Alternative sostenibili post-covid: cosa sono gli ecomusei?


Quando il nostro sistema culturale si rialzerà da questi tempi difficili, occorrerà sempre più trovare alternative sostenibili: tra queste, gli ecomusei.

In tempi come questi, difficili, e che spingono alla ricerca creativa, ci accorgiamo di quanto sia fondamentale muoversi, senza uscire di casa. In tempi così complicati apprezziamo il fatto che molti musei e istituzioni d’arte abbiano digitalizzato opere e contenuti, fornendo come da loro natura un servizio pubblico. Possiamo accedervi da remoto, entrando sui social, accedendo ai siti web dell’istituzione o del ministero o entrando in alcune piattaforme digitali (come Google Arts&Culture).

Si parla di riaperture, ma per i luoghi della cultura (non solo musei, ma anche teatri, cinema, spazi pubblici) ci sarà da aspettare ancora un po’ di tempo. A livello internazionale, proposte di ripartenza nel settore museale sono state avanzate dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), nel webinar aperto: “Coronavirus (COVID-19) and museums. Impact, innovations and planning for post-crisis”. Il “Decreto Cura Italia” aveva iniziato a stanziare fondi per i settori dello spettacolo e del cinema e audiovisivo (DL 18/20) e ora nel Decreto Legge Rilancio il Consiglio dei Ministri ha approvato lo stanziamento di 5 miliardi di euro, indirizzati principalmente ai musei statali, alle imprese culturali, alla promozione turistica e agli investimenti. Purtroppo non una parola sulle prospettive di sostenibilità che il settore culturale deve iniziare urgentemente a implementare.

I problemi da affrontare dopo la crisi nel settore museale (la punta dell’iceberg dell’intero mondo della cultura e delle industrie creative che si sono fermate) saranno molti, e non solo in Italia, come riporta The Network of European Museum Organisations (NEMO), tutela e manutenzione, perdite finanziarie (per i grandi musei pubblici si aggira attorno ai 100.000-600.000 euro a settimana), ancora più pregnante diminuzione dei finanziamenti nel settore, per non parlare della drammatica situazione del lavoro culturale. In occasione dell’incontro virtuale con i Ministri Europei della Cultura, lo scorso 22 aprile, il ministro dei beni culturali Dario Franceschini aveva invitato alla ripartenza sotto un’ottica di “Rinascimento globale”. La speranza che questo Rinascimento, basato su cultura ed educazione, ci sia, è anche la speranza che esso avvenga: 1. in netta discontinuità con le precedenti politiche di accentramento di finanziamenti e forza lavoro nei confronti dei grandi musei, ora non disperse sapientemente in tutto il territorio italiano; 2. attraverso il riconoscimento del vasto tessuto di lavoratori culturali che fa vivere questo paese, fatto di artisti, professionalità creative che da sempre non vedono riconoscersi un’identità professionale né i diritti che ne conseguono e di operatori nel settore delle arti e dello spettacolo che raramente hanno conosciuto una realtà lavorativa fuori dal precariato; 3. quanto più possibile ponendo un freno al turismo di massa di cui numerose città italiane conoscono molto bene gli effetti. In poche parole: deve avvenire sotto la parola chiave della sostenibilità ambientale e sociale. Definita come quella “condizione di uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri”, è evidente come questa debba tenere conto non solo degli aspetti tecnologici ma (e direi soprattutto) della società, della cultura, del vivere collettivo. In “Sustainability and Local Development” ICOM riconosce i musei come quei luoghi in grado di “posizionarsi come agenti sociali vitali”. Ecco qui che riaffiora tutto il dibattito sui beni comuni. Ci è molto chiaro in questi tempi di quanto lo sia e lo debbano essere salute, assistenza sanitaria, istruzione. Ma sempre in questi tempi, come dicevamo prima, sappiamo anche quanto debbano essere considerati realmente “comuni” anche quei beni che definiamo “culturali”: storia, conoscenza, arte.

