Ma perché in questo periodo fioccano tante “scoperte eccezionali” in archeologia?


In questi ultimi anni è un continuo susseguirsi di “scoperte eccezionali” in ambito archeologico: ma è davvero così? Ciò che viene comunicato sui media è sempre eccezionale? Cosa accade in realtà e come stanno le cose?

A un lettore accanito di giornali, se poco incline all’approfondimento personale, questa potrebbe, dovrebbe apparire un’età straordinariamente fiorente per la ricerca archeologica italiana e globale: nell’ultimo quinquennio sono state comunicate al mondo scoperte quali quella di una città che costituirebbe “la più importante scoperta archeologica in Egitto dopo la tomba di Tutankhamon”, o dell’iscrizione che “cambia la data” dell’eruzione di Pompei; e ancora, è stato comunicato il ritrovamento del “Colosseo d’Anatolia”, della tomba di Aristotele, del vino più antico del mondo, del birrificio più antico del mondo, del dipinto più antico del mondo… E per focalizzarci sull’Italia nuove scoperte descritte come “eccezionali” costellano le pagine dei giornali locali e non, siano esse ville con mosaici, anfiteatri, teste d’Augusto, necropoli puniche, tracce di insediamenti preistorici e tanto altro ancora. Basta un rapido sguardo sui principali motori di ricerca per notare che, solo limitandoci alla lingua italiana, “scoperte archeologiche eccezionali” o “straordinarie” vengono comunicate circa una volta al mese, o più, dalle Alpi alla Sicilia.

Tutto questo può lasciar interdetto il lettore: possibile che ciò avvenga in un momento in cui la disciplina archeologica lamenta da anni tagli e carenze strutturali, sia nella sua parte ministeriale, sia nella sua parte di ricerca universitaria? Davvero questi eroici archeologi, nonostante i fondi limitati, riescono a individuare così tante straordinarie scoperte? La risposta a questa domanda è complessa, e non legata soltanto, o per la maggior parte, alla necessità delle testate giornalistiche di ottenere molti clic con titoli altisonanti. Ci sono diverse ragioni e motivazioni che portano ad annunciare scoperte “straordinarie” con questa frequenza: attraverso l’analisi di alcuni casi recenti proveremo a illustrarle in breve.

L'anfiteatro di Mastaura, il Colosseo dell'Anatolia
L’anfiteatro di Mastaura, il “Colosseo dell’Anatolia”


Il termopolio di Pompei
Il termopolio di Pompei scoperto nel 2019

L’archeologia politica: l’antico egitto di Zahi Hawass

La terra da cui indubbiamente sono arrivate la maggior parte delle scoperte eccezionali che hanno avuto eco globale nell’ultimo quinquennio è l’Egitto. Qui è stato annunciato, in ordine sparso e non esaustivo, solo tra la fine del 2019 e oggi la scoperta della tomba di Cleopatra, di un centinaio di sarcofagi intatti, del birrificio più antico del mondo ma soprattutto della “città d’oro perduta” di Aten, presso Luxor, annunciata nell’aprile 2021 e presentata come “il più importante ritrovamento dalla scoperta della tomba di Tutankhamon”. A presentare queste scoperte scoperte, in un climax interrotto solo dalla dovuta smentita riguardo la supposta tomba di Cleopatra, c’era sempre lui, Zahi Hawass, il direttore delle antichità per il governo di Al-Sisi, che già aveva rivestito lo stesso incarico per il governo di Mubarak, deposto dalle rivolte del 2011. 

Come sempre in questi casi, i comunicati stampa precedono qualsiasi pubblicazione scientifica contenente i dati di scavo. E dai comunicati sappiamo che è stata ritrovata  “una grande città in buone condizioni di conservazione” (abitata e poi abbandonata nel XIV secolo a.C.) ricca di strumenti che raccontano la vita quotidiana: non è ancora chiaro in che modo rappresenterebbe il più importante ritrovamento dai tempi della tomba di Tutankhamon (che, per i non addetti ai lavori, presentava un corredo completamente integro, cosa di fatto quasi unica in archeologia dati i ripetuti saccheggi di tombe faraoniche avvenuti nel corso dei secoli). L’area di Luxor, che sorge, come noto già dal Settecento, sul sito dell’antica Tebe, capitale d’Egitto nel Medio Regno, è uno scrigno di rinvenimenti archeologici continuo. Lo scavo del sito individuato è iniziato a settembre 2020 e nonostante lo scontato paragone con Pompei propugnato dagli scavatori, gli elementi diffusi fino a oggi non paiono permettere conclusioni riguardo l’impatto che lo scavo avrà sulla conoscenza dell’Antico Egitto.

