apocalypse Now, se qualcuno se la sente. E cioè aggiungere qualcosa di permanente, com’è stato fatto anche altrove, perché non è detto che un’aggiunta sia sufficientemente valida e sufficientemente universale da dialogare bene, e in pianta stabile, col resto della piazza. Non oso però pensare a quello che si scatenerebbe. Ché poi alla fine, pensandoci, forse non è così male lo status quo. Al massimo c’indigneremo col prossimo Giannelli o col prossimo Price. Un po’ di movimento nel noioso mondo dell’arte contemporanea.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Al suo attivo anche docenze in materia di giornalismo culturale (presso Università di Genova e Ordine dei Giornalisti), inoltre partecipa regolarmente come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).




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