Siamo sicuri che la forma museale come la conosciamo sia l’unica in grado di applicare i principi di sostenibilità? Ripensare al sistema della cultura una volta usciti da questa pandemia è qualcosa che sostengono in molti, tra studiosi e direttori di musei. Per cui è il momento (ma lo era anche prima) di pensare, anche con un po’ di fantasia, a modelli alternativi ai musei tradizionali. Senza proporre alcun rimpiazzo, bisogna senz’altro allungare lo sguardo su tutte quelle numerose realtà museali che coinvolgono direttamente la comunità territoriale, che mettono in luce il “patrimonio” culturale quale bene comune. Gli ecomusei e i musei di comunità. Il coniatore del termine, Hugues de Varine, afferma come il patrimonio culturale “vivo”, una volta integrato nel vivere quotidiano, possa migliorare gli standard di vita, creare occupazione e soddisfare le esigenze della popolazione: “essendo propulsore di sviluppo, il patrimonio dovrebbe essere maneggiato come una risorsa creativa, non rinnovabile, per la stessa comunità nel suo insieme e per ogni suo membro o gruppo interno”. Il pensiero va a quello che viene definito Common Heritage (Patrimonio Comune), e cioè quel patrimonio “che viene identificato come importante per la comunità locale, un villaggio, un distretto, un quartiere, un gruppo etnico, con la totalità della sua popolazione, di qualsiasi origine, stato amministrativo, età o background sociale” (de Varine). Esistono, appunto, queste “piccole” realtà che sono riuscite ad applicare la nozione di bene comune culturale ai concetti di arte, cultura e creatività.

Museo Mare Memoria Viva di Palermo negli spazi dell’ex Deposito Locomotive di Sant’Erasmo.
Museo Mare Memoria Viva di Palermo negli spazi dell’ex Deposito Locomotive di Sant’Erasmo


Museo Mare Memoria Viva di Palermo negli spazi dell’ex Deposito Locomotive di Sant’Erasmo.
Museo Mare Memoria Viva di Palermo negli spazi dell’ex Deposito Locomotive di Sant’Erasmo.

Ma che cosa sono esattamente gli ecomusei? La parola ne unisce due. Una è eco (da oikos, “casa” o anche "ambiente) e l’altra è museo, luogo adibito, secondo la definizione dell’International Council of Museums (ICOM), alla libera fruizione, studio e ricerca sulle testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, acquisendole, conservandole, comunicandole e esponendole “per scopi di studio, educazione e diletto”.Secondo il Documento strategico degli ecomusei italiani: gli ecomusei si configurano come processi partecipati di riconoscimento, cura e gestione del patrimonio culturale locale al fine di favorire uno sviluppo sociale, ambientale ed economico sostenibile; gli ecomusei sono identità progettuali che si propongono di mettere in relazione usi, tecniche, colture, produzioni, risorse di un ambito territoriale omogeneo con i beni culturali che vi sono contenuti; gli ecomusei sono percorsi di crescita culturale delle comunità locali, creativi e inclusivi, fondati sulla partecipazione attiva degli abitanti e la collaborazione di enti e associazioni.

Le prime sperimentazioni di ecomusei risalgono alla fine degli anni Settanta, come approdo finale di quel nuovo modo di pensare tali istituzioni che aveva assunto il nome di Nouvelle Mousélogie. Maurizio Maggi, uno dei teorici italiani, vede nel recente fenomeno di crescita di queste realtà “un movimento di riscoperta autentico della cultura locale, creativo e finalizzato alla conservazione della diversità e che muove dalla riscoperta dell’identità come reazione alla standardizzazione culturale”. Tra le parole chiave di un ecomuseo, infatti, ce ne sono soprattutto due: partecipazione e diffusione. A differenza del museo tradizionale, l’ecomuseo è un sito senz’altro meno istituzionalizzato, più sperimentale, che si incentra tutto sulla nozione di patrimonio come bene diffuso (materiale e non) e che ha alle spalle un grandissimo lavoro di coinvolgimento della cittadinanza. Il punto di arrivo di un ecomuseo è quindi sovrapporre territorio, contesto, conoscenza comune e comunità di riferimento in un unico insieme diversificato. Per gli ecomusei e i musei di comunità il problema di come attrarre pubblico non esiste, oppure è di poco conto. Inventario partecipato, mappe di collettività, porta a porta sono tutti elementi tipici degli ecomusei e dei musei di comunità, in cui le persone e gli abitanti di un determinato territorio non entrano semplicemente “in contatto” con il loro patrimonio, ma contribuiscono a dargli forma, a costruirlo, ad interpretarlo e ad esporlo.