Nel caso egiziano, il proliferare di scoperte eccezionali e straordinarie, più che dall’effettiva straordinarietà delle stesse, deriva da un comune vantaggio: da una parte, per il potente Hawass, che utilizza la comunicazione per accrescere la propria popolarità interna ed esterna al paese, dall’altra del regime di Al-Sisi, che in questo cadenzato annuncio di nuove scoperte legittima il proprio potere, come tipico dei governi nazionali egiziani che vogliono prendere le distanze dalla tradizione islamica del paese, e dalla politica islamista (Al-Sisi è al potere dopo aver rovesciato il governo dei Fratelli Musulmani). Si tratta di un utilizzo nazionalista e politico dell’archeologia, per compiersi che trova sempre qualche appoggio da parte dei dirigenti archeologi, come in questo caso. Un modus operandi che trova chiari epigoni, pur in maniera minore, anche in paesi europei: il caso più evidente è il rapporto tra Massimo Osanna e gli scavi di Pompei, già analizzato da questa testata.

La città di Aten
La città di Aten

La necessità di pubblicare a tutti i costi: il vino più antico del mondo

Nel luglio del 2017 rimbalza sui giornali nazionali e internazionali la notizia di una scoperta sorprendente: in alcuni contenitori preistorici siciliani sono state trovate tracce del vino più antico del mondo, datato addirittura a 6 mila anni fa. Una scoperta in grado di riscrivere la storia dell’archeologia e dell’alimentazione umana, dato che prima di quell’annuncio solide tracce di vinificazione esistevano solo dall’Età del Bronzo in poi, dunque da circa 3 mila anni più tardi. A dare l’annuncio, con un comunicato stampa, i ricercatori della University of South Florida. In poche ore la notizia esplode su tutti i media. 

Qualche mese dopo arriva una breve e netta nota su Facebook della Soprintendenza locale: non siamo stati interpellati, dicono, i composti chimici usati per identificare il vino non sono sufficienti e la datazione proposta per quei frammenti ceramici appare priva di fondamento. In pochissimi leggono quella nota, e così la notizia, falsa, che in Sicilia sia stato trovato vino risalente a 6 mila anni fa continua a circolare fino a oggi. 

Questo genere di annuncio si inserisce in un trend, in cui università statunitensi annunciano di aver fatto scoperte straordinarie, nei loro laboratori, su reperti che arrivano da paesi lontani, dall’Italia alla Georgia. Scoperte che spesso riguardano il vino. Un trend talmente problematico che nel 2020 un gruppo di ricercatori di York, Tubinga e Monaco ha pubblicato una lunga disamina scientifica per spiegare quando e come è possibile affermare che, forse, un determinato reperto archeologico contenesse vino. L’aggravante, nel caso siciliano, è di aver dato l’annuncio senza neppure il consenso degli archeologi locali, che consci dell’assoluta improbabilità (archeologica) di trovare vino in reperti tanti antichi, avrebbero almeno messo sull’attenti i ricercatori statunitensi. Ma ciò non è avvenuto.

Si tratta di un secondo filone di eccezionalità “forzata”, proprio della ricerca scientifica che, complice il calo dei finanziamenti e la retorica dell’eccellenza, è spinta sempre più a pubblicare ad ogni costo, e rapidamente, lasciando a volte da parte l’accuratezza del dato e dell’interpretazione. Così da ottenere una più veloce carriera e più finanziamenti: non un problema propriamente archeologico, ma anche archeologico.

Le immagini della scoperta del cosiddetto vino più antico del mondo
Le immagini della scoperta del cosiddetto vino più antico del mondo

L’eccezionalità dei poveri: caccia all’ultimo finanziamento

Ci sono poi casi molto diversi, in cui archeologi attribuiscono aggettivi come “eccezionale” o “straordinario” a scoperte che lo sono solo relativamente, o che non lo sono affatto. Casi in cui però la “poca eccezionalità” è nota solo agli addetti ai lavori. 