È evidente come queste forme museali incarnino bene il concetto di sostenibilità nella cultura. “La presenza della natura nella maggior parte degli ecomusei e dei musei di comunità fa affidamento esclusivamente sulle materie prime e sull’energia potenziale che fornisce l’ambiente”, scrive Peter Davis, professore emerito di Museologia della School of Arts and Cultures della Newcastle University, facendo riferimento anche al Man and the Biosphere Programmes (MAB) dell’UNESCO.

In Italia, nel 1995 il Piemonte si è dotato, prima Regione in Italia, di una legge di istituzione degli ecomusei (L.R. 31/95 “Istituzione di Ecomusei del Piemonte”) che ne garantisce istituzione da parte del Consiglio Regionale a seguito della valutazione dei progetti effettuata dall’apposito Comitato Scientifico e su proposta della Giunta Regionale. Nel 2007 viene pubblicata la Carta di Catania sulla definizione di ecomuseo e delle sue pratiche. Nel 2016, nell’ambito della 24ª Conferenza Generale ICOM “Musei e paesaggio culturale” di Milano, si è svolto il primo Forum di ecomusei e musei comunitari dai quali esiti è nata l’idea della stesura di una Carta di cooperazione di Milano. Inoltre, all’inizio del 2017 è nata DROPS, una piattaforma mondiale per gli ecomusei e i musei di comunità (incluse le loro reti esistenti o ancora da realizzare e quelle ONG attive sul tema del patrimonio e del paesaggio) con l’obiettivo di “collegare tutti gli ecomusei e le reti regionali e nazionali di tutti gli ecomusei e i musei di comunità, esistenti o ancora da fondare, con le associazioni che lavorano nell’ambito del patrimonio e del paesaggio”.

Lo spazio del bene comune, sotto la cui accezione individuiamo il museo (in quanto bene non escludibile e il cui accesso dovrebbe essere garantito a tutti) appare qui ideale per costruire una piattaforma di governance collaborativa, basata sul reciproco e simultaneo impegno tra e di amministrazioni, cittadini, cooperative di comunità, associazioni, organizzazioni del terzo settore, etc.

C’è da dire che il dibattito su legame tra territorio, comunità e musei ha senz’altro coinvolto varie realtà internazionali, recentemente. Ma già nel 1972, periodo in cui i musei conoscevano un periodo molto proficuo, moltiplicandosi, specializzandosi e richiamando forte attenzione mediatica, aveva luogo a Santiago del Cile una Conferenza dell’ICOM che mise in luce da una parte la centralità del visitatore e come esso debba avere un “ruolo attivo e partecipativo” e dall’altra come il museo debba divenire un “attore sociale” a tutti gli effetti, delineando così un progetto di museo chiamato “museo integral”. Nel 2005, poi, la Convenzione di Faro stava definendo il patrimonio come “un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione” (art. 2), mentre si rafforzava il concetto di responsabilità personale e collettiva (art. 4).

“Il paesaggio della creatività e il percorso artistico e culturale”. Laboratorio dell’Ecomuseo Casilino Ad Duas Lauros a Roma
“Il paesaggio della creatività e il percorso artistico e culturale”. Laboratorio dell’Ecomuseo Casilino Ad Duas Lauros a Roma

Nel dicembre del 2018, l’OCSE e L’ICOM lanciano Culture and Local Development: Maximising the Impact – Guide for Local Governments, Communities and Museums (2019) uno strumento nato per supportare le amministrazioni, i musei e le associazioni locali nell’individuazione di un’agenda per lo sviluppo locale sostenibile, al fine di“valorizzare il ruolo dei musei nella riqualificazione urbana e nello sviluppo della comunità”. Nel settembre del 2019 si tiene invece la 25esima Conferenza Generale dell’ICOM a Kyoto, Giappone, intitolata “Curating Sustainable Futures Through Museums”. Sempre a Kyoto, nella 34esima Assemblea Generale di ICOM, è stata adottata come Prima Risoluzione, quella di garantire sostenibilità implementando l’Agenda 2030 Transforming our World, per ripensare e riformulare i valori, le missioni e le strategie dei musei alla luce di nuovi approcci sostenibili.

Una realtà internazionale più propriamente rivolta all’ambito ecomuseale è senz’altro quella nata nell’ottobre del 2016: “EU-LAC-MUSEUMS: Museums and Community: Concepts, Experiences, and Sustainability in Europe, Latin America and the Caribbean”, un progetto di ricerca e analisi comparate (in collaborazione con ICOM e finanziato dal programma europeo Horizon 2020) che indaga musei medio-grandi e piccoli e le loro rispettive comunità di riferimento, sia in Europa (ad oggi (Portogallo e Svezia) che nelle regioni del Sud e Mesoamerica e dei Caraibi. Eulac infatti sta per “Europe, Latin American and the Caribbean”. Il fine è quello di sviluppare un approccio integrato allo studio dei musei che sia storico e teorico. Tra gli obiettivi, quello di ricercare idee ed esperienze di sostenibilità, stimolare lo sviluppo sostenibile e l’inclusione sociale nel settore museale in aree rurali lontane e nelle isole attraverso il dialogo tra accademici, policy makers, musei e comunità locali.

Teresa Morales Lersch, professoressa e ricercatrice al National Institute of Anthropology and History of Mexico, e parte del team EULAC sostiene che “l’atto di auto-interpretazione collettiva è un atto creativo, affermativo e trasformatore insieme” e che “la memoria collettiva della comunità si ricrea e si espande continuamente. […] Una comunità che riesce a raccontare la propria storia sviluppa strumenti per definire i suoi progetti e difendere i propri interessi. Molti musei di comunità infatti sono il prodotto di mobilitazioni di comunità locali che difendono il loro diritto di gestire il loro patrimonio.” In America Latina, la consapevolezza di appartenere a una comunità assume un significato molto diverso dai paesi europei. Si porta dietro un significato di resistenza e di lotta alle violenze coloniali e alla gentrificazione selvaggia. “Il progetto di creare un museo di comunità”, spiega Morales, “nasce da interessi profondi e dalle preoccupazioni sulla posizione di svantaggio che una comunità ha rispetto ai processi della globalizzazione, così come dal bisogno di vedersi riconosciuti valori ed esperienze”. In queste realtà, riconosce Davis (team EULAC), “gli ecomusei e i musei di comunità si sono spesso originati laddove comunità, cultura e natura erano sotto attacco. Gli attacchi venivano dalla mancanza di lavoro, dal declino delle industrie tradizionali, dall’emigrazione e dallo spopolamento”. È questo il caso del Museo Comunitario Indigeno Yimba Cajc (Rey Currè) in Costa Rica, nato dalle lotte sul territorio degli anni Ottanta e aperto nel 2015, descritto come il luogo in cui “la memoria delle persone è raccontata con la voce e con il lavoro degli abitanti”. Oppure del Centro Cultural Museo y Memoria de Neltume in Cile, che racconta la storia del suo territorio forestale e della sua comunità montana, nata dall’azione di sfruttamento industriale della foresta originaria, e che occupa niente più che gli spazi di una casa, oggi in attesa di essere dichiarata monumento storico. EULAC ha messo a disposizione la consultazione gratuita dello studio “On Community and Sustainable Museums”, in cui è presente una prima sezione di ricerca e una seconda sezione che illustra le varie esperienze di ecomusei e musei di comunità nella zone EULAC di riferimento.