Qui la casistica è ampia, si va dal rinvenimento di anfiteatri o tombe di cui si conosceva l’esistenza, ma non l’esatta ubicazione; di mosaici o alzati molto belli, ma di cui esistono tanti esemplari simili noti; o ancora di siti e contesti archeologici di straordinario rilievo e interesse, in grado di fornire tante nuove informazioni, ma non di cambiare la storia come il comunicato stampa vorrebbe. A volte si arriva all’evidente forzatura, presentando come eccezionali contesti o rinvenimenti di fatto normali in determinati contesti (pensiamo agli affreschi rinvenuti a Pompei, o a lapidi iscritte o ricche tombe trovate in cimiteri in cui ciò era d’uso). Il caso recente più noto è il cenotafio di Romolo, contesto già noto ma presentato come scoperta eccezionale nel febbraio 2020.

Di solito a divulgare questo tipo di comunicati sono due genere di enti: le Università o le Soprintendenze. E il motivo è simile, se non lo stesso: l’assoluta necessità di nuovi fondi. A volte lo fa una missione di ricerca universitaria che vuole convincere il rettore (o altri committenti) a rinnovare o aumentare il finanziamento; a volte lo fa la Soprintendenza per convincere l’ente locale a permettere, attraverso un finanziamento, lo scavo di quei contesti altrimenti destinati ad essere prontamente riseppelliti. 

In ogni caso, è proprio il momento di crisi della disciplina a spingere verso questo atteggiamento: di fronte a un ritrovamento estremamente interessante, non ci si limita a raccontarlo come tale, ma si spinge sull’acceleratore dell’eccezionalità, della straordinarietà, descrivendolo come incredibile, unico. Questo perché il cappio della carenza di fondi costringe a lottare per quei pochi finanziamenti che vengono messi a disposizione (o si spera possano essere messi a disposizione). Non sempre, in questo contesto, si è in grado di mantenere un approccio collaborativo ed equilibrato: a volte un comunicato stampa ben fatto è, o viene ritenuto, l’unico modo per emergere. E poco male, si pensa, se offrirà ai lettori un’informazione parzialmente falsa o esagerata. 

Il cosiddetto sarcofago di Romolo in una foto... del 1900
Il cosiddetto “sarcofago di Romolo” in una foto... del 1900

Conclusione

In sintesi, questo proliferare di scoperte eccezionali, lungi dall’essere un segno di vitalità, è un segno di grande fatica. L’archeologo lancia un comunicato altisonante, esagerato o addirittura fuorviante; le redazioni dei giornali, anch’esse in grossa difficoltà e a caccia di click, lo rilanciano, a volte aggiungendo dettagli, a volte semplicemente copiando e incollando; a questo segue (spesso) un dibattito social in cui gli addetti ai lavori o riducono o addirittura smentiscono la rilevanza della scoperta: ma questo dibattito non arriva quasi mai al grande pubblico, o in ogni caso mai con la forza del primo annuncio.

Crisi di finanziamenti, crisi dell’editoria, forse anche crisi della nostra società, ossessionata dall’idea dell’unicità e dell’eccellenza, per cui chi finanzia, chi paga, non vuole una molteplicità di situazioni, siti, contesti, “normali”, anche banali a volte, che insieme raccontano una storia straordinaria, che sia la storia di una regione, di una città, la storia umana dalle origini alla contemporaneità. No, ora si preferisce sempre “la più importante scoperta” non “un importantissimo tassello in più per comprendere il nostro passato”. E questo è figlio di una retorica propria di una società che si vuole individualista, e che vuole autorappresentarsi così attraverso il passato. Ma se tutto diventa eccezionale, niente lo sarà più: neppure le (pochissime, ma comunque esistenti) scoperte in grado realmente di riscrivere la storia dell’umanità, costrette nel vortice degli annunci fuorvianti.


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Leonardo Bison

L'autore di questo articolo: Leonardo Bison

Dottore di ricerca in archeologia all'Università di Bristol (Regno Unito), collabora con Il Fatto Quotidiano ed è attivista dell'associazione Mi Riconosci.





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