Museo Comunitario Indigeno Yimba Cajc (Rey Currè) in Costa Rica
Museo Comunitario Indigeno Yimba Cajc (Rey Currè) in Costa Rica


Museo Comunitario Indigeno Yimba Cajc (Rey Currè) in Costa Rica
Museo Comunitario Indigeno Yimba Cajc (Rey Currè) in Costa Rica


Centro Cultural Museo y Memoria de Neltume in Cile
Centro Cultural Museo y Memoria de Neltume in Cile


Centro Cultural Museo y Memoria de Neltume in Cile
Centro Cultural Museo y Memoria de Neltume in Cile

Nel contesto italiano, lo squilibrio tra gli investimenti nell’immateriale (come la formazione, la ricerca e la progettazione a lungo termine) e quelli nei beni materiali (ad esempio quelli immobiliari) rischia di produrre a lungo termine uno scollamento tra queste e i loro pubblici. Siamo sicuri che la forma museale classica, come la conosciamo e come siamo sempre stati abituati a conoscerla, sarà quella che in qualche modo soddisferà le esigenze culturali di tutti? Possiamo affermare, in accordo con numerosi museologi, che quello ecomuseale potrebbe essere un modello da seguire da parte di quei siti culturali italiani considerati “minori”, proprio in virtù dell’immensa varietà di pratiche, oggetti, storie e persone che compongono il “nostro” patrimonio. Gli ecomusei fanno sì che la comunità non entri semplicemente “in gioco” (come farebbe con qualsiasi politica di audience engagement dall’alto), ma cessi persino di essere mero “pubblico”, diventando invece co-gestore e punto di riferimento per l’istituzione stessa, che diventa, in modo naturale, promotore di sviluppo socio-culturale e di crescita intellettuale e relazionale.

Tra i molti ecomusei presenti in Italia possiamo segnalare l’ecomuseo urbano Mare Memoria Viva a Palermo, con più di 1200 mq di superficie, che occupa gli spazi di un ex deposito di locomotive ottocentesco. A Roma, nel V Municipio, l’Ecomuseo Casilino invece, si occupa di “ri-valorizzare le aree agricole, naturali e archeologiche contro il progressivo aumento dell’edificazione”, ricercando alternative propositive al consumo di suolo, recuperando le tracce del patrimonio storico-architettonico e archeologico anche attraverso “la ricucitura delle connessioni esistenti tra città e campagna”. Oltre agli ecomusei urbani, c’è poi tutto un altro insieme di realtà completamente immerse nel paesaggio naturale: l’ecomuseo terra del Castelmangno, l’Ecomuseo Val del Lago, l’Ecomuseo del Casentino e tantissimi altri.

Dobbiamo pensare agli ecomusei non come mete esotiche, lontane dal turismo di massa. Ma come quei luoghi che lo mettono in crisi. Che propongono modelli sostenibili diversi che possono coinvolgere in modo capillare la cittadinanza, anche laddove non arrivano le grandi collezioni. Anche l’obiettivo potrebbe apparire una mera creazione-rafforzamento di un’“identità”, è chiaro come questa sia qui svincolata da mere questioni di “appartenenza territoriale”, ma piuttosto appaia incentrata sulla condivisione e la valorizzazione di un bene comune, basata sulla sostenibilità e sulla responsabilità collettiva. Se si teme di chiudersi in un reazionarismo culturale, in realtà gli ecomusei hanno la capacità di sostenere proprio il contrario: cioè che territorio, cultura e relazioni cambiano continuamente, tengono ciò che c’è di buono nel vecchio e si arricchiscono con il nuovo. Un’idea statica della cultura è praticamente un ossimoro vivente. Come scrive bene François Jullien: “la specificità del culturale, a qualunque livello si consideri, è di essere plurale e allo stesso tempo singolare. […] Non esiste una cultura dominante senza che si formi anche (e subito) una cultura dissidente (underground, ‘off’, ecc.). […] La trasformazione è alla base del culturale ed è per questo che non si possono fissare delle caratteristiche culturali né si può parlare dell’identità di una cultura”. E questo, le esperienze ecomuseali lo potrebbero dimostrare bene.


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Giulia Carletti

L'autrice di questo articolo: Giulia Carletti

Storica dell'arte, specializzata in curatela e museologia critica a Milano (con tesi When will we come clean about our purposes?), insegna storia dell'arte nelle scuole secondarie a Roma. Interessata alle politiche culturali e ai loro strumenti di attivazione e trasformazione di una comunità, porta avanti i suoi studi sui beni culturali come beni comuni, collaborando con associazioni attive sul territorio e curando mostre con artisti emergenti a Roma e a Milano, come Ho fissato uno sguardo che stava per scomparire (2017) e Studio. Before but Around (2018).






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